Giorno per giorno – 26 Gennaio 2024

Carissimi,
“Dopo questi fatti il Signore designò altri settantadue discepoli e li inviò a due a due avanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe perché mandi operai per la sua messe. Andate: ecco io vi mando come agnelli in mezzo a lupi” (Lc 10, 1-3). Il vangelo di oggi è motivato dalla memoria di Tito e Timoteo, compagni di Paolo nei suoi viaggi missionari. Padre José diceva stasera che la designazione e l’invio dei settantadue discepoli è già allusione alla missione tra i pagani della comunità postpasquale. Settanta[due] infatti erano per la geografia di allora i popoli della terra. La missione mira così a condure a unità le dodici tribù di Israele e le settantadue nazioni del mondo, abbattendo, una volta per tutte, ogni muro di separazione, per renderci un’umanità di fratelli e sorelle. È questo l’annuncio e la testimonianza che, come discepoli “designati” nel nome di Gesù, in forza del battesimo, siamo inviati a portare. A incentivarci alla missione c’è la preghiera al Padre perché invii [anche noi come] operai per la messe (l’umanità) che è ormai pronta. La missione non intende fare proselitismo, ma annunciare la presenza-prossimità del regno di Dio, i cui caratteri si danno a conoscere attraverso i comportamenti che Gesù ci richiede: mansuetudine e nonviolenza, semplicità e povertà di mezzi, la proposta della pace, lo spirito comunitario, nella gratuità e condivisionea condivisione, il prendersi cura dei malati.

Il giorno dopo la festa della Conversione di san Paolo, la Chiesa fa memoria di due suoi grandi amici e collaboratori: Timoteo e Tito, apostoli. Noi ricordiamo anche José Gabriel de Rosario Brochero, sacerdote e profeta tra i contadini dell’Argentina. I calendari monastici ricordano la figura di tre grandi riformatori del monachesimo occidentale: Roberto di Molesmes (1028-1111), Alberico (? – 1109) e Stefano Harding (1059-1134), fondatori dei Cistercensi.

Timoteo, figlio di padre pagano e di madre ebrea, di nome Eunice (se dobbiamo prestar credito alle informazioni biografiche delle Lettere Pastorali), era nativo di Listra. Paolo lo prese come aiutante nel corso del suo secondo viaggio missionario e, da allora, egli rimase quasi sempre con lui, salvo quando Paolo lo inviò in missione nelle comunità che aveva fondato e che attraversavano momenti di difficoltà o di contrasto. Secondo la tradizione, divenne guida della comunità di Efeso, dove rimase fino alla fine dei suoi giorni. Tito non è menzionato negli Atti degli Apostoli, ma vi fa cenno, in alcune delle sue lettere, lo stesso Paolo. Originario di Antiochia, Paolo lo inviò in missione, con successo, alla comunità di Corinto, dove era sconosciuto. Più tardi fu messo alla guida della comunità di Creta, dove sarebbe rimasto fino alla morte. Per quel che riguarda le Lettere a Timoteo e a Tito, la maggior parte degli studiosi ritiene non si possano attribuire direttamente all’autoria dell’Apostolo.

José Gabriel de Rosario Brochero nacque il 16 (o il 17) marzo 1840, quarto dei dieci figli di Ignacio Brochero e di Petrona Dávila, una povera coppia di contadini di Santa Rosa de Rio Primero, nella provincia argentina di Cordoba. Entrato in seminario nel 1856, fu ordinato sacerdote nel 1866. Durante il colera che colpì Cordoba nel 1867, si distinse per la sua infaticabile dedizione nell’opera di soccorso a malati e moribondi. Il 24 dicembre 1869 fu nominato curato della parrocchia di San Alberto, nella regione oggi conosciuta come Valle de Traslasierra, e fu ad abitare a Villa del Tránsito. In quell’inospitale regione, in mezzo a una popolazione condannata da secoli alla miseria, cominciò a seminare la semente del Vangelo che germina nella promozione integrale dei suoi parrocchiani. Con allegria e ottimismo, confidando nel Signore, e parlando il linguaggio del cuore, risvegliò in essi la solidarietà fino a trasformarli in una gigantesca famiglia. Arrivarono così a costruire tre scuole, un mulino per la produzione di farina, 66 strade che collegano i diversi municipi, una grande strada di 200 chilometri, numerose chiese e cinque cappelle. Aprirono una rete di canali di irrigazione, tracciarono sentieri che portano alle alte vette, costruirono dighe. Ma, prima di fare tutto questo, edificarono un’enorme casa per esercizi spirituali, capace di ospitare fino 900 persone per volta. I suoi campesinos calati dentro gli esercizi ignaziani: un’apparente pazzia! Lui, il Cura Brochero, fedele alla lezione evangelica, continuò, in assoluta povertà, per quarantacinque anni, a visitare a dorso di mula i suoi parrocchiani dispersi su un territorio di 144 mila chilometri quadrati. Poi si ammalò di lebbra, e divenne cieco. Un giorno disse: Ora ho le valige pronte, posso partire. E morì, il 26 gennaio 1914, a Villa del Tránsito, circondato dai poveri, suoi amici. Centovent’anni prima delle chiese del Continente, aveva scoperto da solo l’opzione dei poveri. Soleva dire: “Dio è come i pidoccchi; sta sulla testa di tutti, ma soprattutto dei poveri”. Morì il 26 Gennaio 1914 a Villa del Tránsito (oggi Villa Cura Brochero). Quando hanno riesumato il suo corpo vecchio e malato, l’hanno trovato intatto. Il che non vuole dire niente, solo uno scherzo di Dio. Che sia detto per inciso, il Cura Brochero è stato canonizzato il 16 ottobr 2016. Noi, come in molti altri casi, avevamo solo anticipato i tempi.

