Giorno per giorno – 02 Marzo 2021

Carissimi,
“Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini” (Mt 23, 2-5). A leggere il vangelo di oggi, la tentazione immediata è di farne un semplice riferimento alla situazione vissuta da Gesù e quindi al suo tempo. E invece no. Già il fatto che l’evangelista ne richiami l’insegnamento, è perché lo trova di attualità per la comunità post-pasquale, e per le comunità che seguiranno. La cattedra non sarà più quella di Mosè, né ci saranno più scribi e farisei in quanto tali, ma ci sarà chi si arrogherà la funzione da essi allora ricoperta, con un uguale spirito. Altra tentazione è quella di attribuire quanto denunciato da Gesù agli altri e, più specificamente, a chi, nelle chiese, ricopre incarichi di responsabilità. E, anche in questo caso, si tratta di una scappatoia troppo facile. Il vangelo ci riguarda tutti in prima persona e, in questo caso, le cattedre sono quelle da cui facilmente pontifichiamo su ciò che soprattutto gli altri dovrebbero fare. Per meritare il nostro riconoscimento. Senza che, per altro, noi ci si senta chiamati in causa, né che ci si disponga ad aiutare quanti, così facilmente, carichiamo di doveri e di obblighi. Questo vale in ogni ambito, in chiesa, certo, ma anche in famiglia, sul lavoro, e in ogni altro spazio e attività sociale. Sappiamo tutti, per esperienza personale, quanto sia facile parlare di spirito di servizio, di condivisione fraterna e solidale, di amore incondizionato, di generosità nel perdonare, di pace e riconciliazione, arrivando, col nostro bel parlare, a suscitare persino una certa ammirazione degli altri (e sembra essere ciò che più conta), salvo ritrovarci subito dopo prigionieri della logica contraria. Beh, Gesù ce ne rende avvisati: guardatevi da voi stessi! La buona notizia è che si può cominciare a cambiare.

Oggi il nostro calendario ci porta la memoria di William Stringfellow, testimone appassionato della Parola; di Engelmar Unzeitig, martire dell’idolatria nazista; e di Shahbaz Bhatti, martire in Pakistan a difesa delle minoranze religiose.

William Stringfellow nacque il 26 aprile 1928 in una famiglia operaia, a Northampton, in Massachusetts. Nonostante le modeste condizioni economiche della famiglia, lavorando e studiando, il giovane William arrivò a frequentare la London School of Economics, prima e l’Harvard Law School, poi. Da qui avrebbe potuto spiccare il volo per una carriera di successo. Scelse invece di vivere ad Harlem, tra negri e ispanici, i ceti più emarginati della metropoli. Si trasferì in un appartamento di 28 metri quadrati, con quattro vecchie suppellettili fuori uso, ma abitato in compenso da migliaia di scarafaggi. Confesserà in seguito: “Mi ricordai che è in posti così che la maggior parte della gente vive, in gran parte del mondo, per la maggior parte del tempo. Ero dunque a casa”. Stringfellow apparteneva alla Chiesa Episcopaliana degli Stati Uniti. Ma la sua non fu una convivenza tranquilla. La sua passione unica per la Parola, la scelta dei poveri, la lotta al razzismo e al sessismo, la critica del clericalismo e la valorizzazione della vocazione laicale nella Chiesa, la denuncia del fondamentalismo, ma anche della superficialità di certa teologia, propensa a leggere americanamente la Bibbia, piuttosto che di comprendere biblicamente l’America, e, non per ultimo, la contestazione della guerra del Vietnam, finirono per alienargli il favore della gerarchia e isolarlo. Ammalatosi di diabete, alla fine degli anni 60, si era nel frattempo ritirato a vivere a Block Island, in una casa che volle chiamare Eschaton. Negli studi che pubblicò in seguito, continuò ad approfondire il tema della svolta costantiniana e delle conseguenze nefaste che essa comportò per la chiesa, adeguando la cristianità ai valori dell’impero e facendone uno strumento per la preservazione dello status quo. Morì il 2 marzo 1985.

