Giorno per giorno – 08 Marzo 2024

Carissimi,
“Allora si accostò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: Qual è il primo di tutti i comandamenti?” (Mc 12, 28-31). Padre José ci chiedeva stasera quale sarebbe stata la nostra risposta e noi si percorreva a memoria i dieci comandamenti, senza riuscire a trovarne uno che valesse davvero la pena di meritare il primo posto. Forse, ha azzardato seu João, quello che è menzionato per primo, avendo cura di inserire il preambolo per intero, che normalmente è omesso: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù. Non avrai altri dèi di fronte a me”(Es 20, 1-2). Omettendolo, si ha l’immagine di un dio un po’ vanesio e geloso. Includendolo, invece, trasmette bene l’impressione che l’unica sua preoccupazione è che noi ci si mantenga liberi da ogni schiavitù, politica, economica, sociale o religiosa che sia. Ma la risposta di Gesù non prende spunto dalle Dieci Parole, che ci sono state consegnate da Mosè, con qualche aggiunta che dev’essere dovuta alla sua penna (o al suo scalpello). Come le pene dei padri punite nei figli fino alla terza e quarta generazione (cf Es 20,5) o alla morte comminata a chi non osservasse il Sabato (cf Es 35, 2). Gesù va sul sicuro, alla formula che sintetizza la fede d’Israele, in cui ci è proposto di amare con tutto il nostro essere al di sopra ogni cosa il Dio d’amore che fonda la nostra libertà (cf Dt 6, 4-5). Ma non si limita a questo, vi aggiunge, facendone un comandamento solo, l’amore per il prossimo, che egli ricava da un altro passo della Bibbia (cf Lv 19, 18). Giovanni, nella sua lettera, lo ripeterà con altre parole: “Chi non ama suo fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo ricevuto da lui: che chi ama Dio ami anche suo fratello” (1 Gv 4, 20-21). Ora, diceva padre Carlos, se un amore ha bisogno di essere comandato è perché non è così naturale come si crede. Esige una nostra decisione, che riguarda atteggiamenti concreti, in risposta a quel comando. La Quaresima è un’occasione per pensare a questo e decidere coerentemente.

Oggi, il calendario ci porta la memoria di Giovanni di Dio, testimone, al servizio degli infermi.

Juan Ciudad era nato l’8 marzo 1495 a Montemor-o-novo, nei pressi di Evora, in Portogallo. Quando ebbe otto anni un chierico lo sottrasse ai genitori ignari, portandolo a Oropesa, nella Nuova Castiglia, e lo affidò alla famiglia di Francisco Cid, sovraintendente al bestiame e al personale addetto, nelle tenute del Conte di Oropesa. Qui il ragazzo restò, dedicandosi alla pastorizia, fino all’eta di 28 anni, quando si arruolò in una compagnia di fanteria al servizio dell’imperatore di Spagna. Le molte disavventure convinsero Juan a lasciarsi alle spalle la carriera militare. Per qualche tempo viaggiò per mezza Europa, fu bracciante in Africa, venditore ambulante a Gibilterra, finché si stabilì a Granada, dove aprì un piccolo commercio di libri. Fu allora che, ascoltando una predica di Giovanni d’Ávila, decise di cambiare radicalmente vita: abbandonò tutto, vendette i suoi beni e coperto di stracci cominciò a mendicare per le vie della città, diventando una sorta di folle per Cristo. E per matto lo presero i suoi concittadini, che lo rinchiusero in manicomio. Questo fu tuttavia un evento provvidenziale per permettere a Juan di scoprire la sua vocazione: dedicarsi all’assistenza di poveri e malati. Per quanto privo di specifiche conoscenze mediche, cominciò ad accogliere malati di ogni tipo, prendendosi cura del loro spirito, per aiutare a risanarne il corpo. Quando morì a cinquantacinque anni, l’8 marzo 1550, i suoi discepoli ed amici fondarono l’Ordine dei Fratelli Ospedalieri, meglio conosciuti come Fatebenefratelli, dal saluto che Giovanni rivolgeva ai passanti quando mendicava aiuto per i suoi malati. Fu canonizzato nel 1690 da papa Alessandro VIII e Leone XIII lo dichiarò patrono degli ospedali e degli operatori di salute.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Osea, cap.14, 2-10; Salmo 81; Vangelo di Marco, cap.12, 28b-34.

