Giorno per giorno – 26 Febbraio 2024

Carissimi,
“Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso. Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio” (Lc 6, 36-38). La perfezione di Dio sta in questa sua misericordia senza fine, senza condizioni né condizionamenti. Che non giudica, non condanna e continuamente perdona, oltre che dare e darsi senza misura. Così che nessuno puó davvero azzardarsi a dirne male. Certo, ci sono pagine della Scrittura che dicono altro, tanto dell’Antico, quanto, ahinoi, del Nuovo Testamento. Del resto, la svolta è così imponente, che tutti devono aver faticato mica male per digerirla (bazzecole, in confronto, le svolte conciliari del secolo scorso). Lo stesso Gesù che, pure, il suo Babbo, lo conosceva da vicino, e non per sentito dire, a volte sembra perdersi tutte le implicazioni che queste sue affermazioni comportano. Sarà dalla croce che riuscirà a dare la pennellata finale, che sistema tutto, uscendosene con quel suo: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”. E il Padre a sbottare: “È proprio mio figlio!”. Stavano uccidendo il Figlio di Dio. Come ogni essere umano (che ne abbia o no coscienza) è figlio di Dio. È come se Lui dicesse: Tu mi togli la vita, io te l’ho già donata. Con il mio perdono. La Quaresima ha questa presunzione: di farci progressivamente entrare in questa logica. Possiamo sempre decidere di darle una chance.

Oggi è memoria di due vescovi e un prete: Antonio de Valdivieso, pastore e martire dell’Evangelo del Regno, in Nicaragua; José Alberto Llaguno, “Pepe”, vescovo inculturato degli indigeni Tarahumara, in Messico; e Giulio Girardi, filosofo e teologo della solidarietà internazionale.

Nato a Villa Hermosa in Spagna, da Antonio de Valdivieso e Catalina Álvarez Calvente, attratto dalla vita religiosa, il giovane Antonio era entrato nel convento domenicano di San Paolo a Burgos, dove aveva studiato, emesso i voti religiosi ed era stato ordinato sacerdote. Inviato in America, passò qualche anno come missionario a Santo Domingo, poi fu inviato in Messico e assegnato alla provincia del Nicaragua, dove si distinse per l’azione in favore della libertà e dignità delle popolazioni indigene. Nominato vescovo di Leon, il 29 febbraio 1544, ricevette la consacrazione dalle mani del profetico Bartolomé de Las Casas, il successivo 8 novembre. Non sarebbe durato molto. Le esortazioni, le pubbliche denunce e le lettere inviate al re Carlo V per invitarlo a por fine agli arbitri e ai maltrattamenti crudeli degli indigeni da parte dei conquistadores, gli attirarono ogni giorno di più l’odio dei connazionali. I più accaniti nemici del vescovo erano i fratelli Hernando e Pedro de Contreras, figli di Rodrigo de Contreras, già governatore del Nicaragua, il cui allontanamento dall’incarico essi addebitavano alle severe denunce di Valdivieso. Raggiunti da un provvedimento di scomunica, i due fratelli, dando ascolto ai suggerimenti di un mestatore, tal Juan Bermejo, ai consigli della loro stessa madre, dona Maria de Peñalosa, nonché di un frate apostata dell’Ordine, Pedro de Castañeda, si recarono, accompagnati da alcuni soldati, alla residenza del vescovo. Trovatolo a colloquio con un frate domenicano e un altro sacerdote, lo accerchiarono e, gettandoglisi addosso, lo pugnalarono a morte. Sopraggiunse la madre, richiamata dal clamore e prese il figlio morente tra le braccia. Antonio ebbe il tempo di recitare il Credo, poi additando il Crocifisso, disse: Affido la mia Chiesa a questo Signore: so che la governerà bene. Aggiunse qualche parola di perdono per i suoi assassini e spirò. Era il 26 febbraio 1550. Gli aggressori saccheggiarono la casa, poi uscirono in piazza gridando: “Libertà” e “Viva il principe Contreras”, dando inizio ad un golpe che durò venti giorni e che finì con la morte dei sediziosi.

