Giorno per giorno – 11 Marzo 2021

Carissimi,
“Gesù stava scacciando un demonio che era muto. Uscito il demonio, il muto cominciò a parlare e le folle furono prese da stupore. Ma alcuni dissero: È per mezzo di Beelzebùl, capo dei demòni, che egli scaccia i demòni. Altri poi, per metterlo alla prova, gli domandavano un segno dal cielo” (Lc 11, 14-16). Il demonio muto in questione è quello che impedisce di ascoltare e poi pronunciare l’unica parola di verità che dà senso a tutta l’esistenza: Abbà, Padre! Trasmessa da Gesù, attraverso un vero e proprio esorcismo, di cui l’Effatà battesimale è segno efficace, ci libera dalla menzogna che ci fa prigionieri di noi stessi, dominati dal nostro egoismo, separati dagli altri, a loro ostili, e ci rende capaci di vivere relazioni di fraternità con tutti. Chi vive una religiosità alienata o comunque succube all’ideologia del Potere, religioso o mondano che sia, ovvio che denuncerà questa liberazione come opera del diavolo, variamente identificato. Il vangelo ce ne rende avvertiti, facendoci inoltre sapere che la sfida non è vinta una volta per tutte, anzi, le difficoltà aumenteranno dopo la prima, temporanea, conquista della libertà, propiziataci dalla Parola di salvezza, dato che sono troppi coloro che desiderano mantenerci o ridurci nuovamente in uno stato di schiavitù. Come ci è dato sperimentare tanto nella vita sociale, quanto in quella famigliare e personale. “Chi non è con me, è contro di me; e chi non raccoglie con me, disperde” (v.23). Categorico: non ci sono mezze misure. Solo condividendo nella concretezza del quotidiano la fede di Gesù nella paternità di Dio e nella fratellanza universale, si può avere la certezza di veder da Lui ratificata la nostra testimonianza del Regno. Diversamente, si è solo venditori di fumo.

Oggi noi facciamo memoria di James Reeb, pastore e martire per la giustizia negli Stati Uniti.

James Reeb era nato a Wichita, nello Stato del Kansas (USA), il 1° gennaio 1927. Pastore unitariano universalista, Reeb era militante nel movimento per i diritti civili. Chi lo conobbe lo descrive come una persona sensibile e benevolo con tutti, e uno spirito costantemente in ricerca. Era stato cappellano presbiteriano in un Ospedale di Filadelfia, poi pastore ausiliare della Chiesa Unitariana Universalista, a Washington, dove aveva profuso le sue energie soprattutto nell’impegno sociale. Fu lì che scoprì la sua vocazione, maturando la decisione di trasferirsi a Boston, per lavorare in un progetto della Società degli Amici (Quaccheri) a favore della popolazione afro-americana. Nel marzo 1965, Martin Luther King indisse una marcia di protesta per affermare il diritto al voto della popolazione negra dell’Alabama. La manifestazione, proibita dal governatore George Wallace, doveva partire da Selma per raggiungere la capitale, Montgomery. Il primo tentativo fu selvaggiamente respinto dalla polizia il 7 marzo. Le immagini del brutale intervento furono trasmesse dalle televisioni di mezzo mondo ed anche James Reeb le vide. Ne fu scosso a tal punto che decise di prendere il primo volo per essere anche lui presente e dare il suo sostegno a quella mobilitazione. La sera del 9 marzo, lui e altri due pastori, si stavano recando alla chiesa dove era previsto un discorso di King, quando furono affiancati da quattro uomini bianchi: “Negri, ehi, negri, un momento….”. Fu inutile affrettare il passo. Una raffica di bastonate si abbattá sui tre malcapitati. Per Reeb non ci fu nulla da fare. Perse immediatamente conoscenza. Sarebbe morto, l’11 marzo, all’ospedale di Birmingham, lasciando la moglie, Mary, e quattro figli, John, Karen, Anne e Steven. Il processo che portò alle sbarre tre dei responsabili dell’aggressione, si concluse, dopo una riunione in camera di consiglio durata un’ora e mezza, con la sentenza di assoluzione. In una Autobiografia di Gandhi che teneva con sé, Reeb aveva a suo tempo sottolineato queste parole: “Tutti i piaceri e i possessi impallidiscono e diventano nulla a confronto con il servizio reso in spirito di gioia”.

I testi che la liturgia propone oggi alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Geremia, cap.7, 23-28; Salmo 95; Vangelo di Luca, cap.11, 14-23.

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

È tutto, per stasera. Non avendo sottomano citazioni di James Reeb, scegliamo di proporvene una del teologo metodista afroamericano James Hat Cone. Tratta dal suo libro “La teologia nera della liberazione e Black Power”(Editrice Claudiana), è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Quel che sorprende nei titoli dati a Gesù nel Nuovo Testamento, è la loro dimensione di liberazione. Per esempio, Cristo il Signore – un titolo postpasquale – sottolinea la sua autorità illimitata su tutto il creato. Tutti gli son sottoposti. Il Signore è colui che “governa”, che “comanda”, che ha autorità assoluta. Se “Gesù è il Signore”, come afferma una delle più antiche professioni di fede pronunziate al momento del battesimo, che cosa significa per i rapporti fra neri e bianchi in America? Il suo significato è anche troppo evidente per richiedere commenti. Significa semplicemente che i bianchi non hanno autorità sui neri. Noi siamo obbligati unicamente nei confronti di colui che è diventato simile a noi in tutto, particolarmente nell’esser nero. Prendere sul serio la signoria di Cristo, o la sua filialità, o la sua messianità, vuol dire considerarlo come l’unico criterio per un’esistenza autentica. Se egli è il servo sofferente di Dio, è un uomo oppresso che ha assunto proprio quella forma di esistenza umana che è all’origine dell’umana sofferenza. Allora dobbiamo chiederci: “Qual è la forma di umanità che rappresenta la sofferenza umana nella nostra società? Non è l’esser neri?”. Se Cristo è veramente il servo sofferente di Dio che prende su di sé le sofferenze del suo popolo, e così ristabilisce l’alleanza di Dio, deve essere nero. Per capire il vero significato di quest’affermazione, senza impantanarci nell’emozionalismo razziale, basta che ci domandiamo: “È possibile parlare di sofferenza in America senza portare il discorso sul significato della condizione nera? Possiamo veramente credere che Cristo è il servo sofferente per eccellenza, se non è nero?”. La teologia nera sostiene che la nerezza è l’unico simbolo che non si può trascurare se si vuol prender sul serio il significato cristologico di Gesù Cristo. (James Cone, La teologia nera della liberazione e Black Power).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 11 Marzo 2021ultima modifica: 2021-03-11T22:24:37+01:00da fraternidade
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