La preghiera del Venerdì è in comunione con i fedeli dell’Umma islamica che confessano l’unicità del Dio clemente e ricco in misericordia.

L’8 di marzo è anche la Giornata della Donna. Della sua origine sappiamo solo, come notizia sicura, che l’8 marzo 1908, Clara Essner Zetkin, dirigente del movimento operaio tedesco, e la socialista Rosa Luxemburg organizzarono la Prima Conferenza internazionale della donna. Due anni più tardi, Il 29 agosto 1910, a Copenaghen, dove si tenne la Seconda Conferenza internazionale, tra le proposte approvate vi furono quelle di istituire una giornata internazionale della donna, il diritto universale al voto e il riconoscimento dell’indennità di gestazione anche per le donne non sposate. Giornata quindi di lotta e di rivendicazioni. Nel 1977, poi, l’UNESCO proclamò l’8 Marzo, Giornata internazionale della donna. Che qui ricordiamo, senza mimose e senza cedimenti a un improbabile consumismo, ma per fare memoria delle conquiste raggiunte e di quelle, molte di più, da conseguire ancora. Dall’altra metà del cielo.

È tutto, per stasera. Prendendo spunto dalla celebrazione odierna della Giornata internazionale della donna, scegliamo di congedarci con una citazione di Carter Heyward, una teologa statunitense che è anche, dal 1974, prete episcopale. La sua teologia è fondata sul comandamento dell’amore del prossimo, che incarna Dio fra noi. Gesù esprime questa energia relazionale divina che noi siamo invitati a rivivere in profondità nei nostri rapporti con gli altri, trasformandoci in questo Dio-in-relazione e ripristinando così la potenza di guarigione e di salvezza del Cristo. Di un suo breve saggio, che, con il titolo “Al principio, è la relazione”, integra il volume collettaneo “Il respiro delle donne” (Il Saggiatore), vi proponiamo, nel congedarci un brano, come nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Dio è colui che è (Esodo 3, 14) in relazione con la creazione. Senza creazione, senza umanità il nostro Dio-in-relazione non esiste. Ciò che esiste è solo la rappresentazione di un’ “ipotesi di lavoro”: una deità solitaria, lontana, gnostica che non ha affatto bisogno di amici(che). Il nostro Dio è così radicalmente in-carnato – nella carne, nell’umanità, nel mondo – che, ogni istante, abbiamo la possibilità di mostrargli la nostra amicizia nella creazione, nella liberazione e nella benedizione del mondo. A livello dell’esperienza – cioè dall’interno del vissuto umano, solo punto di vista possibile per noi – la partecipazione deliberata all’instaurazione di una relazione giusta fra di noi rappresenta il nostro amore di Dio. Amare l’umanità significa mostrarsi amici(che) di Dio. L’atto di amare, di manifestare amicizia, di fare regnare la giustizia è il nostro modo di incarnare Dio nel mondo. Nella relazione con Dio, come in qualsiasi altra relazione, Dio è commosso dall’umanita e dalla creazione, come noi siamo commossi(e) da Dio. Con noi, grazie a noi, attraverso di noi, Dio vive, Dio diviene, Dio cambia, Dio parla, Dio agisce, Dio soffre e muore nel mondo. Dire che Dio muore non è solo una metafora; suggeisce, per esempio, che nella morte di ciascuno dei sei milioni di ebrei, è stata in realtà annientata una presenza creatrice, liberatrice e santificante. Distrutta. Uccisa. Letteralmente – realmente, corporalmente, emozionalmente, mentalmente, spiritualmente, sottratta al mondo, per sempre. Dio è morto ad Auschwitz, il che non significa che Dio non fosse all’opera nella liberazione di Auschwitz da parte degli alleati nel 1945. La fedeltà di Dio è il suo carattere attivo nel mondo in qualsiasi luogo, in qualsiasi momento e per tutte le cause in cui l’umanità si sforza di creare, di liberare e di benedire l’umanità. (Carter Heyward, Al principio, è la relazione).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 08 Marzo 2024ultima modifica: 2024-03-08T20:47:37+01:00da fraternidade
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