Giorno per giorno – 18 Novembre 2020

Carissimi,
“Gesù disse una parabola, perché era vicino a Gerusalemme ed essi pensavano che il regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all’altro. Disse dunque: Un uomo di nobile famiglia partì per un paese lontano, per ricevere il titolo di re e poi ritornare. Chiamati dieci dei suoi servi, consegnò loro dieci monete d’oro, dicendo: Fatele fruttare fino al mio ritorno” (Lc 19, 11-13). Il testo originale parla di dieci mine, una moneta dell’epoca, equivalente a circa quindici anni di salario. Qui da noi sarebbero 180.000 reais, con cui oggi si comprerebbe una casa di tutto rispetto. Quindi, i dieci funzionari ricevettero ognuno la sua mina, da far fruttare. La parabola è inserita in questo caso nella cornice di un tragico avvenimento (taciuto da Matteo nella parallela parabola dei talenti, o aggiunto da Luca, che, nell’apertura del vangelo, si dice attento alla verifica dei fatti), avvenimento che deve aver segnato profondamente la memoria del tempo: la successione contestata di Archelao, alla morte del padre, Erode il Grande, nell’anno 4 a.C. I suoi avversari avevano mandato un’ambasciata a Roma perché fosse impedita la sua investitura, ma inutilmente. Sicché, Archelao, al ritorno in Palestina, si vendicò crudelmente di quanti avevano tramato contro lui. Curioso questo disegnare il proprio ritorno da parte di Gesù con le tinte fosche di un simile episodio. Che non ha mancato di solleticare le perverse fantasie di fanatici credenti di ogni tempo. Compreso il nostro. Quando, alla luce della Croce, sappiamo che il rifiuto di Gesù (il dono di sé, il principio della cura) da parte dei suoi, o presunti tali, non ha come esito le sue vendette, ma è all’origine del suo proprio male. Infatti, odio genera odio, intolleranza, violenza e morte suscitano una risposta uguale. Di cui, in un caso come nell’altro, la vittima volontaria, nella sua identificazione con tutte le vittime, è lo stesso Signore. In questo contesto di generalizzata violenza, Gesù nel suo farsi lontano (con l’ascensione al Padre), affida ai suoi il dono del suo Spirito di amore da far fruttare e moltiplicare. È la nostra missione nella storia. Di cui ogni giorno ci è chiesto conto. Sapendo che l’amore non può essere custodito come un pezzo da museo, ma chiede di essere messo al servizio della trasformazione delle nostre relazioni sociali. Come sacramento e anticipazione del compimento finale della storia, nella cristificazione del mondo.

Oggi facciamo memoria di Adriana Zarri, eremita e teologa. Ricordiamo anche la Promulgazione della Costituzione Dogmatica sulla Divina Rivelazione Dei Verbum, ad opera del Concilio Vaticano II.

Adriana Zarri era nata il 26 aprile 1919 a S. Lazzaro di Savena (Bologna). Ancor giovane, fu dirigente di Azione Cattolica, poi giornalista pubblicista e teologa, collaborando via via a diverse testate cattoliche, dall’Osservatore Romano, a Il Regno, Studium, Concilium, Servitium, Sette Giorni e Politica, ma anche a quelle degli “altri”, Avvenimenti, Micromega, Il Manifesto. Protagonista e testimone appassionata del Concilio, maturò nel 1975 la vocazione eremitica, ritirandosi a vivere in una cascina, dapprima ad Albiano, poi a Fiorano Canavese, e, infine a Crotte di Strambino (Torino), dove è sempre vissuta in semplicità, a contatto con la natura, che era, assieme al mistero cristiano, la sua fonte d’ispirazione. Critica esigente e libera della sua Chiesa, sempre per troppo amore, fu spesso missionaria “in partibus infidelium”, senza la pretesa di convertire nessuno, sapendo anzi leggere in essi una fedeltà a volte maggiore a quella di chi si dice fedele, solo, chissà accompagnata da una più grande discrezione nel nominare Dio e le cose ultime. Della preghiera, in un’intervista, ebbe a dire: “A chi ci chiede a ‘cosa serve’ la preghiera, bisogna dire scandalosamente che non serve a nulla, come non serve a nulla l’amore, l’arte, la bellezza”. Si è spenta, novantunenne, nella notte tra il 17 e il 18 novembre 2010, a Crotte di Strambino. Ha lasciato questa poesia come epigrafe: “Non mi vestite di nero: / è triste e funebre. / Non mi vestite di bianco: / è superbo e retorico. / Vestitemi / a fiori gialli e rossi / e con ali di uccelli. / E tu, Signore, guarda le mie mani. / Forse c’è una corona. / Forse / ci hanno messo una croce. / Hanno sbagliato. / In mano ho foglie verdi / e sulla croce, / la tua resurrezione. / E, sulla tomba, / non mi mettete marmo freddo / con sopra le solite bugie / che consolano i vivi. / Lasciate solo la terra / che scriva, a primavera, / un’epigrafe d’erba. / E dirà / che ho vissuto, / che attendo. / E scriverà il mio nome e il tuo, / uniti come due bocche di papaveri”.

