Giorno per giorno – 11 Febbraio 2024

Carissimi,
“Allora venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: Se vuoi, puoi purificarmi! Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: Lo voglio, sii purificato! E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito” (Mc 1, 40-43). È dubbio che tra le molte malattie della pelle (almeno 72) raggruppate sotto il termine “tzaraath” (la cui radici linguistica significa “colpire” e deve fare riferimento alla punizione del peccato che l’ha determinata), tradotto sommariamente con lebbra, ci fosse anche quello che conosciamo come morbo di Hansen, che parrebbe aver fatto la sua comparsa solo in epoca post-biblica (il ceppo del più antico genoma della lebbra risale al V secolo dopo Cristo). Quali fossero le manifestazioni esterne della malattia di colui che, trasgredendo la legge, si avvicinò quel giorno a Gesù, dopo che, da lontano, aveva gridaro il suo “tamei, tamei”, impuro, impuro (non in senso morale, ma perché impedito dalla sua condizione ad accedere al culto), era evidente si trattasse di un “metzora” cui era proibito entrare nello spazio abitato. Questo non per il pericolo di un contagio (che non esisteva), ma come pena di contrappasso, per la colpa (legata a vario titolo alla maldicenza), che si pensava fosse all’origine della malattia (sulla scorta del racconto che ha come protagonista Miriam, sorella di Mosè, in Nm 12,10). Gesù, che condividesse o meno questa credenza, si lascia muovere a compassione, sente in cuor suo che nessuno può essere escluso dalla comunità umana, perché questo è già morire, viola coscientemente la legge mosaica, considerata di origine divina, purifica con il suo tocco il disgraziato, assumendone con ciò la condizione di impurità. Come chi aiuta un carcerato ad evadere dalla sua prigione, ne diventa correo. Questo gesto anticipa già il significato della morte di Gesù, che per giustificare noi assume la condizione di ingiusto. Stamattina durante la condivisione della Parola, ci chiedevamo quanti di noi sono, o sarebbero, disposti, tendendo la mano, ad assumere la storia, fatta di solitudine e di isolamento, a cui si vedono condannate intere categorie di persone, spesso persino da parte di gente di chiesa, come frutto di una certa interpretazioe della Legge di Dio, a rischio di uscirne noi stessi incompresi ed emarginati. Quel che è certo, la sequela di Gesù è questo che ci chiede.

Le letture che la liturgia di questa 6ª Domenica del Tempo Comune propone alla nostra riflessione sono tratte da:
Libro del Levitico, cap. 13,1-2.45-46; Salmo 32; 1ª Lettera ai Corinzi, 10,31- 11,1; Vangelo di Marco, cap.1,40-45.

La preghiera della domenica è in comunione con tutte le comunità e chiese cristiane.

La Memoria di Nostra Signora di Lourdes, che la Chiesa cattolica celebra oggi è la maniera per ricordare il rendersi presente della madre di Gesù nella nostra vita e in quella della società e magari della Chiesa, per insegnarci come si dovrebbe essere. Presenti sempre anche noi ad ogni necessità altrui. Ridando vita nella nostra storia al Principio della cura. La memoria trae origine dalle apparizioni avute, tra l’11 febbraio e il 16 aprile 1858, da una giovane contadina analfabeta, Bernadette Soubirous. Una giovane sconosciuta, che Bernadette battezzò subito col nome di Aquerò (Quella là), in seguito le si rivelò con un nome ben più difficile a dirsi e ad intendersi: “Que soy era Immaculada Councepciou”. Aggiunse poi che era tempo che il mondo si desse una mossa. Ma il mondo sembra aver continuato imperterrito. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Noi in questo giorno ricordiamo anche Abraham Johannes Muste, profeta di pace e di nonviolenza, e di Marie-Dominique Chenu, teologo del Concilio.

