Giorno per giorno – 10 Febbraio 2023

Carissimi,
“Condussero a Gesù un sordomuto, pregandolo di imporgli la mano. E portandolo in disparte lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e disse: Effatà, cioè: Apriti! E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente” (Mc 7, 32-35). Come sempre, anche stasera ci dicevamo che dobbiamo vederci specchiati nelle diverse situazioni e nei diversi personaggi del Vangelo. Senza fermarci, nel caso di oggi, al racconto del miracolo in sé, ma cercando di scoprire cosa voglia dire per noi. Sarà che quel sordomuto siamo [anche] noi? Il testo originale, più che “muto” (alalon) dice “che parlava con difficoltà” (moghilálon), come succede a chi non è in grado di ascoltare. Ascoltare chi e che cosa?, ci chiedevamo. In gioco, in tutti i testi che stiamo leggendo, e più in generale, nel vangelo e in tutta la Bibbia, c’è la Parola di Dio, che diventa Buona Notizia nel suo figlio, Gesù. Tale ascolto era già la professione di fede di Israele: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6, 4-5). Questo annuncio a cui scegliamo di affidarci e di far nostro non è in funzione di un idolo qualunque che si ponga come despota sulle nostre vite, ma è consegna di noi stessi al Dio che per primo si è messo in ascolto di chi è nel bisogno: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido” (Es 3, 7), convocandoci ad una grande alleanza: “sono sceso per liberarlo” (Es 3,8), che diventa la missione delle nostre vite: liberati per liberare. Per amore (“amerai il Signore tuo Dio”), solo per amore. Gesù é venuto a curare la nostra sordità, che ci ha fatto, così a lungo, farfugliare altre verità, per restituirci al progetto di Dio e alla nostra vocazione umano-divina, che fa della nostra storia un’avventura di libertà.

Oggi il calendario ci porta le memorie di Scolastica, monaca e contemplativa, e di José Maria Llanos, il “prete rosso”.

Scolastica era nata, come il più celebre fratello, Benedetto, a Norcia nel 480 circa e si consacrò giovanissima al Signore. Più tardi, quando il fratello già viveva a Montecassino con i suoi monaci, scelse di fare vita comune in un altro monastero della zona con un piccolo gruppo di donne consacrate. Di lei conosciamo solo le circostanze che precedettero la morte, avvenuta nel 543, per il racconto che ne fece Gregorio Magno (540-604) nei suoi Dialoghi. Racconta l’antico discepolo di Benedetto che Scolastica si recava una volta all’anno a far visita al santo, in un possedimento del monastero, non molto fuori dalla porta, dove il fratello la raggiungeva, ed anche quella volta non era mancata all’appuntamento, rimanendo a parlare con lui, per tutta la giornata, fin dopo cena. Ed essendosi fatto tardi, la donna lo implorò che non la lasciasse, ma che piuttosto si fermasse con lei tutta la notte per continuare a parlare delle cose sante di Dio. Benedetto, però, che era severo quanto basta, rifiutò di accontentarla. Allora Scolastica che era amica di Dio, certo un po’ di più dell’accigliato fratellino, si rivolse direttamente a Colui che non sa dire di no, tanto meno alle lacrime di una donna, sua sposa per giunta. E Lui, com’era prevedibile, per tutta risposta, scatenò un uragano che la metà bastava e la santa, rivolta a Benedetto: Va pure, fratello mio, torna al monastero! E quello di rimando: Briccona di una sorella che sei. E restarono così tutta notte. E poi si congedarono. E lei, tre giorni dopo, morì.

