Giorno per giorno – 20 Gennaio 2021

Carissimi,
“Gesù disse all’uomo che aveva la mano inaridita: Mettiti nel mezzo! Poi domandò loro: È lecito in giorno di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o toglierla? Ma essi tacevano. E guardandoli tutt’intorno con indignazione, rattristato per la durezza dei loro cuori, disse a quell’uomo: Stendi la mano! La stese e la sua mano fu risanata” (Mc 3, 3-5). La mano inaridita dell’uomo nella sinagoga è specchio della durezza di cuore degli astanti, lì convenuti solo per vedere se Gesù l’avrebbe guarito in giorno di sabato e avere così un motivo di più per accusarlo (cf v.2). Per noi, oggi, la mano inaridita è anche simbolo dell’incapacità di operare il bene in un atteggiamento di condivisione come risposta ai beni della vita che continuamente riceviamo, nei confronti dei quali scegliamo invece di comportarci come padroni che “si sono fatti da sé”. Cedendo all’illusione che guida da sempre l’Adamo che è in noi a tendere la mano verso l’albero della conoscenza del bene e del male e che sottraendoci al significato del dono che dà la vita, ci consegna alla logica del dominio che porta alla morte. Da questo stato solo Gesù può giungere a liberarci. Pur sapendo che, proprio come allora, religiosi e politici, gelosi assertori della logica del potere, si alleeranno per metterlo a morte (cf v.6), per soffocarne, cioè, la presenza nel mondo. Come si è visto, per limitarci solo a questi ultimi tempi, con Trump, Bolsonaro, e i loro vari emuli nel mondo, con la tragica consorteria dei loro cappellani, che hanno preferito piegarsi all’idolo, piuttosto che testimoniare la buona notizia che è Gesù. Ma è sempre solo per poco, dato che Gesù ogni volta risorge nell’operato dei suoi fratelli e sorelle.

Oggi la comunità fa memoria di Sebastiano, martire a Roma, di Cyprien Michael Tansi, presbitero e monaco, di Octavio Ortiz e compagni, martiri in Salvador, di Khan Abdul Ghaffar Khan (Bacha Khan), profeta di pace e di nonviolenza.

Del martire Sebastiano, nonostante le molte leggende fiorite sulla sua figura, sappiamo solo che fu giustiziato sotto l’imperatore Diocleziano (nell’anno 300) e fu sepolto nelle catacombe che avrebbero preso il suo nome. Ambrogio qualche decennio più tardi lo menziona in un suo commento al salmo 118, dicendo che era di Milano e che preferì lasciare la vita tranquilla per recarsi a Roma e testimoniare la sua fedeltà a Cristo. Questo gli costò la vita.

Iwene Tansi era nato nel 1903 a Aguleri, nello stato di Anambra, in Nigeria. Inviato dai genitori a studiare in una scuola gestita da missionari cattolici, vi conobbe il messaggio cristiano e, a dieci anni, chiese ed ottenne di essere battezzato, prendendo il nome di Michael. Negli anni successivi, mentre proseguiva brillantemente gli studi, s’impegnò sempre più nella vita e nelle attività di base della chiesa locale. A ventidue anni, nonostante l’opposizione della famiglia, entrò nel seminario di Igbariam per essere poi ordinato prete dell’archidiocesi di Onitsha, il 19 Dicembre 1937. Dopo due anni di esperienza a Nnewi, gli fu affidata la cura pastorale di una vastissima regione, che egli per molti anni percorse in lungo e in largo, con mezzi di fortuna, dedicandosi instancabilmente all’annuncio del Vangelo, a organizzare percorsi catechetici, corsi per la preparazione al matrimonio, incontri di discernimento vocazionale e favorendo svariate attività educative. Nel luglio 1950, rispondendo a un invito del suo vescovo, che desiderava trapiantare in Nigeria l’esperienza della vita contemplativa, entrò nell’abbazia trappista di Mount St. Bernard, nella contea di Leichester, in Inghilterra. Dopo tre anni trascorsi come oblato, il 7 dicembre 1952, vi fu ammesso come novizio con il nome di Cyprien. L’8 dicembre 1956, emise i suoi voti solenni. Negli anni seguenti il monaco africano non mancherà di edificare tutti con la sua preghiera e lo spirito di abnegazione, morendo, tuttavia prematuramente, il 20 gennaio 1964, alla vigilia del suo rientro in Africa, come maestro dei novizi nella nuova fondazione di Bamenda, in Camerun.

