Giorno per giorno – 09 Febbraio 2024

Carissimi,
“Gli condussero un sordomuto, pregandolo di imporgli la mano. E portandolo in disparte lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e disse: “Effatà” cioè: “Apriti!”. E subito gli si aprirono gli orecchi e parlava correttamente.” (Mc 7, 32-35). Stasera, dicevamo che i segni di cui ci parla Gesù nel racconto dei suoi miracoli alludono sempre ad altro, che dura come insegnamento nel tempo, non sono risorse di autopromozione, da cui lui stesso prende ripetutamente le distanze. Così, le guarigioni, al di là della cura della malattia stessa, che riguarda persone e situazioni specifiche, dicono le condizioni offerte da Gesù, oltre i limiti del tempo e dello spazio, in ordine ad una salvezza che si compie nella storia nostra e del mondo. Stando al Vangelo di oggi, il testo originale non dice propriamente trattarsi di un sordomuto, ma di un sordo che parlava con difficoltà, o qualcosa come borbogliava (moghilálon). Siamo ancora in territorio pagano, come anche noi, oggi, siamo circondati da una marea di idoli. Come lui, anche molti di noi sono sordi alla Parola che dice la salvezza. E grazie a Dio che si sono intermediari (la Chiesa nelle persone concrete che hanno a che fare con noi), che lo (ci) portano a Lui. Il quale è in grado di aprirci gli orecchi per ascoltarla. E c’è una Parola antica che è diventata la professione di fede di Israele, che si apre proprio con l’invito all’ascolto: “Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio. Il Signore è uno solo”. Uno solo per tutti ed è colui che ci ha liberato dalla schiavitù d’Egitto, simbolo di ogni altra schiavitù. Questo Dio bisogna amarlo con tutte le nostre forze, farne la ragione del nostro vivere, affinché non si sia più schiavi di niente e di nessuno. Ma non è finita. Perché c’è un’altra Parola, apparsa dopo, ma che è all’origine dei mondi. Quella che era anche significata dall’Albero della vita. Ed è la parola della Croce: il Dio, cioè, che mi ama a tal punto da lasciarsi uccidere (in comunione con tutti gli uccisi), perché io abbia vita, anche se fossi colui che l’uccide. Parola che dice la volontà ultima d Dio, che tutti si sia salvi, e che è consegnata a noi, perché, resi capaci di udirla, la ripetiamo, coniugandola nelle nostre vite concrete. Non borbogliando più delle verità a metà, che sono già di per sé menzogne. La nostra preghiera di oggi non può essere altro che la richiesta a Gesù di pronunciare anche su di noi il suo Effatà, Apriti.

Il nostro calendario ci porta le memorie di Marone, eremita; di P. Dimitri Andréévitch Klepinine, martire sotto il totalitarismo nazista; e di Felipe Balam Tomás, martire al servizio dei più poveri in Guatemala.

Del monaco Marone, vissuto tra il IV e il V secolo, soppiamo pochissimo. Ammirato da Giovanni Crisostomo, visse come eremita nel deserto siriano, spendendo il suo tempo nella preghiera e nelle pratiche ascetiche. Assai ricercato come maestro spirituale, esercitò un grande influenza sul movimento monastico nella regione di Cirro e di Aleppo. Morì dopo breve malattia e fu sepolto nel monastero di Beth-Morum, nella regione siriana di Apamea, presso la sorgente del fiume Oronte. Sarà qui che, qualche secolo più tardi, cristiani di fede calcedonese, in seguito all’invasione araba della Siria, daranno vita alla chiesa maronita, che venera Marone come suo fondatore.

Dimitri Andréévitch Klepinine era nato il 14 aprile 1904 a Piatigorsk, nel Caucaso – terzo figlio dell’architetto André Nicolaévitch Klepinine, di Sophie Alexandrovna Stépanova, pedagoga di formazione. La sua infanzia fu segnata da un’esperienza precoce della sofferenza e della malattia, che lo rese sempre particolarmente sensibile nei confronti dei deboli e dei perseguitati dalla sfortuna. Gli eventi della rivoluzione russa, portarono la famiglia sulla via dell’esilio, prima a Costantinopoli, poi in Serbia, e infine a Parigi, dove nel 1925, il giovane s’iscrisse all’Istituto di Teologia ortodossa San Sergio, da poco fondato. Suo maestro da allora in avanti fu Serge Boulgakov. Terminati gli studi nel 1929, ottenne una borsa di studio per completare la sua formazione al Seminario teologico di New York. Rientrato all’inizio del 1934 a Parigi, per mantenersi, esercitò i più diversi mestieri. Nel frattempo la sua ricera spirituale lo portò a pensare al sacerdozio. In quegli stessi anni conobbe Tamara Fédorovna Baïmakova, che sposò nel 1937. Nello stesso anno venne ordinato diacono e prete.Lo scoppio della guerra e l’occupazione nazista portarono padre Klepinine a spendere le sue energie per salvare dalla deportazione quanti più ebrei possibile. L’8 febbraio 1943, la Gestapo, durante una perquisizione, trovò in tasca al giovane Youri Skobtsov (figlio di Maria Skobtsova e come lei e P. Dimitri, canonizzato dalla chiesa ortodossa) il biglietto di una donna ebrea indirizzato al prete, in cui gli chiedeva di fornirle un certificato di battesimo. Arrestato assieme al giovane, entrambi sono inviati nel campo di Compiègne, dove il prete prese a celebrare ogni giorno la santa liturgia e l’Ufficio Divino, e ad organizzare corsi di Bibbia e su Gesù Cristo, coinvolgendo un numero crescente di prigionieri. Nel dicembre 1943, i prigionieri vengono trasferiti prima a Buchenwald, poi nel sinistro “Tunnel Dora”, nelle fabbriche sotterranee per la produzione dei razzi V. Lì. padre Dimitri si spese fino all’ultimo per consolare e animare i tristi e gli sconfortati. Le pesanti condizioni di lavoro minarono assai presto il fragile fisico del prete. Il guardiano della baracca che fu testimone dei suoi ultimi momenti racconterà che, il 9 febbraio 1944, lo trovò a terra, incapace di muoversi. Riuscì, tuttavia, a chiedergli di sollevargli la mano per fare il segno di croce. E così morì.

