Giorno per giorno – 26 Dicembre 2019

Carissimi,
“Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani” (Mt 10, 17-18). Per evitare che si resti troppo tempo a lasciarsi cullare dalle nenie natalizie, ecco che la liturgia della chiesa ci fa ripiombare nell’arco di ventiquattro ore, sempre che gli avvenimenti, qua e là nel mondo, non si siano incaricati di distogliercene prima, nella più cruda realtà. Questo, per curare la nostra memoria corta e la facilità con cui siamo portati a ridurre il mistero del Natale a una sorta di favola, volta ad allietare o tacitare le nostre coscienze. L’evento che celebriamo non ha proprio nulla della fiaba, è invece il dramma di un Dio che entra nella nostra storia, per assumerla dalla parte dei poveri, condannato ogni volta, con loro, a venirne schiacciato dalla sua logica interna, che non può tollerare di essere messa in discussione. La causa di cui parla Gesù non è in primo luogo la causa di una religione, ma è la causa della verità di Dio che dice la sua preoccupazione per la vita e la liberazione dell’uomo. Di ogni uomo. Gesù ci ha reso avvertiti delle conseguenze che comporta l’assumerla, rompendo il circolo vizioso della vendetta, dell’odio, della violenza. In un mondo in cui sembra che guadagnino pericolosamente sempre più spazio. Anche in quelle chiese, che si scelgono come puntelli del Sistema, invece che testimoni della novità di Cristo.

Oggi è, dunque, il Secondo Giorno dell’Ottava di Natale ed è memoria del diacono Stefano, primo martire. A cui noi aggiungiamo quella di Jean-Marc Ela, presbitero e teologo africano.

Secondo il racconto che ne fanno gli Atti degli Apostoli, Stefano era un ebreo della diaspora, che, dopo aver accettato il cristianesimo, fu incaricato assieme ad altri sei di provvedere alla cura dei poveri della comunità. Denunciato dinanzi al Sinedrio da un gruppo di ex-correligionari di parlare contro il Tempio e contro la Legge, si produsse in un’autodifesa che ne peggiorò la situazione, al punto che “quelli del tribunale… si turarono le orecchie e gridarono a gran voce; poi si scagliarono tutti insieme contro Stefano, lo trascinarono fuori città per ucciderlo a sassate. I testimoni deposero i loro mantelli presso un giovane, un certo Saulo, perché li custodisse. Mentre gli scagliavano addosso le pietre, Stefano pregava così: ‘Signore Gesù, accogli il mio spirito’. E cadendo in ginocchio, gridò forte: ‘Signore, non tener conto del loro peccato’. Poi morì” (At 7, 57 ss). C’è solo da aggiungere che quel Saulo diventerà poi san Paolo, quasi a significare che, insomma, c’è speranza davvero per tutti!

Nato a Ebolowa, in Camerun, il 27 settembre 1936, Jean-Marc Ela fu prete, teologo, sociologo e professore. Studiò teologia e filosofia all’Università di Strasburgo, in Francia, e passò sedici anni come missionario a Tokombere, tra i Kirdi del Camerun nord-occidentale, accanto alla figura carismatica di Baba Simon, da molti considerato una sorta di san Paolo africano. L’opera che lo fece conoscere fu “La mia fede d’Africano”, apparso in francese nel 1985 e poi tradotto in inglese, tedesco e italiano. Il libro denunciava l’imposizione da parte della Chiesa in Africa di un modello di fede che ignorava del tutto i bisogni reali della popolazione, soprattutto delle comunità rurali. Attraverso un’analisi accurata dei sacramenti, dell’ermeneutica biblica e della prassi missionaria, identificava le vie attraverso cui la tradizione cattolica manteneva gli africani dipendenti nei confronti dell’Europa. Da parte sua, si faceva sostenitore di un’inculturazione della fede che rispettasse, riscattasse e valorizzasse la maniera d’essere della sua gente. Animato, assillato, inquietato dalle figure di Gesù di Nazareth, da quella di Abele, il cui grido giunge fino a Dio e ne provoca la domanda ai Caini di ogni tempo: che hai fatto di tuo fratello?, e da quella rappresentata dal mondo dei più deboli, degli oppressi e degli esclusi, che riassumeva e riviveva nella sua carne la passione dell’uno e dell’altro, Ela collocò la sua teologia al servizio di quel progetto. Critico del potere politico del suo Paese, nonché delle omissioni e delle collusioni della gerarchia ecclesiastica nei confronti di quello, dopo l’assassinio di padre Engelbert Mveng, il 22 aprile 1995, si recò in esilio nel Québec, dove continuò ad insegnare Sociologia nell’Universitá di Laval, a Montreal, fino alla morte, avvenuta il 26 dicembre 2008. Fu sepolto nel suo paese natale, a Ebolowa, in Camerun.

