Giorno per giorno – 07 Febbraio 2024

Carissimi,
“Gesù, chiamata di nuovo la folla, diceva loro: Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo. Ma sono le cose che escono dall’uomo a contaminarlo. Dichiarava così mondi tutti gli alimenti” (Mc 7, 14-15. 19). Le regole alimentari ebraiche che, suddividono gli alimenti in puri e impuri e costituiscono quella che è detta kasherut, sono le più antiche al mondo e devono la loro autorità al fatto che furono promulgate da Mosè, in nome di Dio. I concetti di puro e impuro, nella normativa ebraica, non hanno nulla a che vedere con la dimensione morale, attengono per lo più alla dimensione rituale, hanno a che vedere, cioè, con ciò che permette o impedisce l’accesso al Tempio (che oggi non esiste più). Le regole alimentari valgono invece ancora oggi e sono forse, assieme all’osservanza del Sabato, tra gli elementi che più contraddistinguono l’identità ebraica. Questo può aiutarci a comprendere lo scandalo che devono aver suscitato negli ascoltatori le parole di Gesù, che contraddicevano apertamente le parole della Scrittura. Molto maggiore di quello che ha sconvolto, con la Fiducia Supplicans (che non arriva neppure a scalfire il sacro dettato) i cardinali Müller, Burke, Sarah e il loro codazzo di improbabili fedeli. Gesù va dritto al cuore del problema: ciò che ci rende impuri non è quanto viene dal di fuori, ma sono i pensieri e le intenzioni del cuore di chi con aggressività si erge, così ritiene, a difesore delle cose d Dio. Questo era già vero per i contemporanei di Gesù, quanto più lo è per chi si vuole suo discepolo. Il Crocifsso è il Dio che si consegna alla morte per amore di amici e nemici. Questa è la nostra fede. Ciò che ce ne distanzia ci rende impuri davanti a Dio, atei di Lui. Come insegna un santo dei nostri giorni, che Papa Francesco ama qualche volta citare, Matta el Meskin: “Credetemi, se l’uomo raggiunge l’amore vero ha raggiunto tutto. Non temete che ciò avvenga a spese della fede, o degli obblighi o dei principi. Il giorno in cui giungerai all’amore, paragonata ad esso ogni cosa ti apparirà come spazzatura (cf Fil 3,8)”.

Oggi il nostro calendario ci ricorda il martirio di Sepé Tiaraju e del suo popolo guaraní; il metropolita Vladimir di Kiev con tutti i nuovi martiri del XX secolo in Russia e Ucraina; e Andraus El Samu’ili, monaco copto e mistico.

Nei secoli XVII e XVIII, i missionari gesuiti, al fine di sottrarre le popolazioni indigene alla schiavitù e allo sfruttamento da parte dei bianchi, crearono nelle colonie spagnole e portoghesi dell’America Latina numerose comunità agricole (reducciones), basate sulla proprietà collettiva della terra e delle macchine, dotate di ampi margini di auto-gestione amministrativa e, soprattutto, tenute separate dal mondo dei colonizzatori. Questo, per proteggerne in primo luogo l’incolumità, ma anche per fornir loro quell’istruzione intellettuale, religiosa, tecnica e associativa che, nella visione dei missionari, doveva più facilmente garantirgli la sopravvivenza. Si trattò, dunque, di un’esperienza improntata all’ideale di un comunitarismo egualitario che risaliva al cristianesimo primitivo. Nel 1732 si contavano una trentina di “reducciones” per un totale di circa 150.000 abitanti. Alla metà del secolo le autorità coloniali, preoccupate per il significato sociale, trasgressivo dell’ ordine esistente, che le “reducciones” andavano assumendo e per il potere alternativo che i gesuiti vi avevano costruito, posero fine con la forza all’esperimento. È in questo contesto che, nel 1753, Sepé Tiaraju prese l’iniziativa dell’insurrezione indigena della “riduccion” guaranì di São Nicolau, la prima a resistere all’ordine di evacuazione e trasferimento sull’altro lato del fiume Uruguay. A São Miguel (Rio Grande do Sul), Sepé guidò l’attacco ai carri che trasportavano le suppellettili della Chiesa, obbligando la comitiva a far ritorno alla missione. Per tre anni fu la figura centrale della resistenza agli imperi portoghese e spagnolo. Il 7 febbraio 1756 morì combattendo sull’ Arroio Caiboaté. In una scaramuccia, il suo cavallo cadde ed egli fu ferito da un soldato con una lancia. Prima di riuscire ad alzarsi fu ucciso con un colpo di pistola dal governatore di Montevideo che comandava la truppa.

