Giorno per giorno – 02 Marzo 2024

Carissimi,
“Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso” (Lc 15, 29-30). Il protagonista [cattivo] della parabola – qui si dice “vilão” – è lui, il fratello maggiore (che in greco si dice “presbyteros” – ogni allusione ad altro è puramente casuale), così fedele, obbediente e per bene, che la metà basterebbe. Ce lo dicevamo, stasera, nella condivisione della Parola, durante l’Eucaristia presieduta da dom Jeová, il nostro vescovo, che ogni tanto appare qui a celebrare con noi. La parabola infatti è raccontata per quei religiosi che, di Gesù, dicevano scandalizzati: “Costui riceve i peccatori e mangia con loro” (Lc 15, 2). L’altro fratello, che se ne è andato di casa, per godersi, così pensava, la vita, è il meno peggio. Per lo meno, ha un’idea, per quanto sbagliata, di libertà, che è la cosa che più conta. A tempo debito, arriverà a capire che il cammino intrapreso lo portava ad essere più schiavo [per giunta affamato] di quanto non si sentisse a casa del padre. Dom Jeová diceva: se come frutto di questa Quaresima riuscissimo a correggere davvero, e una volta per tutte, nel senso indicato dalla parabola, l’immagine distorta di Dio che ci portiamo dentro, avremmo operato la conversione che ci è chiesta, staremmo nella Chiesa come figli liberi e gioiosi al servizio di Dio e dei fratelli, grideremmo davvero il Vangelo con la nostra vita. Infelicità di Dio che si ritrova ogni volta con figli che vivono la sua paternità come un potere opprimente, invece che come l’incondizionato amore che fonda la nostra libertà. Per convincerci del quale, accetta di consegnarsi nel Figlio alla morte.

Oggi il nostro calendario ci porta la memoria di William Stringfellow, testimone appassionato della Parola; di Engelmar Unzeitig, martire dell’idolatria nazista; e di Shahbaz Bhatti, martire in Pakistan a difesa delle minoranze religiose.

William Stringfellow nacque il 26 aprile 1928 in una famiglia operaia, a Northampton, in Massachusetts. Nonostante le modeste condizioni economiche della famiglia, lavorando e studiando, il giovane William arrivò a frequentare la London School of Economics, prima e l’Harvard Law School, poi. Da qui avrebbe potuto spiccare il volo per una carriera di successo. Scelse invece di vivere ad Harlem, tra negri e ispanici, i ceti più emarginati della metropoli. Si trasferì in un appartamento di 28 metri quadrati, con quattro vecchie suppellettili fuori uso, ma abitato in compenso da migliaia di scarafaggi. Confesserà in seguito: “Mi ricordai che è in posti così che la maggior parte della gente vive, in gran parte del mondo, per la maggior parte del tempo. Ero dunque a casa”. Stringfellow apparteneva alla Chiesa Episcopaliana degli Stati Uniti. Ma la sua non fu una convivenza tranquilla. La sua passione unica per la Parola, la scelta dei poveri, la lotta al razzismo e al sessismo, la critica del clericalismo e la valorizzazione della vocazione laicale nella Chiesa, la denuncia del fondamentalismo, ma anche della superficialità di certa teologia, propensa a leggere americanamente la Bibbia, piuttosto che di comprendere biblicamente l’America, e, non per ultimo, la contestazione della guerra del Vietnam, finirono per alienargli il favore della gerarchia e isolarlo. Ammalatosi di diabete, alla fine degli anni 60, si era nel frattempo ritirato a vivere a Block Island, in una casa che volle chiamare Eschaton. Negli studi che pubblicò in seguito, continuò ad approfondire il tema della svolta costantiniana e delle conseguenze nefaste che essa comportò per la chiesa, adeguando la cristianità ai valori dell’impero e facendone uno strumento per la preservazione dello status quo. Morì il 2 marzo 1985.

