Giorno per giorno – 19 Febbraio 2020

Carissimi,
“Preso il cieco per mano, Gesù lo condusse fuori del villaggio e, dopo avergli messo della saliva sugli occhi, gli impose le mani e gli chiese: Vedi qualcosa? Quegli, alzando gli occhi, disse: Vedo gli uomini, poiché vedo come degli alberi che camminano. Allora gli impose di nuovo le mani sugli occhi ed egli ci vide chiaramente e fu sanato” (Mc 8, 23-25). È un brano, quello che si è letto stamattina, in stretta connessione con quanto avevamo ascoltato ieri (cf Mc 8, 14-21), che registrava la persistente incomprensione dei discepoli circa il fatto dei pani. Riferendolo a noi, in senso più esteso, potremmo tradurlo nella nostra difficoltà a intendere appropriatamente il Vangelo; e questo spiega perché, anno dopo anno, ci si ritrovi ogni giorno insieme a interrogarlo e lasciarci interrogare. Non si arriva di punto in bianco a intenderlo. Per questo l’evangelista ci racconta di questa guarigione in due tempi dalla nostra iniziale cecità. Dopo un primo intervento, si comincia a intravvedere qualcosa, poi, col paziente lavorio dello Spirito, che attualizza quello di Gesù, si arriva, prima o poi, è questa la speranza, a veder tutto più chiaramente. Sfuggendo alle distorsioni di una lettura che cede alle suggestioni di una logica puramente religiosa (il lievito dei farisei), o, peggio ancora, si prostituisce alla macchina manipolatrice del potere (il lievito di Erode). O, entrambe le cose. Il brano si conclude con Gesù che rimanda a casa il cieco ormai guarito, dicendogli però: “Non entrare nemmeno nel villaggio” (v. 26). Il “villaggio” è Il luogo dove viveva da cieco, mendicando da chi era più cieco di lui, vittima e complice, spesso inconsapevole, di un sistema di oppressione, che, nell’emarginazione ed esclusione dell’altro, è di fatto negatore del Dio amore e comunione.

Oggi ricordiamo Sirio Politi, preteoperaio; José Antônio Pereira Ibiapina, apostolo del Nordeste brasiliano, e Rabbi Elimelech di Lisensk, mistico ebreo.

Sirio Politi era nato il 1º febbraio 1920 a Capezzano Pianore, in quel di Lucca, da una famiglia povera e a quattordici anni era entrato in seminario. Ordinato prete nel 1943, divenne due anni più tardi parroco di Bargecchia. E ci restò una decina d’anni, finché lo Spirito gli deve aver sussurrato: ehi, amico, datti una mossa! E lui, era il 1956, scese a valle, con una idea: “essere uno di loro”. Loro erano gli operai. I tempi, poi, mica si scherzava. Per il divorzio maturato nel tempo tra la chiesa e la classe operaia e il clima di sospetto e le reciproche diffidenze che ne erano scaturite. Lui comunque sarebbe riuscito ad abbattere il muro e, condividendone la fatica e le lotte, a conquistare l’amicizia, la lealtà e la fedeltà dei nuovi compagni. Durò solo tre anni, per via della durezza di testa e di cuore che Gesù da sempre rimprovera alla sua chiesa. Per restare prete, dovette lasciare la fabbrica. Di quel momento scriverà: “Mi si scavò nell’anima un vuoto spaventoso, come morire, e da allora mi sono sentito finito, morto. La mia Chiesa mi ha distrutto. Proprio Lei”. Continuò invece a vivere, dove aveva preso ad abitare, alla Darsena di Viareggio, non più operaio, ma scaricatore di porto, per i successivi sei anni. Dal 1965 creò con altri preti operai, uomini e donne, una nuova esperienza comunitaria alla periferia della città, tornando in Darsena nei primi anni settanta. Lì si impegnerà sempre più sul fronte della pace, della nonviolenza, della lotta antinucleare. Dall’estate 1986, l’ultima sfida, quella della malattia che lo porterà alla morte, il 19 febbraio 1988.