Basil Nikiforovich Bogoyavlensky (che assunse in seguito il nome di Vladimir) era nato il 1° Gennaio 1848 nella famiglia del prete Niceforo, nel villaggio di Malaya Morshka, distretto di Morshansky, provincia di Tambov, in Russia. Frequentata la scuola teologica di Tambov e proseguiti brillantemente gli studi nella Facoltà teologica di Kiev, fu per sette anni professore in seminario, si sposò e fu ordinato prete il 13 gennaio 1882. L’8 febbraio 1886, dopo la morte della moglie e dell’unico figlio, entrò nel monastero della Santa Trinità di Kozlov, di cui fu nominato archimandrita. Il 21 maggio 1889 fu consacrato vescovo di Starorussk e, successivamente, esarca di Georgia, metropolita di Mosca, poi di Petrogrado e infine di Kiev. Ovunque, durante il suo ministero pastorale, si preoccupò di proteggere la sua gente, di combattere l’antica piaga dell’alcolismo, di offrire ai fedeli la luce di un genuino insegnamento cristiano. Nelle vicende drammatiche che accompagnarono la rivoluzione bolscevica, seppe mantenersi pastore di pace e di amore, fedele, onesto, tutto dedito a Cristo e alla Chiesa. La notte del 25 gennaio 1918 (7 febbraio nei calendario gregoriano), un gruppo di bolscevichi entrò nelle grotte della Laura di Kiev e arrestò il metropolita. Lungo la strada fu sommariamente processato e condannato a morte. Prima di morire volle benedire i suoi uccisori. Fu il primo di un numero incalcolabile di vittime, soprattutto monaci, preti e vescovi, che nei decenni successivi furono perseguitati, incarcerati, deportati e uccisi.

Yusef Khalil Ibrahim era nato verso il 1887 nel governatorato di Bani Suef, in Egitto. A tre anni era divenuto cieco. Tredicenne, il padre l’aveva mandato al monastero di San Samuele, sull’altopiano del Qalamun, nel sud dell’Egitto, perché, alla scuola dei monaci, imparasse qualcose di utile per la vita. Yusef vi restò fino a ventidue anni, quando scoperta la vocazione monastica, chiese ed ottenne di farsi monaco. Fece dunque la sua professione religiosa e prese il nome di Andraus El Samu’ili. Da allora e fino alla morte la sua vita si svolse all’insegna dell’infanzia spirituale e della perfetta letizia, immersa nella preghiera, nell’abbandono alla volontà di Dio e nell’obbedienza ai fratelli, senza lamentarsi mai di nulla, in ogni circostanza. Lo chiamavano l’ “ospite celeste”, per dire che era già come un angelo. Morì il 7 febbraio 1989.

I testi che la liturgia propone oggi alla nostra riflessione sono tratti da:
1° Libro dei Re, cap. 10,1-10; Salmo 37; Vangelo di Marco, cap. 7,14-23.

La preghiera del mercoledì è in comunione con con quanti, nei più diversi sentieri, operano in favore della pace, della giustizia e della fraternità dei popoli.

Se fosse, come è, fra noi, dom Helder Câmara compirebbe oggi 115 anni, essendo nato a Fortaleza il 7 febbraio 1909. Pur facendone memoria nel giorno della sua pasqua, il 27 agosto, scegliamo di prendere spunto da questa ricorrenza, per proporvi una sua citazione, tratta dal suo libro “Le conversioni di un vescovo” (SEI). Che è, così, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Nell’interno, nelle campagne, vivevamo e ancora viviamo in pieno Medioevo; con grandi signori, baroni e baronesse… Nelle grandi proprietà agricole, c’è la casa grande – la casa del signore – e la senzala, dove vivevano gli schiavi della proprietà. Un giorno volli conoscere personalmente, dall’interno, una di quelle grandi proprietà. Era un engenho de açucar, una piantagione di zucchero. Ci andai per la festa del santo protettore della proprietà, del Padroeiro, come diciamo noi. Volli vivere come vivono i preti di quelle “parrocchie”. Verso le sei di sera, tutti erano riuniti attorno al proprietario e alla sua famiglia. Io ero ospite del proprietario. Dovetti parlare a quei lavoratori che erano riuniti lì senza potersi muovere e senza poter parlare. Dopo il mio discorsetto, il mio sermoncino, invitai tutti alla messa di mezzanotte. Non era Natale, ma era la festa del Patrono. E me ne andai alla casa grande per pranzare alla ricchissima tavola del proprietario, del grande signore, mentre i lavoratori rientravano nelle loro povere case, dove vivono in una condizione sub-umana… Questo avvenne dopo il mio arrivo a Recife, verso il 1964 o il 1965. Avevo voluto vivere personalmente quell’esperienza, per dare una scossa a me stesso. Dopo cena dissi al signore: “Mi scusi, io non voglio affatto ferirla. So che lei non è il solo né il maggior colpevole. Forse i maggiori responsabili siamo noi uomini di Chiesa, che non abbiamo aperto abbastanza gli occhi ai vostri nonni e ai vostri padri… Non dormirò da lei, nella casa grande. Vado alla senzala. Voglio passare la notte in casa di un povero”. Era uno scandalo… Il proprietario non poteva concepirlo. Mi fece una proposta: “Se lei dice che non siamo noi i soli colpevoli, allora mi faccia la cortesia di dormire nella cappella…”. Accettai e dormii nella cappella. Ma in verità nella cappella ero ancora a casa del grande signore, perché apparteneva alla proprietà. Ed era là affinché la religione, con tutte le sue buone parole, aiutasse il popolo a pazientare, a rassegnarsi. L’oppio del popolo… (Dom Helder Câmara, Le conversioni di un vescovo).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 07 Febbraio 2024ultima modifica: 2024-02-07T21:39:30+01:00da fraternidade
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