Engelmar Unzeitig era nato in Cecoslovacchia, in un distretto di lingua tedesca, il 1° marzo 1911. Entrato in seminario della congregazione missionaria di Marianhill, fu ordinato prete 1l 15 agosto 1939, solo due settimane prima dello scoppio della 2ª Guerra Mondiale. Di fronte al potere turpe che si era insediato nel cuore dell’Europa, il nostro avrebbe potuto scegliere di starsene tranquillo, fingendo di non vederne le nefandezze, o addirittura diventarne strumento e prestargli i suoi servigi, o, infine, dire il suo “no” alto e forte e agire di conseguenza. Fu questo che Unzeitig scelse. Sicché non durò molto in libertà e, nel giugno del 1941 fu spedito a Dachau, sotto l’accusa di aver usato nelle sue prediche “espressioni tendenziose” e, soprattutto, di aver difeso gli ebrei. A Dachau, nel corso della guerra, confluirono circa duecentomila prigionieri provenienti da una quarantina di paesi. Più o meno tremila di costoro, alloggiati in baracche separate, erano ministri di diverse confessioni; tre quarti di essi erano preti cattolici. Fu definito il “più grande monastero del mondo” e si trasformò, nonostante le drammatiche condizioni di vita che lo caratterizzavano, in uno straordinario spazio di dialogo ecumenico, in cui preti cattolici e pastori evangelici insieme pregavano, componevano inni e celebravano il memoriale del Signore, offrendo come potevano il loro servizio pastorale ai compagni di prigionia. Padre Engelmar si dedicò soprattutto ai prigionieri russi, dei quali, pur essendo in maggioranza comunisti, si guadagnò presto la stima e l’amicizia. All’inizio del 1945, scoppiò nel campo di concentramento un’epidemia di tifo. Gli infettati venivano confinati in speciali baracche e abbandonati a loro stessi. Fu avanzata una richiesta di volontari che se ne prendessero cura. Si offrirono venti preti, tra cui padre Unzeitig. Il lavoro era estenuante e senza sosta: lavare i corpi febbricitanti, cercare di alimentarli, ripulire i giacigli, ma anche, ascoltarne le confessioni, offrire gli estremi conforti, benedire i morti. In capo a poche settimane anche padre Engelmar fu infettato, ma, nonostante la febbre violenta, continuò sino alla fine a servire i suoi compagni. Morì il 2 marzo 1945, il giorno dopo del suo compleanno, poche settimane prima della liberazione del campo da parte delle truppe americane.

Shahbaz Bhatti era nato il 9 settembre del 1968, in una famiglia cristiana originaria del villaggio di Kushpur, nel distretto di Faisalabad (Punjab, Pakistan). Fin da giovanissimo, seguendo l’insegnamento e la testimonianza del padre, Jacob, aveva deciso di impegnarsi per la tutela dei diritti delle minoranze oppresse del suo Paese, cristiani, indù, sikhs. Fu tra i fondatori dell’All Pakistan Minorities Alliance (APMA), e del Christian Liberation Front (CPF), oltre che direttore esecutivo del Pakistan Council for Human Rights (PCHR). Per la sua attuazione ricevette numerosi riconoscimenti, fra cui, nel settembre del 2010, il Premio Internazionale della Pace “Simbolo della Pace”. Nel frattempo, nel 2002 aveva aderito al Pakistan People’s Party, la formazione politica più riformatrice del Paese, e nel 2008 fu eletto all’Assemblea Nazionale e nominato Ministro federale per le Minoranze. Nonostante le ripetute minacce di morte da parte delle minoranze fondamentaliste del Paese, soprattutto per la sua opposizione alla famigerata “legge sulla blasfemia”, in vigore dal 1986, non si lasciò intimorire, continuando la sua battaglia contro ogni forma di intolleranza. Il 2 marzo 2011, fu ucciso in un attentato rivendicato dal TTP (Tehrik-i-Taliban Pakistan ). Lasciò scritto nel suo testamento: “Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora – in questo mio sforzo e in questa mia battaglia per aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan – Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo paese”.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Michea, cap.7, 14-15. 18-20; Salmo 103; Vangelo di Luca, cap.15, 1-3. 11-32.

La preghiera del Sabato è in comunione con le comunità ebraiche della diaspora e di Eretz Israel.

È tutto anche per stasera. Noi ci si congeda qui, lasciandovi ad una citazione di William Stringfellow, che troviamo in rete senza ulteriori specificazioni. E che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
L’ascolto è un evento raro tra gli esseri umani. Non si può ascoltare la parola che un altro sta proferendo se ci si preoccupa del proprio aspetto, o di impressionare l’altro, o si cerca di decidere cosa dire quando l’altro smette di parlare, o si discute se ciò che viene detto è vero o pertinente o condivisibile. Queste cose hanno il loro posto, ma solo dopo aver ascoltato la parola mentre viene proferita. L’ascolto è un atto d’amore primitivo in cui una persona si dona alla parola dell’altro, rendendosi accessibile e vulnerabile a quella parola. (William Stringfellow).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 02 Marzo 2024ultima modifica: 2024-03-02T21:50:09+01:00da fraternidade
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