Giorno per giorno – 20 Febbraio 2024

Carissimi,
“Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano, e rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male” (Mt 6, 9-13). Stasera, ci dicevamo che purtroppo si è fatto del Padre nostro una formula, che si è portati a recitare meccanicamente, senza troppo pensare a ciò che diciamo e a cui dovremmo sentirci impegnati. È una preghiera rigorosamente al plurale, senza perciò che sia possibile un sequestro di Dio a nostro favore, tenendone fuori gli altri. Lui è Padre, Babbo, Papà, ma di tutti. Anche se fossimo solo noi a pregarlo, non possiamo dimenticare gli altri, che non lo pregano, ma che a lui premono anche di più, perché si perdono un pezzo importante della verità. Che è il nostro essere tutti fratelli e sorelle, perché egli ci è Padre. La preghiera chiede appunto che egli ci metta in condizione di testimoniare questa verità, di modo che guardando a noi, possano dire santo il nome di Dio, o anche solo esclamare: come è bella la vita! È il regno che tutti sognano da sempre, in cui c’è vita e vita abbondante per tutti. Questa è del resto la sua volontà, che noi conosciamo dai Vangeli e da Gesù che l’ha incarnata. Volontà che si concretizza nel pane condiviso, nel perdono ricevuto e dato, nella liberazione da ogni male. Cidinha diceva della difficoltà di quel “come” noi perdoniamo, posto quasi a condizione del perdono di Dio. La richiesta è piuttosto nella linea di altre affermazioni di Gesù, del tipo: “Se voi che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il vostro Padre celeste” (Mt 7, 11). In questo caso sarebbe: Perdona a noi i nostri debiti, come anche a noi [che siamo cattivi] capita di perdonare ai nostri debitori. E se non ci capita, perdonaci ugualmente, perché possiamo imparare da te. Così, di perdono in perdono, arriveremo là. Il Regno, infatti, non è una cosa perfetta da subito. Ma è lotta nostra e soprattutto grazia sua.

Oggi il nostro calendario ecumenico ci porta la memoria di Frederick Douglass, profeta del riscatto degli afro-americani.

Frederick Augustus Washington Bailey nacque da una schiava, Hariet Bailey, il 14 febbraio 1818, nella piantagione che Aaron Anthony possedeva a Tuckahoe, nella Contea di Talbot (Maryland, Stati Uniti). Nel 1826, alla morte del padrone, passò in proprietà al genero di questi, Thomas Auld, che lo mandò per alcuni anni a Baltimora, a lavorare alle dipendenze del fratello Hugh, dalla cui moglie, Sophia, il ragazzo apprese di nascosto i primi rudimenti di lettura e scrittura. Tra il 1834 e il 1836 Frederick fu ceduto in affitto ad alcuni coltivatori del Maryland, dove sperimentò sulla propria pelle i metodi violenti con cui venivano trattati gli schiavi e dove cominciò a coscientizzare i suoi compagni sulle tematiche abolizioniste e ad insegnare loro clandestinamente a leggere. Nel 1836, fu mandato a lavorare nei cantieri navali di Baltimora. Qui, conobbe Anna Murray, una ex schiava, con il cui aiuto, nel 1838 riuscì a fuggire al Nord. Raggiunto poco dopo dalla donna, nel settembre dello stesso anno, la sposò. Dalla loro unione sarebbero nati cinque figli. Fu allora che cambiò il cognome, scegliendo Douglass, dal nome del protagonista di un romanzo di Walter Scott. A New Bedford, nel Massachusetts, Douglass cominciò a lavorare come operaio comune, divenendo nel contempo predicatore della Chiesa Metodista Africana di Zion. Entrato nell’associazione antischiavista, fu “scoperto” come valente oratore e cominciò a tenere discorsi in tutto il Nord. Nel 1845 uscì la sua prima autobiografia, che conobbe un successo straordinario. Attraverso questa, i suoi comizi, e il giornale che lanciò due anni dopo, “The North Star”, diede il più decisivo contributo al movimento abolizionista. Fu anche uno dei primi ad appoggiare il movimento per i diritti delle donne, fin dalla sua prima convenzione a Seneca Falls, New York. Nel 1872 divenne il primo afro-americano a concorrere come candidato alla vicepresidenza degli Stati Uniti, assieme a Victoria Woodhull, la prima donna a candidarsi alla presidenza per il Partito degli Uguali Diritti. Nel 1882 morì la moglie Anna e, due anni dopo, Douglass sposò Helen Pitts, una donna bianca che era stata sua segretaria. Morì il 20 febbraio 1895 a Washington.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Isaia, cap.55, 10-11; Salmo 34; Vangelo di Matteo, cap.6, 7-15.

