Giorno per giorno – 05 Aprile 2010

Carissimi,

“Abbandonato in fretta il sepolcro con timore e gioia grande, le donne corsero a dare l’annuncio ai suoi discepoli” (Mt 28, 8). All’inizio, su questo tutti gli evangelisti concordano, ci fu il sepolcro vuoto. Il  cui significato è espresso dall’angelo (il messaggero o lo stesso  messaggio):  “Non è qui. È risorto!” (v. 6). A partire da quel sepolcro vuoto inizia (o finisce) il discorso e il cammino di fede, di cui i Vangeli ci presentano una serie di esperienze e di testimonianze. E non importa se esse appaiono discordanti o contradditorie, menzionate da alcuni e taciute da altri. Sicché, uno parla dell’apparizione a Maria di Màgdala e all’altra Maria (Mt 28, 9), l’altro alla sola Maria Maddalena (Gv 20,11). Luca dice che non due, ma tre donne si recarono al sepolcro e videro due uomini in vesti sfolgoranti, ma non Gesù. Secondo Matteo, Gesù, attraverso le donne, dà appuntamento ai suoi in Galilea. Luca dice invece che apparve loro a Gerusalemme (e a due dei suoi sulla strada per Emmaus). Per Giovanni appare, sì, a Gerusalemme, ma, nella redazione finale del Vangelo, aggiunge l’apparizione sul lago di Tiberiade, in Galilea (Gv 21). Paolo, le cui lettere, se rappresentano i più antichi documenti pervenutici, non sono però necessariamente la tradizione più antica, afferma dal canto suo che Gesù “fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le scritture, ed apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli” (1 Cor 15, 4-7), senza far cenno alla testimonianza delle donne e tacendo, lui, del sepolcro vuoto come primo dato di fatto. In compenso aggiunge un’annotazione importante: “Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto” (1 Cor 15, 8). A lui, che non aveva mai visto né conosciuto Gesù, e del quale, se aveva sentito parlare, era solo per via di quella setta di eretici che si era premurato, da buon religioso, di perseguitare. Salvo finire per abbracciarne la fede, appunto dopo quell’incontro, decisivo, con Lui. Il Risorto. Dunque, apparentemente almeno, una bella confusione. Nella quale, per altro, i Vangeli, né le comunità che ce li hanno trasmessi, si sono mai curati di  fare un po’ d’ordine. Ed è un buon segno. Perché il Vangelo, come tutta la Bibbia, non è quella che si chiama un’operazione scientifica o filosofica, ma è la storia di una passione amorosa. Di cui ciascuno(a) ha un ricordo differente (e bisognerà allora descriverne i luoghi, i tempi, le modalità, Gerusalemme, Emmaus, Tiberiade, il monte della Galilea, Betania, Goiás, Roma, Milano, Assisi, Spello…), o, a volte, uguale (e basterà aggiungere un nome: Maria di Màgdala, no, non solo lei, anche Maria di Giacomo, anche Giovanna, e chissà quanti altri, dieci , cento, cinquecento, i vostri nomi e i nostri). La tomba vuota e quel corpo amato che non c’è più. Che, improvvisamente, c’è ancora. Irriconoscibile e diverso. Che cambia le nostre vite. Noi, ieri pomeriggio, si era rivissuto, alla Chácara Paraíso, la storia di una risurrezione. Jonathas, al termine dei nove mesi di trattamento, ha ricevuto la sua Cresima. Come ogni prima domenica del mese, era giorno di visita. Erano perciò presenti gli interni e i loro famigliari, l’equipe di quanti collaborano in diverso modo al loro recupero e Dom Eugenio. Per Jonathas c’era la mamma e una sorellina di pochi anni. La celebrazione si era svolta come sempre, bella e partecipata. Poi, alla fine, c’era stata una parola che doveva in  qualche modo offrire una valutazione del cammino percorso in questi mesi dal giovane ospite che si apprestava a lasciarci. Una parola che, forse, per suonare di maggior elogio per lui, ha voluto evidenziare i limiti e una certa assenza della famiglia nel processo di recupero. La mamma di Jonathas, con in braccio la bimba, aveva ascoltato il tutto, impassibile. Poi  il figlio si è alzato in piedi e ha detto: Vorrei dire qualcosa. E ha raccontato con voce ferma e pacata i suoi trascorsi, prima di decidere di venire qui. E l’inferno in cui aveva trasformato la vita in casa, i furti (persino tutte le cose della sorellina appena nata), le minacce, le violenze, per comprarsi la roba. È stato solo allora, nel ripercorrere attraverso le parole del figlio (e quanto anche altri ci si specchiassero era deducibile dagli occhi lucidi di pianto di molti), l’inenarrabile calvario attraversato, che la madre è scoppiata in singhiozzi. E lui ha avuto solo modo di aggiungere: Ti amo molto, mamma.  Sì, un figlio, con tutti i sogni che rappresenta sempre un figlio, era morto, e in mezzo a quali doglie. E, a lungo, la vita era parsa un sepolcro vuoto. Ma ora, un altro figlio è risorto. E noi possiamo giurare che durerà. Come recita il salmo responsoriale di oggi: “Io pongo sempre davanti a me il Signore, sta alla mia destra, non potrò vacillare. Per questo gioisce il mio cuore ed esulta la mia anima; anche il mio corpo riposa al sicuro, perché non abbandonerai la mia vita negli ínferi, né lascerai che il tuo fedele veda la fossa. Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena alla tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra” (Sal 16, 8-11). Auguri, Jonathas!

 

Oggi è il Secondo Giorno dell’Ottava Pasquale;  i testi che la liturgia propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Atti degli Apostoli, cap. 2,14.22-32; Salmo 16; Vangelo di Matteo, cap. 28,8-15.

