Giorno per giorno – 20 gennaio 2024

Carissimi,
“Gesù entrò in una casa e di nuovo si radunò una folla, tanto che non potevano neppure mangiare. Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; dicevano infatti: È fuori di sé” (Mc 3, 20-21). Il vangelo di oggi era costituito solo da questi due versetti, che dicono sia dei famigliari di Gesù, allora, sia, e anche di più, di noi, che abbiamo la pretesa di esserne i famiglari, oggi. Come sapere se siamo davvero dei suoi? La risposta di Gesù l’avremo soltanto alla fine del capitolo. Per il momento, possiamo capire come non debba essere il nostro atteggiamento nei confronti suoi e della sua proposta: quello di crederlo “fuori di testa”, anche senza dirlo, ma rifiutandoci di seguirlo nella sua pratica, e con la pretesa di ridurlo alla nostra, in un cristianesimo dei buoni sentimenti, o delle pie devozioni, o, peggio ancora, di una ideologia armata a sostegno di un potere, che sarebbe da folli mettersi a contestarlo. Le intenzioni sono sempre le migliori, ovviamente: salvare Gesù (e il cristianesimo) da scelte troppo radicali, che porterebbero lui, dove difatti lo portarono, alla croce, e i suoi seguaci nel tempo, alle diverse tonalità di persecuzione: dalla semplice irrisione fino al martirio. Sotto gli occhi soddisfatti di farisei ed erodiani. Stasera, ci chiedevamo: come chi ci vede classificherebbe la nostra sequela di Gesù?

Oggi la comunità fa memoria di Sebastiano, martire a Roma, di Cyprien Michael Tansi, presbitero e monaco, di Octavio Ortiz e compagni, martiri in Salvador, di Khan Abdul Ghaffar Khan (Bacha Khan), profeta di pace e di nonviolenza.

Del martire Sebastiano, nonostante le molte leggende fiorite sulla sua figura, sappiamo solo che fu giustiziato sotto l’imperatore Diocleziano (nell’anno 300) e fu sepolto nelle catacombe che avrebbero preso il suo nome. Ambrogio qualche decennio più tardi lo menziona in un suo commento al salmo 118, dicendo che era di Milano e che preferì lasciare la vita tranquilla per recarsi a Roma e testimoniare la sua fedeltà a Cristo. Questo gli costò la vita.

Iwene Tansi era nato nel 1903 a Aguleri, nello stato di Anambra, in Nigeria. Inviato dai genitori a studiare in una scuola gestita da missionari cattolici, vi conobbe il messaggio cristiano e, a dieci anni, chiese ed ottenne di essere battezzato, prendendo il nome di Michael. Negli anni successivi, mentre proseguiva brillantemente gli studi, s’impegnò sempre più nella vita e nelle attività di base della chiesa locale. A ventidue anni, nonostante l’opposizione della famiglia, entrò nel seminario di Igbariam per essere poi ordinato prete dell’archidiocesi di Onitsha, il 19 Dicembre 1937. Dopo due anni di esperienza a Nnewi, gli fu affidata la cura pastorale di una vastissima regione, che egli per molti anni percorse in lungo e in largo, con mezzi di fortuna, dedicandosi instancabilmente all’annuncio del Vangelo, a organizzare percorsi catechetici, corsi per la preparazione al matrimonio, incontri di discernimento vocazionale e favorendo svariate attività educative. Nel luglio 1950, rispondendo a un invito del suo vescovo, che desiderava trapiantare in Nigeria l’esperienza della vita contemplativa, entrò nell’abbazia trappista di Mount St. Bernard, nella contea di Leichester, in Inghilterra. Dopo tre anni trascorsi come oblato, il 7 dicembre 1952, vi fu ammesso come novizio con il nome di Cyprien. L’8 dicembre 1956, emise i suoi voti solenni. Negli anni seguenti il monaco africano non mancherà di edificare tutti con la sua preghiera e lo spirito di abnegazione, morendo, tuttavia prematuramente, il 20 gennaio 1964, alla vigilia del suo rientro in Africa, come maestro dei novizi nella nuova fondazione di Bamenda, in Camerun.

Octavio Ortiz era nato il 22 marzo 1944, ad Agua Blanca nel municipio di Cacaopera, nel Dipartimento di Morazarán (El Salvador), nella famiglia contadina di Alejandro Ortíz e Exaltación de la Cruz Luna (che persero altri quattro figli durante gli anni sanguinosi della dittatura). Entrato nel seminario di San José de la Montaña, fu il primo a ricevere l’ordinaziaone sacerdotale da mons. Romero che gli affidò in un primo momento la cura pastorale della Comunità di Zacamil e poi quella della parrocchia di El Despertar, alla periferia di Mejicanos. All’alba del 20 gennaio 1979, durante un ritiro, guidato da P. Octavio in un Centro di spiritualità della parrocchia, che vedeva riuniti una trentina di giovani, sopraggiunse una pattuglia dell’esercito che sparò al sacerdote e a quattro studenti e catechisti Ángel Morales, David Caballero, Jorge A. Gómez e Roberto A. Orellana, arrestando gli altri. Dopo il massacro, i soldati fotografarono i cadaveri con accanto le loro stesse armi, per far credere all’opinione pubblica che si trattasse di un gruppo di guerriglieri. Mons. Romero che celebrò i funerali, denunciò l’assassinio e additò nel regime il responsabile della strage.