La preghiera del martedì è in comunione con le religioni tradizionali africane.

Come oggi, il 20 febbraio 1896, nasceva Henri de Lubac, gesuita, teologo, a lungo perseguitato dal Santo Ufficio, tenuto lontano dall’insegnamento, riabilitato da Giovanni XXIII, chiamato come perito conciliare al Vaticano II, creato cardinale da Giovanni Paolo II. Scrisse che “la chiesa non ci rivela mai in modo più degno il suo Signore di quanto non faccia nelle occasioni in cui ci offre di rivivere la sua passione”. Noi scegliamo di congedarci, lasciando la parola a lui, con una citazione tratta dal suo “Il dramma dell’umanesimo ateo” (Jaca Book), che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Se noi vogliamo ritrovare un cristianesimo forte, quel “cristianesimo elettrizzante” di cui si è parlato cosí bene, la nostra prima preoccupazione deve essere di non lasciarlo piegare, come oggi è minacciato, nel senso di un cristianesimo di forza. Altrimenti la guarigione non sarebbe che un peggioramento del male. Se la ricerca di un cristianesimo di forza non fosse un tradimento, sarebbe per lo meno una reazione della debolezza. In questo caso è chiaro infatti che, volendo restare nonostante tutto cristiani, non si potrà avere come modello che una pallida imitazione dell’ideale di Forza che si avanza da trionfatore. E cosí si sarà due volte vinti in antecedenza. Invece di rivalorizzare il cristianesimo come ci si proponeva, snaturandolo lo si sarà indebolito. Qui si tratta di ben altra cosa. Si tratta di ridare al cristianesimo la sua forza in noi: questo anzitutto significa che si deve ritrovarlo tale quale è in se stesso, nella sua purità, nella sua autenticità. In fin dei conti quello di cui abbiamo bisogno non è neppure un cristianesimo più virile, più energico, o più eroico o più forte: invece abbiamo bisogno di vivere il nostro cristianesimo più virilmente, più efficacemente, più fortemente, più eroicamente se è necessario, ma di viverlo cosí come è. Non c’è nulla da cambiare, nulla da correggere, da aggiungere (questo però non vuol dire che non si debba approfondirlo senza posa); nulla c’è da adattare alla moda corrente. Bisogna riportarlo a se stesso, nelle nostre anime. Ancora una volta si vede che si tratta di una questione spirituale e che la soluzione è sempre la stessa: dobbiamo ritrovare lo spirito del cristianesimo, nella misura in cui l’abbiamo lasciato perdere. Per questo, noi dobbiamo ritemprarci alle sue sorgenti, ed anzitutto nel Vangelo. Cosí come la Chiesa continuamente ce lo presenta, questo Vangelo ci basta. Solo che, sempre nuovo, esso deve essere sempre ritrovato. I migliori tra quelli che ci criticano, sanno qualche volta apprezzarlo meglio di noi. Essi non gli rimproverano le sue pretese debolezze; rimproverano a noi di non sapere sfruttare abbastanza la sua forza. Sapremo noi comprendere la lezione? (H. De Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 20 Febbraio 2024ultima modifica: 2024-02-20T21:29:56+01:00da fraternidade
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