José Antônio Pereira Ibiapina nacque il 5 agosto 1806 a Sobral, nello Stato di Ceará. Ancora giovane, desiderando diventare prete, si era trasferito a Olinda (Pernambuco), per frequentare il seminario, ma una serie di tragedie familiari (la morte della madre, l’omicidio del fratello maggiore e la fucilazione del padre per motivi politici) lo costrinsero a fare ritorno a casa per prendersi cura della famiglia. Risolti i problemi più urgenti, fece ritorno nel Pernambuco con due delle sorelle minori. Si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza, laureandosi nel 1832. Negli anni successivi fu prima magistrato, poi deputato e infine avvocato. Ed ebbe sempre a cuore la causa dei più poveri e sfruttati. Nel 1850, la svolta decisiva della sua vita: si disfece di tutti i suoi beni e andò ad abitare in una casetta in un bairro di Recife, dove passò tre anni a studiare, pregare, meditare, vivendo in povertà. Il 26 luglio 1853, Ibiapina veniva ordinato sacerdote. Insegnò per qualche tempo in seminario, poi con il permesso del suo vescovo, cominciò a viaggiare attraverso tutto il Nordeste brasiliano, realizzando missioni popolari, coscientizzando e organizzando la popolazione, costruendo chiese, ospedali, bacini idrici, e soprattutto moltissime case di carità, dove l’infanzia abbandonata potesse crescere, studiare e apprendere una professione. Padre Ibiapina morì a Santa Fé, nello stato di Paraiba, il 19 febbraio 1883.

Rabbi Elimelech, nato in Galizia (Polonia) nel 1717, era, con il fratello maggiore Sussja, figlio del Rabbi Eliezer Lipman e di sua moglie Miroush, persone conosciute per la loro bontà e generosità. Insieme, i due fratelli, in gioventù si diedero ad una vita di peregrinazioni senza meta. Poi, le loro strade si divisero: Sussja continuò ad essere l’inquieto ed estatico “folle di Dio”, e Elimelech, alla scomparsa di Rabbi Dov Bär, il Grande Magghid, divenne capo della comunità chassidica, facendosi conoscere per la “conoscenza intuitiva delle persone che lo avvicinavano, delle loro manchevolezze e delle loro pene, così come dei mezzi per guarirle”. Nella memoria del popolo, rimase così presente come “il medico delle anime, l’esorcizzatore dei demoni, il consigliere, la guida e il taumaturgo”. Rabbi Elimelech morì a Lisensk il 21 Adar I 5546 (coincidente, quell’anno, con 19 febbraio 1786), lasciando tre figli, Rabbi Elazar di Lisensk, Rabbi Lipa Eliezer di Chemelnick, Rabbi Yaakov di Maglanitza e due figlie, Esther Etil e Mirish.

I testi che la liturgia propone oggi alla nostra riflessione sono tratti da:
Lettera di Giacomo, cap. 1,19-27; Salmo 15; Vangelo di Marco, cap. 8,22-26.

La preghiera del mercoledì è in comunione con con quanti, nei più diversi sentieri, operano in favore della pace, della giustizia e della fraternità dei popoli.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura un brano di Sirio Politi, tratto dal suo articolo “La politica dell’utopia”, apparso in “Lotta come amore” del dicembre 1987. Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
È tempo in cui è urgente e vitale ricominciare a sognare. Certamente, prima di tutto, il sognare della propria interiorità, coscienti che il mondo, la vita, la propria dignità e identità, ha inizio e si dilata dalla propria interiorità, dal se stessi più profondo. Le utopie ne sono il respiro, la provocazione, il fascino. Il coraggio personale sta tutto qui, nel tentativo, a costo di tutto, di rendere concretezza, realtà, vita vissuta, esistenza storica… tutto quello che palpita nel profondo dello spirito, che nel segreto viene giudicato valore stupendo, tutto quello che nei momenti di trasparenza (e chi non ne ha?) e di liberazione, crede che qui è veramente l’uomo. Qui e unicamente è umanità. Rimane il problema, ed è fondamentale, di dare all’utopia la forza di azione politica. Se quando l’utopia si calerà nella storia e affronterà lo scontro con questa civiltà del concreto, allora l’utopia risulterà un progetto e una lotta politica, come mai forse nella tormentata vicenda umana. Perché l’utopia assumerà i valori costitutivi, creativi di umanità e li trasformerà nell’aria da respirare, nella strada sulla quale camminare, la casa dove abitare… La Pace, l’uguaglianza sarà uguaglianza, la libertà, libertà, l’uomo veramente uomo e anche Dio seriamente Dio… (Sirio Politi, La politica dell’utopia).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 19 Febbraio 2020ultima modifica: 2020-02-19T22:42:46+01:00da fraternidade
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