Khan Abdul Ghaffar Khan era nato nel 1890 nella famiglia di un proprietario terriero, Khan Sahib Baharam Khan, a Utmanzai, un villaggio nei pressi di Peshawar, che oggi è in Pakistan, ma allora era in India, colonia britannica. Benché illetterati, i genitori educarono il giovane Abdul ad una profonda religiosità e al gusto per una vita semplice ed essenziale. Nel 1929, partecipando ad una riunione del Partito del Congresso, Khan fece sua la causa della lotta indipendentista e decise di coinvolgervi la sua gente, i focosi pathan. Con una pretesa, tuttavia, a prima vista assurda: sarebbero stati soldati disarmati, addestrati ad affrontare con coraggio il nemico, senza arretrare né rispondere. I pathan arruolati, che scelsero di chiamarsi Khudai khidmatgar, i servi di Dio, costituirono il primo esercito nonviolento professionale della storia. Promettendo di astenersi da ogni violenza e vendetta, di perdonare chiunque li opprimesse o facesse loro del male, di evitare ogni pigrizia, e di dedicare almeno due ore al giorno ad un qualche servizio sociale, i pathan passavano di villaggio in villaggio, organizzando la popolazione, aprendo scuole, convocando assemblee, insegnando tecniche di nonviolenza, conducendo in tal modo la loro personalissima jihad, la guerra santa tra il bene e il male, che ogni persona è chiamata a combattere nella sua propria coscienza. Il 31 dicembre 1929 i delegati del Congresso indiano dichiararono l’indipendenza, lanciando la parola d’ordine della noncollaborazione e della disobbedienza civile. Seguì una repressione spietata da parte dei britannici. Khan trascorse lunghi periodi in prigionia, ma l’esercito nonviolento dei servi di Dio, che giunse a contare trecentomila membri, non desistette. Quando, alla vigilia dell’indipendenza, la Lega musulmana chiese uno stato confessionale autonomo, Khan e i suoi combatterono la proposta, convinti, come Gandhi, che musulmani e indú avrebbero potuto continuare a convivere. Fu tutto inutile e gli opposti estremismi ebbero la meglio: Gandhi fu ucciso da un indú che l’accusava di essere filomusulmano, e Khan fu imprigionato dal governo musulmano del Pakistan sotto l’accusa di essere filoindú. Avrebbe trascorso quindici anni in prigione e sette in esilio in Afghanistan. Ghaffar Khan morì novantottenne a Peshawar il 20 gennaio 1988 e fu sepolto a Jalalabad, in Afghanistan. Decine di migliaia di persone parteciparono ai suoi funerali e un cessate-il-fuoco fu annunciato in quel Paese dilaniato dalla guerra per permettere lo svolgimento delle solenni esequie. Era stato decorato solo un anno prima con il Bharat Ratna – il più alto riconoscimento civile dello stato indiano.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
2° Libro di Samuele, cap.1, 1-4. 11-12. 19,23-27; Salmo 80; Vangelo di Marco, cap.3, 20-21.

La preghiera del Sabato è in comunione con le comunità ebraiche di Eretz Israel e della diaspora.

Ed è tutto, per stasera. Prendendo spunto dalla memoria del trappista Cyprien Tansi, scegliamo, nel congedarci, di proporvi un brano di Thomas Merton, trappista come lui. Tratto dal suo libro “Vita nel silenzio” (Morcelliana), è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Per l’umiltà il monaco smette d’andare contro la corrente della vita, desiste dalla logorante lotta che finora, sia pure inconsciamente, ha combattuto per affermare sé stesso contro la volontà degli altri, per resistere ai desideri dei suoi superiori, per imporsi come un essere diverso e superiore. Ora non parla più né agisce in nome suo, ma nel nome del suo eterno Padre. Come Gesù, egli trova il suo cibo e il suo nutrimento nel far la volontà di “Colui che mi ha mandato” e con Gesù può dire: “Chi mi ha mandato è con me e non mi ha lasciato solo perché faccio sempre quel che piace a Lui” (Giovanni, 8, 29). Il che non significa che il monaco sia ormai incapace di peccare. La sua debolezza e la sua pochezza gli hanno infatti dimostrato l’impossibilità di realizzare qui sulla terra una condizione di assoluta perfezione morale; come San Paolo, egli è costretto a dire: “Mi diletto nella legge di Dio secondo l’uomo interiore, ma vedo nelle mie membra un’altra legge che fa guerra alla legge della mia mente” (Romani, 7, 22-23). Ma con San Paolo, può anche affermare “Sappiamo che ogni cosa coopera a bene per coloro che amano Dio” (Romani, 8, 28) e: “Volentieri mi glorierò delle mie infermità, affinché abiti in me la potenza di Cristo. Per questo io mi compiaccio nelle mie infermità… e nelle angustie per Cristo; perché quando sono debole è allora che sono potente” (2 Corinti, 12, 9-10). La vittoria dell’umiltà monastica consiste nel pieno consenso all’azione segreta di Dio nella debolezza, nella normalità e nell’insoddisfazione della vita quotidiana; è accettazione della nostra imperfezione, affinché Egli possa farci perfetti a suo modo; è gioia del nostro vuoto che Lui solo può riempire; è la pace nella nostra sterilità, che Lui soltanto rende immensamente fruttuosa, senza che noi si riesca a comprendere come. (Thomas Merton, Vita nel silenzio).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 20 gennaio 2024ultima modifica: 2024-01-20T21:49:15+01:00da fraternidade
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