Abraham Johannes Muste nacque l’8 gennaio 1885 a Zierikzee (Olanda), figlio di Adriana Jonker e Martin Muste. All’età di sei anni si trasferì con la famiglia negli Stati Uniti, di cui acquisì la cittadinanza. Sposato ad Anna Huizenga, nel 1909 fu ordinato pastore della Chiesa riformata. Ma, presto, deluso dagli insegnamenti di questa, passò ad essere pastore della Chiesa congregazionale, lasciandosi poi conquistare dal misticismo pacifista della Società degli Amici (quaccheri). A cavallo tra gli anni venti e trenta, si coinvolse nelle lotte del movimento sindacale, scivolando su posizioni marxiste e trozkiste. Finché, un giorno del 1936, entrando in una chiesa durante un viaggio in Europa, sentì più forte che mai la convinzione che era la chiesa la sua vera casa e il suo cammino, con la proposta evangelica della pace e della nonviolenza. Negli anni della proliferazione nucleare, Muste si persuase che il mondo fosse entrato in una nuova epoca buia e che i cristiani erano chiamati a creare piccole oasi di coscienza e ragionevolezza. Ad un cronista che gli chiese un giorno se pensava di cambiare il mondo facendo veglie all’esterno delle basi nucleari, rispose: “Non lo faccio per cambiare il mondo. Lo faccio per impedire al modo di cambiarmi”. Ripetutamente arrestato per le manifestazioni e proteste organizzate, fu anche uno degli artefici dell’opposizione alla guerra in Vietnam. Nel 1966, già ottantaduenne fu arrestato a Saigon, per aver tentato di manifestare davanti all’ambasciata Usa. Morì l’11 febbraio 1967 dopo esser tornato da un viaggio in Vietnam del Nord, dove potè testimoniare di persona gli effetti dei bombardamenti nordamericani. Soleva dire: “Non esiste una via alla pace, la pace è la via”.

Marcel Chenu era nato a Soisy-sur-Seine (Francia), il 7 gennaio 1895. Attratto dalla vita contemplativa, dalla liturgia, dallo studio e dalla vita di comunità, come egli stesso ebbe a confessare in seguito, entrò, diciottenne, nell’Ordine Domenicano, presso il convento di Le Saulchoir, a Kain, in Belgio. Qui fece la sua prima professione religiosa nel 1914, assumendo il nome di Marie-Dominique. Si recò, poi a Roma, a studiare teologia, all’Angelicum, sotto la guida del padre Réginald Garrigou-Lagrange. Fu ordinato presbitero nel 1919. Tornato in patria, l’anno successivo, fu nominato professore al Centro di Studi di Le Saulchoir (che nel 1939, si sarebbe trasferito a Étiolles, nei pressi di Parigi), dove rimase fino al 1942, quando fu costretto ad allontanarsene per la condanna del suo libro Une École de Théologie, uscito nel 1937 e diffuso per altro soltanto in sette/ottocento esemplari tra gli amici e gli allievi. La condanna intendeva colpire le proposte innovative di Chenu sulla necessità di diversi “stili teologici”, imposta dai mutamenti epocali in atto. Lasciato l’insegnamento di Le Saulchoir, Chenu fu assegnato al convento parigino di Saint-Jacques, dal quale fu allontanato nel febbraio del 1954, e inviato a Rouen, per il suo coinvolgimento nella questione dei preti operai. Solo nel giugno del 1962 farà ritorno definitivamente a Parigi. Dal settembre al dicembre dello stesso anno, fu chiamato come perito al Concilio Vaticano II. La Costituzione conciliare Gaudium et Spes risente del contributo della sua teologia dell’incarnazione, della creazione, della praxis, della storia. Quando Chenu compì 70 anni, fu festeggiato alla presenza del cardinal Feltin, che lo lodò per aver accettato umilmente e senza disobbedire le sanzioni imposte da Roma. Chenu balzò in piedi e disse: “Eminenza, non era obbedienza, perché l’obbedienza è una virtù morale, piuttosto mediocre. Era la fede che avevo nella parola di Dio, davanto alla quale gli scontri e gli incidenti di percorso non sono niente. È perché avevo fede in Gesù Cristo e nella sua Chiesa”. Dopo il 1966, padre Chenu visse nel convento di Saint-Jacques, dove morì l’11 febbraio 1990.