Engelmar Unzeitig era nato in Cecoslovacchia, in un distretto di lingua tedesca, il 1° marzo 1911. Entrato in seminario della congregazione missionaria di Marianhill, fu ordinato prete 1l 15 agosto 1939, solo due settimane prima dello scoppio della 2ª Guerra Mondiale. Di fronte al potere turpe che si era insediato nel cuore dell’Europa, il nostro avrebbe potuto scegliere di starsene tranquillo, fingendo di non vederne le nefandezze, o addirittura diventarne strumento e prestargli i suoi servigi, o, infine, dire il suo “no” alto e forte e agire di conseguenza. Fu questo che Unzeitig scelse. Sicché non durò molto in libertà e, nel giugno del 1941 fu spedito a Dachau, sotto l’accusa di aver usato nelle sue prediche “espressioni tendenziose” e, soprattutto, di aver difeso gli ebrei. A Dachau, nel corso della guerra, confluirono circa duecentomila prigionieri provenienti da una quarantina di paesi. Più o meno tremila di costoro, alloggiati in baracche separate, erano ministri di diverse confessioni; tre quarti di essi erano preti cattolici. Fu definito il “più grande monastero del mondo” e si trasformò, nonostante le drammatiche condizioni di vita che lo caratterizzavano, in uno straordinario spazio di dialogo ecumenico, in cui preti cattolici e pastori evangelici insieme pregavano, componevano inni e celebravano il memoriale del Signore, offrendo come potevano il loro servizio pastorale ai compagni di prigionia. Padre Engelmar si dedicò soprattutto ai prigionieri russi, dei quali, pur essendo in maggioranza comunisti, si guadagnò presto la stima e l’amicizia. All’inizio del 1945, scoppiò nel campo di concentramento un’epidemia di tifo. Gli infettati venivano confinati in speciali baracche e abbandonati a loro stessi. Fu avanzata una richiesta di volontari che se ne prendessero cura. Si offrirono venti preti, tra cui padre Unzeitig. Il lavoro era estenuante e senza sosta: lavare i corpi febbricitanti, cercare di alimentarli, ripulire i giacigli, ma anche, ascoltarne le confessioni, offrire gli estremi conforti, benedire i morti. In capo a poche settimane anche padre Engelmar fu infettato, ma, nonostante la febbre violenta, continuò sino alla fine a servire i suoi compagni. Morì il 2 marzo 1945, il giorno dopo del suo compleanno, poche settimane prima della liberazione del campo da parte delle truppe americane.

Shahbaz Bhatti era nato il 9 settembre del 1968, in una famiglia cristiana originaria del villaggio di Kushpur, nel distretto di Faisalabad (Punjab, Pakistan). Fin da giovanissimo, seguendo l’insegnamento e la testimonianza del padre, Jacob, aveva deciso di impegnarsi per la tutela dei diritti delle minoranze oppresse del suo Paese, cristiani, indù, sikhs. Fu tra i fondatori dell’All Pakistan Minorities Alliance (APMA), e del Christian Liberation Front (CPF), oltre che direttore esecutivo del Pakistan Council for Human Rights (PCHR). Per la sua attuazione ricevette numerosi riconoscimenti, fra cui, nel settembre del 2010, il Premio Internazionale della Pace “Simbolo della Pace”. Nel frattempo, nel 2002 aveva aderito al Pakistan People’s Party, la formazione politica più riformatrice del Paese, e nel 2008 fu eletto all’Assemblea Nazionale e nominato Ministro federale per le Minoranze. Nonostante le ripetute minacce di morte da parte delle minoranze fondamentaliste del Paese, soprattutto per la sua opposizione alla famigerata “legge sulla blasfemia”, in vigore dal 1986, non si lasciò intimorire, continuando la sua battaglia contro ogni forma di intolleranza. Il 2 marzo 2011, fu ucciso in un attentato rivendicato dal TTP (Tehrik-i-Taliban Pakistan ). Lasciò scritto nel suo testamento: “Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora – in questo mio sforzo e in questa mia battaglia per aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan – Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo paese”.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Isaia, cap. 1,10.16-20; Salmo 50; Vangelo di Matteo, cap. 23,1-12.

La preghiera del martedì è in comunione con le religioni tradizionali del Continente africano.

È tutto anche per stasera. Noi ci si congeda qui, lasciandovi ad una citazione di William Stringfellow, tratta dal suo libro “A Keeper of the Word” (William B. Eerdmans Publishing Company). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Ricordate che lo Stato ha un solo potere che può usare contro gli esseri umani: la morte. Lo Stato può perseguitarvi, processarvi, imprigionarvi, esiliarvi e giustiziarvi. Tutte queste cose hanno lo stesso significato. Lo Stato può consegnarvi alla morte. La grazia di Gesù Cristo in questa vita è che la morte fallisce. Non c’è niente che lo Stato possa fare a voi o a me, di cui dobbiamo aver paura. (William Stringfellow, A Keeper of the Word. Selected Writings).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 02 Marzo 2021ultima modifica: 2021-03-02T22:01:01+01:00da fraternidade
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