 

La preghiera di questo lunedì è in comunione con le religioni del subcontinente indiano: Vishnuismo, Shivaismo, Shaktismo.

 

Oggi il nostro calendario ecumenico ci porta la memoria di un grande figlia dell’India: Pandita Ramabai, maestra di saggezza e riformatrice sociale.    

 

05 PANDITA.jpgRamabai era nata il 23 aprile 1858 a Karnataka, in India,  figlia di un ricco studioso brahmino, Ananta Shastri, e della sua giovanissima moglie. Benché fosse un indù ortodosso, il padre la educò come avrebbe fatto con un ragazzo, insegnandole i testi sacri, poetici e filosofici dell’antichità. Sicché, appena dodicenne, Ramabai sapeva già a memoria centinaia di brani in sanscrito, oltre ad aver imparato il Marathi e altre otto lingue. La sua conoscenza della lingua sacra dell’Induismo le avrebbe guadagnato più tardi il titolo, inconsueto per una donna, di “Pandita”, maestra di saggezza. Durante un lungo viaggio attraverso l’India, Ramabai venne a contatto con le condizioni drammatiche a cui un sistema sociale e religioso antiquato costringeva le donne del suo paese: la sofferenza delle numerosissime vedove-bambine cui era vietato di risposarsi o delle donne destinate a seguire nella morte il coniuge o di quelle costrette a prostituirsi. Questo stato di cose, assieme alla morte per fame del padre e della sorella maggiore, contribuì a minare le credenze religiose che le erano state inculcate nella fanciullezza. Giunta con il fratello, nel 1878, a Calcutta, decise, due anni dopo, in aperta sfida alle convenzioni sociali e religiose, di sposare un avvocato appartenente alla casta dei shudra, ma, dopo soli sedici mesi,  la morte del marito a causa di un’epidemia di colera la lasciò vedova e con una figlia. Da allora Ramabai sentì sempre più forte l’impulso a dare il suo contributo alla lotta per la liberazione della donna in India. Aprì centri per accogliere vedove e orfani a Poona e a Bombay, dove venivano offerti loro un’istruzione di base e un avviamento professionale. Nel 1883 accettò l’invito a visitare l’Inghilterra rivoltole da una congregazione di suore anglicane. Là, dopo uno studio approfondito della Bibbia, chiese di ricevere il battesimo. Diventare cristiana, tuttavia, non significò per lei rinnegare le sue radici, ma incontrare quella Buona Notizia portata ai più piccoli e poveri, che lei vedeva concretamente incarnata nel servizio  reso alle donne e agli esclusi dal sistema sociale vigente. In seguito sarebbero stati i suoi nuovi correligionari i suoi critici più severi, insoddisfatti del suo disinteresse a fare delle sue opere sociali uno strumento di proselitismo. E, coerentemente, nei suoi ultimi anni, avrebbe pregato non per la conversione degli Indú, ma per quella degli indiani cristiani. Dopo aver imparato greco ed ebraico, dedicò gli ultimi quindici anni di vita alla traduzione della Bibbia in lingua Marathi. Il 5 aprile 1922, dopo aver riletto l’ultima bozza, morì. Aveva sessantaquattro anni.

 

È tutto per stasera. Noi ci congediamo con una citazione del Card. Jules-Géraud Saliège , tratta dal suo “Ecrits Spirituels” (Bernard Grasset). Che è, per oggi, il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

La risurrezione è un fatto. Anche la nostra sofferenza è un fatto. Il Calvario è lo sgabello della gloria. I nostri dolori saranno il prezzo dei nostri trionfi. Schiacciando l’egoismo, aumentano la nostra capacità di felicità. Il dolore umano ha un senso. Esso non mira a distruggere la vita; può servire, invece, a chi vi consente, a renderla più intensa e più perfetta. La Risurrezione è un messaggio di gioia. Che esso risuoni sui cuori spezzati, sulle anime in difficoltà, sull’immenso e funebre corteo degli infelici, sull’umanità intera. Risorto! Davvero, egli è risorto. Donna, ridicci questa notizia. Da quando il sole brilla sull’umanità, non se ne è udita una così bella! Se Cristo è risorto, noi risorgeremo con lui. La gioia della Pasqua è la gioia universale. È attraverso il sacrificio che si va alla gloria; attraverso l’abnegazione alla fecondità, attraverso la rinuncia all’amore, attraverso l’amore alla vita. Le nostre ritrosie ci paralizzano, i nostri egoismi ci sminuiscono. Non c’è altra via che conduca alla beatitudine, allo sviluppo completo, alla Vita. È la strada tracciata dalla Risurrezione. I nostri sogni sono meschini; mancano di ambizione; non hanno futuro. Noi li limitiamo a soddisfazioni fugaci, a piaceri effimeri. Noi non viviamo, per paura di morire. Ci ritraiamo perché abbiamo paura delle rinunce necessarie. Non capiamo la bellezza dei rischi da correre. E, potendo essere degli eroi, ci accontentiamo di restare portieri. La guardiola che occupiamo è  tutto il nostro universo; e il gesto meccanico che disegniamo è l’intera misura del nostro sforzo. Eppure noi valiamo assai di più. In ciascuno di noi ci sono i lineamenti di una statua divina, il fermento che trasforma una vita. Che si metta, dunque, in azione il martello dello scultore, e la statua si stagli, splendida, eretta e viva! Attraverso la morte alla vita. (Cardinal Saliège, La Résurrection, message de joie).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 05 Aprile 2010ultima modifica: 2010-04-05T23:26:00+02:00da fraternidade
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