“In religioso ascolto della parola di Dio e proclamandola con ferma fiducia, il santo Concilio fa sue queste parole di san Giovanni: “Annunziamo a voi la vita eterna, che era presso il Padre e si manifestò a noi: vi annunziamo ciò che abbiamo veduto e udito, affinché anche voi siate in comunione con noi, e la nostra comunione sia col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo” (1 Gv 1,2-3). Si apre così la Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione Dei Verbum, che, a giudizio di molti rappresenta l’espressione più alta dei documenti conciliari. Promulgata da Paolo VI il 18 novembre 1965, essa, se così si può dire, riconsegna ufficialmente la Scrittura, dopo un sequestro durato secoli, a tutto il popolo di Dio, affinché la Rivelazione, lungi dall’essere un deposito statico, progredisca e cresca nella Chiesa, sia attraverso la contemplazione e lo studio dei credenti”, “sia con l’esperienza data da una più profonda intelligenza delle cose spirituali da parte di tutto il popolo di Dio; sia infine per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità” (Dei Verbum n.8). Commentando questo passo, P. Benedetto Calati scriveva: “È un testo formidabile! Questo accade quando la chiesa veramente si fida della Parola di Dio. La chiesa del domani dovrà essere una chiesa che si fida della Parola, nell’ascolto di tutto il popolo di Dio. Qui c’è il compimento della Parola di Dio; questa è la tradizione. Ciascuno di noi è coinvolto a livello attivo”. Che questo coinvolgimento attivo di tutti nel far crescere la Parola, il suo ascolto, la sua comprensione, la sua celebrazione e testimonianza, nella Chiesa, al servizio della vita dell’umanità e del mondo, possa essere anche la nostra costante preoccupazione.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro dell’Apocalisse, cap.4, 1-11; Salmo 150; Vangelo di Luca, cap.19, 11-28.

La preghiera del mercoledì è in comunione con gli operatori di pace, quale ne sia la fede, la religione, o la scelta ideale.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura una riflessione di Adriana Zarri, tratta dal suo libro “Quasi una preghiera” (Einaudi), che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Siamo sempre sul piede di partenza, sempre con la valigia in mano, sempre protesi a ciò che faremo il giorno dopo e l’ora successiva e mai posati e riposati sull’oggi, sull’«ora», sul momento che stiamo vivendo per succhiarne tutti gli umori, coglierne tutta la densità. La nostra vita è un correre e invece dovrebb’essere un sostare, indugiare, ascoltare. La nostra è la società del fare e del dare, la cultura che ha elaborato, anche sul piano religioso, il valore dell’impegno, della generosità, della dedizione; e non sarò io certo a contestarli. Però che cos’è mai ciò che l’uomo può dare e fare e spendersi rispetto a quanto riceve? Tutto l’uomo riceve: anche la stessa capacità di dare. Infatti che cosa può dare mai se non ciò che ha prima ricevuto? L’uomo, di sé, non ha nulla: nasce nudo, muore vestito perché altri sceglie dal suo guardaroba un indumento che lo faccia ben figurare, nella bara. Durante l’arco della vita l’uomo fa molte cose, ma opera sul già fatto, sulla materia di un mondo che ha già trovato pronto alla sua nascita. Poi si esalta di queste sue capacità ricevute ed elabora orgogliose sentenze: “sua quisque fortuna faber est”. E sta bene. Ma la materia prima di questa fortuna, il metallo forgiato da questo faber di chi è? Da dove viene? E la sua intelligenza? Le sue mani? Non voglio certo, mio Signore, cedere alla retorica del “vile verme della terra” che, in altri tempi, era un luogo comune dell’ascetica. No; l’uomo non è un “vile verme” e l’avvilirlo non mi sembra gentile per te che, come dice il salmista, “poco meno degli angeli lo hai fatto, di gloria e onore l’hai coronato” per te, Signore, la cui gloria è appunto l’uomo vivente (è sempre la Scrittura che parla). Avvilire l’uomo è misconoscere te e la tua piú elevata creazione. Ma l’uomo è grande perché ha molto ricevuto. Tale è la sua condizione di creatura. E non starò a dire, mio Signore, quanto abbia ricevuto da te, che è cosa ovvia, per un credente. Ma quanto ha ricevuto anche dagli altri uomini e cose; che è poi sempre un ricevere da te, indirettamente. Anzi, di solito, tu gli filtri i tuoi doni attraverso le mani degli altri; e la nostra vita è un perenne ricevere. Noi questo lo predichiamo poco; e io vorrei oggi pregarti di darci questo supremo dono del riconoscere i doni e umilmente, dolcemente, religiosamente accoglierli: attenti a tutte le voci che ci vengono incontro, ci risvegliano i sensi, la coscienza, ci rendono aperti e consapevoli: ci fanno vivere; perché senza questi richiami saremmo sordi e muti. (Adriana Zarri, Quasi una preghiera).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 18 Novembre 2020ultima modifica: 2020-11-18T22:19:07+01:00da fraternidade
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