Il 13 maggio 1992, Giovanni Paolo II, a cui solo un anno prima era stato diagnosticato il morbo di Parkinson, istituì la “Giornata mondiale del malato”, da celebrarsi l’11 febbraio, nella memoria liturgica della Madonna di Lourdes. Nella lettera che la creava, il papa, tra l’altro, scriveva: “La Chiesa che, sull’esempio di Cristo, ha sempre avvertito nel corso dei secoli il dovere del servizio ai malati e ai sofferenti come parte integrante della sua missione, è consapevole che «nell’accoglienza amorosa e generosa di ogni vita umana, soprattutto se debole e malata, vive oggi un momento fondamentale della sua missione». Essa inoltre non cessa di sottolineare l’indole salvifica dell’offerta della sofferenza, che, vissuta in comunione con Cristo, appartiene all’essenza stessa della redenzione. La celebrazione annuale della “Giornata Mondiale del Malato” ha quindi lo scopo manifesto di sensibilizzare il Popolo di Dio e, di conseguenza, le molteplici istituzioni sanitarie cattoliche e la stessa società civile, alla necessità di assicurare la migliore assistenza agli infermi; di aiutare chi è ammalato a valorizzare, sul piano umano e soprattutto su quello soprannaturale, la sofferenza; a coinvolgere in maniera particolare le diocesi, le comunità cristiane, le Famiglie religiose nella pastorale sanitaria; a favorire l’impegno sempre più prezioso del volontariato; a richiamare l’importanza della formazione spirituale e morale degli operatori sanitari e, infine, a far meglio comprendere l’importanza dell’assistenza religiosa agli infermi da parte dei sacerdoti diocesani e regolari, nonché di quanti vivono ed operano accanto a chi soffre”. A causa delle declinanti condizioni di salute, Benedetto XVI, scelse questo giorno, nel 2013, per annunciare la sua rinuncia al ministero di vescovo di Roma, gesto inedito e profetico nella storia della Chiesa.

Anche, per stasera, è tutto. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura un brano di Marie-Dominique Chenu, tratto dal suo saggio «Le sacerdoce des prêtres-ouvriers» (1954), in “La Parole de Dieu”, t. 2. “L’Évangile dans le temps” (Éd. du Cerf). Lo troviamo riportato nel sito della “Mission de France”, ed è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Se il sacerdozio [dei preti operai] è stato messo in discussione, è sulla base di una definizione che viene presentata come segue: il sacerdozio è una professione che comprende funzioni essenziali: l’adorazione della preghiera, la celebrazione del sacrificio della Messa, il ministero dei sacramenti, l’insegnamento catechistico e pastorale. È evidente che, da questo punto di vista, il sacerdozio dei preti-operai deve apparire come un sacerdozio diminuito, poiché, non essendo a capo di una comunità cristiana costituita, non può esercitare in modo continuativo nessuna delle sue funzioni. […] Non si tratta certo di mettere in discussione le funzioni sopra esposte come costitutive del sacerdozio della Chiesa: questa è una dottrina di fede, nella sostanza stessa della Chiesa. Ma ci rifiutiamo di limitare il sacerdozio alle sue funzioni sacramentali e cultuali perché queste stesse funzioni presuppongono come fondamento e principio vitale la testimonianza della fede, come primo atto della Chiesa di Cristo nel mondo. […] La prima funzione del sacerdozio è dunque quella di dare agli uomini la Parola di Dio, ovunque gli uomini possano ascoltarla, ovunque si trovino. […] La Chiesa è in “stato di missione”; la parola del cardinale Suhard è diventata un leitmotiv […]. È inevitabile che una Chiesa fondata su una solida cristianità sia sorpresa da questo nuovo “stato”; l’apparente declino di questo stato non deve nascondere la speranza che colse l’apostolo di fronte a un nuovo mondo a cui testimoniare Cristo, così come la Chiesa primitiva fu colta dallo Spirito per portare il messaggio evangelico ai “gentili”. Non possiamo accettare di collocare questo atto missionario ai margini delle funzioni proprie del sacerdozio, come un mero episodio preliminare. […] Il sacerdozio non è definito solo dalla sua funzione di continuare sacramentalmente il Mistero di Cristo nelle comunità costituite; ha anche la funzione e la missione di evangelizzare i Gentili. Non è solo la cornice della Chiesa istituita; è la potenza organica del Vangelo tra le nazioni. È chiaro che questo ministero è guidato da un atto primario (e molto difficile) di presenza (nel senso forte che diamo oggi a questa parola): una presenza ecclesiale, che può essere realizzata, nelle circostanze, solo da una comunione di vita. Come possiamo battezzare una civiltà se non entriamo in essa? La presenza non è certo un “insegnamento” (didachè), né un sacramento. Ma è la condizione della parola, compresa la Parola di Dio. È, nel pieno vigore del termine, un’efficace testimonianza di fede. È la prima espressione, spesso silenziosa a parole, ma sempre nei fatti, della vera evangelizzazione e del volto visibile della Chiesa. (Marie-Dominique Chenu, «Le sacerdoce des prêtres-ouvriers»).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 11 Febbraio 2024ultima modifica: 2024-02-11T21:25:59+01:00da fraternidade
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