José Alberto Llaguno era nato a Monterrey (Nuevo Léon, Messico) il 7 agosto 1925. A 18 anni entrò nella Compagnia di Gesù. Durante la sua formazione trascorse due anni nella regione abitata dagli indigeni rarámuris (o tarahumaras), di cui in seguito sarebbe divenuto vescovo. Ordinato prete nel 1956 e conclusi i suoi studi a Roma, tornò a La Tarahumara, da cui non si sarebbe più allontanato. Lì, gli furono affidate diverse mansioni e ministeri, fino alla sua ordinazione episcopale nel 1975. “Pepe”, come lo chiamavano, entrò nell’anima e nell’universo degli indigeni e la sua preoccupazione maggiore fu da subito quella che esprimerà anche nella sua ultima lettera prima di morire: “Dobbiamo vivere più pienamente, con maggior generosità e dedizione la nostra opzione per i poveri, per le loro culture, per una Chiesa autoctona, in cui l’indigeno, l’emarginato sia davvero suo membro attivo”. Un’opzione che egli cercò di concretizzare incontrando sistematicamente tutte le comunità. Come presidente della Commissione Episcopale per gli Indigeni e come membro del Comitato di Difesa dei Diritti Umani, denunciò torture e omicidi di indigeni e contadini da parte della polizia. Sempre appoggiò un’evangelizzazione inculturata, a partire dalla realtà di La Tarahumara: “un altro mondo” geografico, culturale e ecclesiale, ma pur sempre nella prospettiva della Chiesa messicana e latinoamericana. La sua impronta pastorale e il suo pensiero trovarono ulteriore espressione a Puebla, durante la III Assemblea del CELAM, come responsabile della redazione finale del capitolo sulla “opzione preferenziale per i poveri”. Ammalatosi di cancro, quando seppe dello stato terminale della sua malattia, chiese di essere ricoverato e di morire nel piccolo ospedale di La Tarahumara, dove venivano ricoverati gli indigeni. Morì il 26 febbraio 1992. I suoi funerali, all’aperto, nella splendida cornice delle cime innevate, furono accompagnati dalle danze e dai cori del rituale indigeno.

Giulio Girardi era nato a Il Cairo, da padre italiano e da madre siro-libanese, il 23 febbraio 1926. La sua prima infanzia si svolse tra Parigi, poi, in seguito alla separazione dei genitori, visse con la madre e la sorella, dapprima, a Beirut, poi ad Alessandria d’Egitto, dove frequentò la scuola dai salesiani. Qui maturò la sua vocazione religiosa, che lo portò ad entrare, nel 1939, nell’aspirantato salesiano a Mirabello Monferrato, per proseguire poi tutto il corso degli studi filosofici e teologici, fino all’ordinazione sacerdotale nel 1955, quando era ormai già professore alla Facoltà di Filosofia del Pontificio Ateneo Salesiano, prima a Torino e, dal 1958, a Roma. Dal 1962 gli fu chiesto di coordinare la compilazione dell’enciclopedia internazionale “L’ateismo contemporaneo”; nel frattempo, chiamato come perito al Concilio Vaticano II, collaborò all’ideazione e alla stesura dello Schema XIII, confluito poi nella Costituzione apostolica pastorale Gaudium et Spes, uno dei documenti più significativi dello stesso Concilio. Nel 1966 pubblicò quello che doveva diventare il suo lavoro più noto: “Marxismo e Cristianesimo”. Nel clima di radicalizzazione delle posizioni e di progressiva restaurazione che conobbe il dopo-Concilio, dopo l’estromissione dalla sua congregazione e la sospensione a divinis (1977), Girardi seppe nondimeno, nella fedeltà al Vangelo, mantenersi in costante dialogo con le realtà di base della Chiesa, e in ascolto attento dei molti, che, in situazioni diversissime, vivevano e vivono l’esperienza dell’oppressione, dello sfruttamento e dell’emarginazione, dalla prospettiva e con gli strumenti che gli erano più congegnali. Qui a Goiás, era passato nel 2000, nell’ambito degli incontri del movimento di spiritualità macroecumenica “Assemblea del Popolo di Dio”. Ebbe a scrivere: “Oggi c’è una dominante ‘cultura del realismo’ che il più delle volte sfocia in quella del fatalismo e della rassegnazione. Tra certezze assolute e disperazione c’è una terza strada: quella della scommessa, del rischio, dell’aprirsi un varco, del puntare su ipotesi che si ritengono giuste”. È un po’ il suo lascito spirituale. Colpito da un ictus cerebrale nel 2006, morì a Rocca di Papa, il 26 febbraio 2012, memoria del martirio del vescovo Antonio Valdivieso. Del Centro ecumenico a lui intestato, Girardi, appassionato del Nicaragua uscito dalla rivoluzione sandinista, aveva fatto a lungo la sua seconda casa.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro di Daniele, cap.9, 4b-10; Salmo 79; Vangelo di Luca, cap.6, 36-38.