José Maria Llanos era nato il 26 aprile 1906, figlio di un generale di fanteria. Dopo gli studi di Chimica all’Università, decise di entrare nella Compagnia di Gesù. Per un buon lasso di tempo, le sue scelte risentirono dell’influenza dell’ambiente di provenienza. Fu, infatti cappellano del Fronte della Gioventù, e arrivò persino a predicare gli esercizi spirituali al generalissimo Franco. Poi, però, si rese conto dell’emarginazione di gran parte della popolazione, e così mutò radicalmente vita. Il 24 dicembre 1955, nonostante le pressioni contrarie di famigliari e superiori, si trasferì in una baraccopoli alla periferia di Madrid, El pozo del tio Raimundo. Di fronte alla miseria, alle ingiustizie cui potè assistere e vivere di persona, mise in opera una pastorale incardinata nelle lotte e rivendicazioni della sua gente, dando inoltre impulso alla creazione di scuole, associazioni di vicini, collettivi di lotta. Con la casa sempre aperta a tutti: vicini, bambini, persone di ogni classe e condizione, disoccupati, drogati, immigrati. Per non far torto a quelli che lo chiamavano il “prete rosso”, prese la tessera del partito che difendeva la sua gente, e s’iscrisse alle Comisiones Obreras, sotto lo sguardo sospettoso di qualche intellettuale sbilanciatamente organico di certa sinistra, che vide in lui una quinta colonna del Vaticano, per ritrovare l’influenza perduta tra i poveri. Ma lui ne rise, senza farci troppo caso. L’Associazione di vicini, al suo 85º compleanno gli consegnò una targa che diceva: “José María de Llanos venne al Pozo sulla via di Dio, ha inciampato nell’uomo e dandogli la mano arriverà fino a Lui”. E, alla fine, c’è arrivato. Il 10 febbraio 1992. Chiese che sulla tomba mettessero il numero della sua tessera delle Commissioni operaie e quando si avvicinò l’ora del trapasso, disse al gesuita incaricato del suo necrologio: “Fratello, basta solo che ci metta SJ” (Societas Jesu, la sigla della Compagnia di Gesù).

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro di Genesi, cap.2, 18-25; Salmo 32; Vangelo di Marco, cap.7, 31-37.

La preghiera del Venerdì è in comunione con i fedeli dell’Umma islamica, che confessano l’unicità del Dio clemente e misericordioso.

Prendendo occasione dalla memoria di santa Scolastica, scegliamo di proporvi, nel congedarci, un brano di Marie-David Giraud, già badessa nel monastero di Notre-Dame di Jouarre, nella valle della Marca, uno dei luoghi claustrali più celebri dell’universo monastico femminile che si ispira alla regola di san Benedetto. Lo troviamo sotto il titolo “Una storia di radici e di ali” nella collettanea “Dio intimo. Parole di monaci” (Edizioni Messaggero Padova). Ed è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
La Regola di san Benedetto propone di abitare il mondo non come stranieri, senza arte né parte, e neppure come proprietari, comodamente installati, ma come ospiti. Essere ospiti significa non avere la propria origine in se stessi, ma riceverla dagli altri, dall’Altro che è Dio. Ed è vivere di questo dono. Ecco perché la stabilità interiore si traduce in un comportamento, in una relazione di qualità, in un’etica. È un’avventura offerta ad ogni essere umano, ai forti come ai deboli. “Nel monastero, l’abate o la badessa deve guidare e decidere con moderazione. Allora i forti vorranno fare di più e i deboli non si scoraggeranno” (64, 19). Non si tratta di indurre i forti a diventare deboli e i deboli a diventare forti: sarebbe una corsa al rendimento e alla rivalità. Si tratta piuttosto di riconoscere che, nel mondo, e anzitutto in noi stessi, , c’è la forza e la debolzza. Siamo chiamati a farle vivere insieme. È l’alleanza fra le due che crea la comunità e le permette di durare. Forza e debolezza possono essere fonte di vita l’una per l’altra e l’una attraverso l’altra. Il mantenerle insieme è una decisione costitutiva della costruzione di ogni persona, di ogni comunità e della loro durata nella storia. Questa scelta può essere fatta e vissuta solo nell’umiltà. L’umiltà, forza dei deboli e debolezza dei forti. Essa è verità: insegna a restare aperti a se stessi, agli altri e a Dio. (Marie-David Giraud, Una storia di radici e di ali).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 10 Febbraio 2023ultima modifica: 2023-02-10T22:48:22+01:00da fraternidade
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