L’abbazia di Cluny, nata all’inizio del sec.X dall’esigenza di ripristinare l’osservanza dell’austera Regola benedettina, in meno di due secoli, si era venuta trasformando in un vero e proprio potentato feudale, un centro finanziario come pochi, i cui monaci, sfruttando il lavoro servile, disponevano di ogni tipo di comfort e, sempre più coinvolti nei loro negozi mondani, oltre che nel fomentare crociate, vivevano dimentichi della loro chiamata a testimoniare la radicalità evangelica. Nel 1075 Roberto, Alberico e altri monaci, che dipendevano da Cluny, si ritirarono a Molesmes, nella diocesi di Langres, fondando una nuova comunità. Presto però il denaro e le donazioni che cominciarono ad affluire anche lì riproposero gli antichi guasti: dissolutezza e indisciplina. Dopo molti tentativi di porvi rimedio, uno, dopo l’altro, Roberto, Alberico e Stefano (che era giunto nella comunità dall’Inghilterra solo nel 1085), preferirono andarsene piuttosto che essere complici della situazione. Più tardi i monaci, ravvedutisi, richiamarono i tre e il monastero tornò ad essere ciò che doveva. Tuttavia, il bisogno di vivere più poveramente e austeramente la vocazione monastica, portò i nostri, nel 1098, a ritirarsi, con altri ventuno monaci, a Citeaux, per fondarvi un nuovo ordine. Nascevano così i Cistercensi. A Roberto, che ne fu il primo abate, il papa Urbano II impose presto di tornare a Molesmes, dove la situazione si era nel frattempo mostrata ingovernabile. Gli succedette Alberico, eletto unanimemente dai suoi compagni. Il lavoro durissimo dei primi tempi (i monaci dovettero disboscare buona parte della foresta, per disporre di terra da coltivare) e le persecuzioni scatenate dai monasteri lassisti non riuscirono a scalfire l’entusiasmo della nuova famiglia monastica. I tre morirono santamente come erano vissuti: Alberico il 26 gennaio 1109, Roberto il 29 aprile 1111 e Stefano il 28 marzo 1134.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono propri della memoria di Timoteo e Tito e sono tratti da:
Lettera a Tito, cap.1, 1-5; Salmo 96; Vangelo di Luca, cap. 10, 1-9.

La preghiera del Venerdì è in comunione con i fratelli della Umma islamica.

È tutto, per stasera. Non avendo a disposizione testi dei santi fondatori dei Cistercensi, vi offriamo in lettura, nel congedarci, un brano di André Louf, che, nella contemporaneità, è uno dei loro discepoli più noti. Tratto dal suo libro “La Vita spirituale” (Qiqajon), è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
È amando se stessi con misericordia, quella stessa che si è sperimentata da parte di Dio al cuore della propria crisi, che si comincia ad amare i propri fratelli. È a partire da quello che si è sofferto personalmente che si ha compassione di coloro che soffrono. Ed è a partire da questa compassione che si può accedere alla contemplazione. Bernardo fa notare che la beatitudine dei misericordiosi precede, nell’evangelo, quella dei cuori puri che vedono Dio. Infatti il cuore ha bisogno di essere purificato dalla misericordia prima di essere in grado di contemplare. Ora, “per avere un cuore misericordioso verso la miseria degli altri, bisogna prima aver riconosciuto la propria”. La dolce condivisione della vita comune si rivela così anzitutto una condivisione della miseria comune: “Nella coscienza della nostra comune debolezza, dobbiamo umiliarci gli uni davanti agli altri, aver compassione gli uni degli altri. Una debolezza inerente alla nostra stessa condizione tutti ci unifica: non ci divida l’orgogliosa autoglorificazione”, scrive Baldovino di Ford in un celebre trattatello interamente dedicato al nostro tema. L’atmosfera della vita comune cistercense è quindi compenetrata di doni che sono tipicamente evangelici, cioè, secondo lo stesso autore: “pazienza reciproca, umiltà reciproca, carità reciproca”. Infatti la percezione e l’accettazione della comune miseria comportano l’esigenza di una comune misericordia. (André Louf, La vita spirituale).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 26 Gennaio 2024ultima modifica: 2024-01-26T21:52:25+01:00da fraternidade
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