La preghiera di questo lunedì è in comunione con i fedeli del Sangha buddhista.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura una citazione di Giulio Girardi, tratta dall’introduzione ad una sua riflessione su Macroecumenismo e costruzione della pace svolta all’interno di un gruppo di lavoro sulla teologia della pace. Ed è questo, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
La storia del cristianesimo da Costantino ad oggi è forse il documento più evidente e più clamoroso del rapporto fra monolitismo religioso e violenza: “a partire da Costantino”, cioè da quando il cristianesimo, prima emarginato e perseguitato, diventa religione ufficiale dell’impero. Si apre allora una storia infinita di violenza, esercitata in difesa della “verità rivelata”, quindi in nome di Dio: esercitata contro i seguaci di altre religioni ed anche contro i cristiani che rifiutano di sottomettersi alla dottrina ufficiale. In occasione del giubileo l’attenzione del mondo è tornata a concentrarsi, per esempio, sul destino di personaggi come Gerolamo Savonarola o Giordano Bruno. Le femministe hanno denunciato con forza la caccia alle streghe, come espressione epocale della violenza religiosa contro le donne. Ma probabilmente il momento più significativo e più tragico del rapporto fra monolitismo cristiano e violenza, è quello della conquista dell’America, ricordato e celebrato dalla chiesa cattolica come quella della “prima evangelizzazione” del continente. Significativo e tragico per l’evidenza con cui si manifesta il ruolo della religione nella giustificazione e nell’esercizio della violenza conquistatrice e colonizzatrice. Conquista e colonizzazione sono giustificati, anzi sacralizzati dalla chiesa, perché renderanno possibile l’evangelizzazione di quelle popolazioni. Evangelizzazione necessaria per la loro salvezza, in forza del principio: “fuori della chiesa non vi è salvezza”. E’ quindi il monolitismo della chiesa che legittima e consacra la violenza: sia la violenza politica e militare della conquista, sia la violenza culturale e religiosa implicata nell’evangelizzazione conquistatrice. Il momento della conquista-evangelizzazione è particolarmente significativo e tragico anche per l’entità e molteplicità della violenza che viene scatenata e giustificata in nome della religione. Violenze che i popoli indigeni, nella loro recente presa di coscienza, non esitano a qualificare come genocidi: genocidi fisici, ma anche culturali e religiosi; violenze che il diritto moderno qualifica come crimini contro l’umanità. Finalmente, il momento della conquista-evangelizzazione è particolarmente significativo e tragico perché esso è all’origine della civiltà occidentale cristiana e dei rapporti di dominio che la caratterizzano. La nostra civiltà è segnata nelle sue origini da questo crimine contro l’umanità che è il genocidio fisico, culturale e religioso dei popoli indigeni. (Giulio Girardi, Il macroecumenismo e la costruzione della pace).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 26 Febbraio 2024ultima modifica: 2024-02-26T21:40:48+01:00da fraternidade
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