Octavio Ortiz era nato il 22 marzo 1944, ad Agua Blanca nel municipio di Cacaopera, nel Dipartimento di Morazarán (El Salvador), nella famiglia contadina di Alejandro Ortíz e Exaltación de la Cruz Luna (che persero altri quattro figli durante gli anni sanguinosi della dittatura). Entrato nel seminario di San José de la Montaña, fu il primo a ricevere l’ordinaziaone sacerdotale da mons. Romero che gli affidò in un primo momento la cura pastorale della Comunità di Zacamil e poi quella della parrocchia di El Despertar, alla periferia di Mejicanos. All’alba del 20 gennaio 1979, durante un ritiro, guidato da P. Octavio in un Centro di spiritualità della parrocchia, che vedeva riuniti una trentina di giovani, sopraggiunse una pattuglia dell’esercito che sparò al sacerdote e a quattro studenti e catechisti Ángel Morales, David Caballero, Jorge A. Gómez e Roberto A. Orellana, arrestando gli altri. Dopo il massacro, i soldati fotografarono i cadaveri con accanto le loro stesse armi, per far credere all’opinione pubblica che si trattasse di un gruppo di guerriglieri. Mons. Romero che celebrò i funerali, denunciò l’assassinio e additò nel regime il responsabile della strage.

Khan Abdul Ghaffar Khan era nato nel 1890 nella famiglia di un proprietario terriero, Khan Sahib Baharam Khan, a Utmanzai, un villaggio nei pressi di Peshawar, che oggi è in Pakistan, ma allora era in India, colonia britannica. Benché illetterati, i genitori educarono il giovane Abdul ad una profonda religiosità e al gusto per una vita semplice ed essenziale. Nel 1929, partecipando ad una riunione del Partito del Congresso, Khan fece sua la causa della lotta indipendentista e decise di coinvolgervi la sua gente, i focosi pathan. Con una pretesa, tuttavia, a prima vista assurda: sarebbero stati soldati disarmati, addestrati ad affrontare con coraggio il nemico, senza arretrare né rispondere. I pathan arruolati, che scelsero di chiamarsi Khudai khidmatgar, i servi di Dio, costituirono il primo esercito nonviolento professionale della storia. Promettendo di astenersi da ogni violenza e vendetta, di perdonare chiunque li opprimesse o facesse loro del male, di evitare ogni pigrizia, e di dedicare almeno due ore al giorno ad un qualche servizio sociale, i pathan passavano di villaggio in villaggio, organizzando la popolazione, aprendo scuole, convocando assemblee, insegnando tecniche di nonviolenza, conducendo in tal modo la loro personalissima jihad, la guerra santa tra il bene e il male, che ogni persona è chiamata a combattere nella sua propria coscienza. Il 31 dicembre 1929 i delegati del Congresso indiano dichiararono l’indipendenza, lanciando la parola d’ordine della noncollaborazione e della disobbedienza civile. Seguì una repressione spietata da parte dei britannici. Khan trascorse lunghi periodi in prigionia, ma l’esercito nonviolento dei servi di Dio, che giunse a contare trecentomila membri, non desistette. Quando, alla vigilia dell’indipendenza, la Lega musulmana chiese uno stato confessionale autonomo, Khan e i suoi combatterono la proposta, convinti, come Gandhi, che musulmani e indú avrebbero potuto continuare a convivere. Fu tutto inutile e gli opposti estremismi ebbero la meglio: Gandhi fu ucciso da un indú che l’accusava di essere filomusulmano, e Khan fu imprigionato dal governo musulmano del Pakistan sotto l’accusa di essere filoindú. Avrebbe trascorso quindici anni in prigione e sette in esilio in Afghanistan. Ghaffar Khan morì novantottenne a Peshawar il 20 gennaio 1988 e fu sepolto a Jalalabad, in Afghanistan. Decine di migliaia di persone parteciparono ai suoi funerali e un cessate-il-fuoco fu annunciato in quel Paese dilaniato dalla guerra per permettere lo svolgimento delle solenni esequie. Era stato decorato solo un anno prima con il Bharat Ratna – il più alto riconoscimento civile dello stato indiano.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Lettera agli Ebrei, cap.7, 1-3. 15-17; Salmo 110; Vangelo di Marco, cap. 3, 1-6.