Felipe Balam Tomás era un giovanissimo religioso della Congregazione dei Missionari della Carità. Aveva solo 18 anni, quando, il 9 febbraio 1985, fu sequestrato dalle forze di sicurezza governative nel villaggio Las Escobas, municipio di San Martín Jilotepeque, nel dipartimento di Chimaltenango. Stava animando una celebrazione della Parola, quando tre uomini armati entrarono in chiesa e lo portarono via a forza. Per ottenerne la liberazione si mosse il Nunzio apostolico, e l’arcivescovo di Città del Guatemala, Próspero Penados del Barrio, ma inutilmente. Felipe sparì nel nulla, donando la sua vita di poco più che adolescente, perché anche altri, a partire dalla fede nel Dio della vita, lottassero per la liberazione dei fratelli.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
1° Libro dei Re, cap. 11,29-32; 12,19; Salmo 81; Vangelo di Marco, cap. 7, 31-37.

La preghiera del venerdì è in comunione con i fedeli dell’Umma islamica, che confessano l’unicità del Dio clemente e ricco in misericordia.

Come oggi, il 9 febbraio (28 gennaio per il calendario giuliano) 1881, moriva a San Pietroburgo, Fëdor Dostoevskij, tra i massimi scrittori di tutti i tempi. Che siamo convinti meriterebbe di entrar a far parte delle nostre memorie a tutti gi effetti. Di lui la moglie Anna scriverà che la mattina del suo decesso, le aveva chiesto il vangelo che portava sempre con sé e l’aveva aperto a caso, chiedendole di leggere la pagina incontrata. Ed era: “Giovanni lo trattenne e disse: io devo essere battezzato da te e non tu da me. Ma Gesù gli rispose: non trattenermi…”. A queste parole Fëdor commentò: “Senti Anja, ‘non trattenermi’ vuol dire che debbo morire”.

È tutto, per stasera. Prendendo spunto dalla memoria di P. Dimitri Andréévitch Klepinine, scegliamo di proporvi, nel congedarci, una pagina del teologo ortodosso Pavel Evdokimov, tratto dal suo libro “Sacramento dell’amore” (CENS). Che è così, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
La santità non è altro che la sete inestinguibile, l’intensità del desiderio di Dio. Ogni limite, insegna san Gregorio Nisseno, nel suo nucleo contiene l’esigenza di un oltre, d’una trascendenza, ed è per questo che l’anima non trova pace che nell’infinità attuale di Dio. I santi sono anime di desiderio. Questa nostalgia è innata, si trova in germe al momento del primo destino; e i Padri vigorosamente rilevano che Cristo riprende e ri-vifica ciò che per la colpa aveva subito uno squasso. L’immagine della guarigione è una delle più frequenti nel vangelo; si potrebbe dire che è normativa: risurrezione è guarigione da morte. Perciò la creazione postula l’Incarnazione, per far progredire e proseguire il sinergismo dell’agire divino e dell’umano verso il giorno della parusia, quando il germe giunge a totale maturazione. Il progetto iniziale, en arché (all’inizio) coincide con il suo telos (compimento), l’archeologia con l’escatologia. Dall’ “albero della vita” dell’Eden si va, attraverso l’Eucaristia, ove il frutto viene ridato “verso la mensa senza veli”, il festino del “verso la mensa senza veli”, il festino del Regno (Ap 22, 12). Dalla perfezione iniziale, fragile perché incomscia, si va ferso la perfezione cosciente, ad immagine della perfezione del Padre celeste. L’immagine, fodamento oggettivo, richiama la somiglianza soggettiva, personale. Il germe – creato ad immagne – conduce alla fioritura: “esistere ad immagine” dell’Esistenza. Al “Dio è amore” risponde l’ “amo ergo sum” dell’uomo. “La cosa più grande che ha luogo tra Dio e l’anima è amare e essere amato”. (Pavel Evdokimov, Sacramento dell’amore).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 09 Febbraio 2024ultima modifica: 2024-02-09T21:44:30+01:00da fraternidade
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