I testi che la liturgia propone alla nostra riflessione sono propri della memoria del Protomartire Stefano e sono tratti da:
Atti degli Apostoli, cap. 6,8-10; 7,54-60; Salmo 31; Vangelo di Matteo, cap. 10,17-22.

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

È tutto, per stasera. Come già l’anno scorso, cogliendo l’occasione del compleanno del teologo Pierangelo Sequeri, uno degli autori più significativi in ordine all’interrogazione sulla fede e sulla sua testimonianza, vi offriamo, nel congedarci, una citazione tratta da un suo articolo, che troviamo sotto il titolo (uguale a quello di un suo ponderoso saggio di teologia fondamentale) “Il Dio affidabile”, nel sito de “Gli scritti”. Che è, così, per oggi

PENSIERO DEL GIORNO
A noi viene da pensare che Dio nella nostra vita chiede delle prove; questo è un criterio umano, carnale, da cui Dio è lontanissimo. Sono nostre proiezioni, nostri fantasmi, nostre patologie, paure: del padre e della madre che ci uccidono, ci emarginano, ci buttano via. Che non piacciamo al Padre. Sono idee nostre, non è questa la prova, vedremo cosa è invece la prova. Abramo accetta questa prova perché lui sa che Dio non gli farà mai uccidere il figlio, non sa come, non lo sa, è questa la fede. […] Ma non pensiamo mai che Abramo abbia pensato davvero di sgozzare un figlio, per amore di un Dio. La fede, quella del fatalismo, della carne, direbbe: che fede, sacrificare così il figlio! È la fede di un cretinissimo testimone di Geova che fa morire il figlio per non fargli fare una trasfusione: quella è la fede della carne. Ho vissuto una volta una esperienza del genere in cui io e una nonna abbiamo fatto togliere la patria potestà a due genitori che stavano facendo morire la figlia in nome di Geova. E mi citavano questo brano. Da lì ho cominciato a macchinare in testa che dovevo trovare un’altra spiegazione: non è questa! La fede non è obbedire ciecamente a un Dio che mi dà un ordine. Dio è fedele a se stesso: non mi chiederà mai qualcosa che vada contro la vita, contro l’amore. Mai! Poiché Dio è fedele a se stesso non può fare a meno di amare. Lui ha deciso di essere l’Amore. Non possiamo pensare niente altro di Lui che questo. Non diamogli un altro volto. E non è romanticismo o nostra debolezza, il volere avere un Dio che comunque mi ami. Perché torniamo all’altro discorso di un moralismo stupidissimo che ha portato tanto danno alla nostra vita cristiana e spirituale. Io devo non fare i peccati non tanto perché c’è un Dio giudice giusto, ma perché sono innamorato di Lui. Per amore non devo peccare, non per terrore. È tutto un altro livello. L’amore porta tutto a un altro livello. Ed è a questo livello che noi dobbiamo vivere la nostra fede, il nostro rapporto di figli nei confronti del Padre. Smettiamo di essere dei carnali, dei non credenti. È quello che dice Gesù a Tommaso: smettila di essere un non credente ma un credente. A questo livello! Vieni a questo livello, poniti in questa dimensione. La carne è carne: devi rinascere dall’alto e dallo Spirito o non capirai mai questo Dio, questo Padre, la sua chiamata, cosa ti sta chiedendo. Siamo sordi perché siamo in un altra sintonia e non riusciamo a percepirlo. (Pierangelo Sequeri, Il Dio affidabile).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 26 Dicembre 2019ultima modifica: 2019-12-26T22:16:36+01:00da fraternidade
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