La preghiera del mercoledì è in comunione con quanti ricercano la Verità del mondo e l’Assoluto della loro vita, lungo i sentieri dell’impegno per la pace, la giustizia e la fraternità tra popoli e individui.

Con oggi, fine dell’era Trump e, si spera, inizio del declino dei regimi e partiti trumpisti, sparsi con diversi nomi, tristemente, su questo nostro globo. Che, proprio, non li merita. Lodato sia Dio!

Ed è tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura uno stralcio dell’omelia pronunciata da Mons. Oscar Arnulfo Romero, il 21 gennaio 1979, Terza domenica del Tempo ordinario, nella cattedrale di San Salvador, davanti alle bare di P. Octavio Ortiz e degli altri quattro giovani uccisi con lui. È questo, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Il Signor Presidente, [in visita] in Messico ha dichiarato che non c’è persecuzione della Chiesa. Questo, proprio mentre i nostri giornali riportano con titoli di prima pagina un fatto che la Cattedrale sta qui mostrando quanto sia bugiardo. In Messico, il presidente ha denunciato la crisi della Chiesa a causa dei preti terzomondisti. Ha tacciato la predicazione dell’Arcivescovo di predicazione politica, priva della spiritualità che caratterizza la predicazione degli altri sacerdoti. Che sto approfittando della mia predicazione per promuovere la mia candidatura al Premio Nobel. Come mi credono vanitoso! Alla domanda se esistono in El Salvador le “quattordici famiglie” [detentrici della maggior parte della ricchezza nazionale], il Signor Presidente ha negato che esista qualcosa di simile, oltre a negare che ci siano desaparecidos e prigionieri politici. Ieri sera un giornalista messicano mi ha chiamato al telefono e mi ha chiesto cosa pensassi di queste dichiarazioni. Gli ho detto che non ne ero al corrente. E me le ha lette al telefono. Gli ho detto: Ebbene, la risposta migliore è che tu pubblichi nel tuo giornale quello che stiamo vivendo in questo momento qui: un prete assassinato dalla Guardia Nazionale e altri quattro giovani uccisi con lui. Si è molto interessato alla notizia. E quando mi ha chiesto come mi spiego la campagna calunniosa e diffamatoria contro l’Arcivescovo e il Clero, gli ho detto: È proprio questo il motivo per cui diciamo che c’è persecuzione nella Chiesa: la campagna di psicosi tra le comunità cristiane, non è persecuzione? Non è persecuzione calpestare i diritti umani e delle persone? Questo è ciò che la Chiesa sente come suo ministero: difendere l’immagine di Dio nell’uomo. E, concludendo, gli ho detto: Mettiti bene in testa che il conflitto non è tra la Chiesa e il governo, è tra il governo e il popolo, la Chiesa è con il popolo e il popolo è con la Chiesa, grazie a Dio! (Mons. Oscar Romero, Un asesinato que nos habla de resurrección).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 20 Gennaio 2021ultima modifica: 2021-01-20T21:49:43+01:00da fraternidade
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