Giorno per giorno – 16 Novembre 2019

Carissimi,
“E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui, e li farà a lungo aspettare? Vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18, 7-8). È la conclusione della parabola del giudice iniquo e della vedova importuna che Gesù racconta per dirci della “necessità di pregare sempre, senza stancarsi” (v.1). E, a prima vista, ci dicevamo stamattina, si sarebbe portati a dire che la realtà smentisce spesso tale conclusione, al punto che Dio finisce per apparire peggio del giudice iniquo, il quale almeno, non perché fosse giusto, ma solo per sottrarsi alle insistenze della vedova, decise di farle giustizia. Mentre Dio sembra, invece, fare orecchie da mercante. Non è vero, è ovvio. Così si deve cercare un’altra spiegazione. Ci siamo ricordati allora del fioretto chassidico in cui Martin Buber racconta che un giorno Jehiel, il nipotino di Rabbi Baruch, giocando a nascondino con un amichetto, si nascose così bene, che il compagno si stancò di cercarlo e se ne andò. Quando Jehiel se ne accorse, si recò piangendo dal nonno, lamentandosi del comportamento dell’amico. Gli occhi di Rabbi Baruch si riempirono allora di lacrime, ed egli disse: Così succede anche a Dio, che sconsolato ripete: Io mi nascondo, ma nessuno mi viene a cercare. Ci sono cose che si possono concedere ed ottenere, e altre no, vai a sapere perché, questa del resto è l’esperienza che abbiamo anche nelle relazioni umane. Ma questo, in un caso come nell’altro, non determinerà il mutare del sentimento che lega due persone. Colui che in certe situazioni può apparirci come il giudice iniquo della parabola, è in realtà il Padre che ci ama oltre ogni immaginazione. Ed è questo tutto ciò che conta. Il suo farci giustizia è il suo amore che non viene meno. La fede è, così, il sapersi comunque portati da Dio, qualunque cosa accada. A noi, però, compete il dovere di tradurre questa giustizia nella storia del nostro mondo, “prontamente”, perché anche gli altri si sentano portati.

Oggi la comunità ricorda il Martirio dei Gesuiti della U.C.A. di El Salvador e delle loro collaboratrici e fa memoria del “Patto delle Catacombe”, per una Chiesa povera e al servizio dei poveri.

Ignacio Ellacuría, Juan Ramón Moreno, Amando López, Ignacio Martín-Baró, Segundo Montes, spagnoli, e Joaquín López y López, salvadoregno, appartenevano tutti alla Compagnia di Gesù. Erano teologi e pastori della liberazione, padri dei poveri e profeti di speranza nel Salvador crocifisso. Julia Elba Ramos, madre di due figli e sposa di Obdulio, funzionario della casa, era una presenza discreta, allegra, intuitiva, sempre pronta e generosa nella collaborazione. Celina Ramos era sua figlia. I sacerdoti costituivano una comunità di credenti, che per la compassione nei confronti dei loro fratelli, avevano deciso liberamente e consapevolmente di porsi al loro servizio. Con il loro lavoro universitario, leggevano e aiutavano a leggere la realtà di ingiustizia e di morte che li circondava, per trasformarla strutturalmente, senza per questo dimenticare la solidarietà concreta, la denuncia profetica, l’attività pastorale. Il 16 novembre 1989, la Comunità venne sterminata da trenta uomini dell’esercito salvadoregno, che irruppero nei locali della UCA (Università Centro-americana), alle due della notte, assassinando i sacerdoti e le due donne.

Il 16 novembre del 1965, tre settimane prima della chiusura del Concilio Vaticano II, una quarantina di vescovi di varia nazionalità, concelebrarono, nelle catacombe di Domitilla a Roma, una Eucaristia, presieduta da Mons. Charles-Marie Himmer, vescovo di Tournai (Belgio). Al termine della celebrazione, i vescovi sottoscrissero un documento che prese il nome di “Patto delle Catacombe”, con cui si impegnavano, in unione con tutti i fratelli nell’episcopato, a condurre una vita di povertà, rinunciando a tutti i simboli, titoli, privilegi del potere, e a mettere i poveri al centro del loro ministero pastorale. All’epoca i nomi di quanti sottoscrissero il Patto – o vi aderirono in seguito – non vennero pubblicizzati per evitare ogni tipo di personalizzazione. Oggi sappiamo che almeno la metà erano vescovi latino-americani (otto brasiliani), tra cui Dom Helder Câmara, Dom Antonio Fragoso, Dom José Maria Pires, Mons. Leonidas Proaño. Altri venivano dall’Africa, dal Vietnam, dall’Indonesia, e da diversi paesi d’Europa. Di italiani, era presente mons. Luigi Bettazzi, allora ausiliare del card. Lercaro. Erano presenti anche Paul Gauthier e Marie Thérèse Lescaze, i due francesi animatori della Fraternità di Jesus Charpentier a Nazareth e del gruppo della Chiesa dei Poveri al Concilio. Il documento, pur privo di ogni ufficialità, ci pare rappresenti comunque uno dei testi più significativi per intendere lo spirito del Vaticano II, che mirava a rinnovare radicalmente la vita della Chiesa.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro della Sapienza, cap.18, 14-16; 19, 6-9; Salmo 105; Vangelo di Luca, cap.18, 1-8.

La preghiera del Sabato è in comunione con le comunità ebraiche della diaspora e di Eretz Israel.

E, per stasera, è tutto. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura una pagina di Ignacio Ellacuría, tratto dal suo libro “Conversione della Chiesa al Regno di Dio” (Queriniana). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
L’amore è essenziale al messaggio cristiano. Ma l’amore cristiano ha un paradigma fondamentale: la vita di Gesù. L’amore che il cristianesimo annuncia, e per il quale i cristiani saranno conosciuti come tali e faranno conoscere la divinità di Gesù, deve configurarsi secondo l’amore che Gesù annunciò e visse. È necessario sottolinearlo, perché l’amore cristiano, come la fede cristiana, ha fatto sì che molti lo intendessero in forma di interiorizzazione spiritualista o di esteriorizzazione misericordiosa. Alcuni aspetti dell’amore sono stati manipolati al fine di togliere all’amoe cristiano la propria efficaca trasformatrice. Soltanto una lettura realistica di quello che fu l’amore nella vita di Gesù, può restituire all’amore cristiano la propria radicalità trasformatrice. E soltanto se l’amore cristiano giunge a mostrare nella storia la propria radicalità trasformatrice, può servire come segno della salvezza che predica. È più efficace l’amore o l’odio per la trasformazione della società? È più forte l’amore o l’ansia di lucro e di proprietà privata per la trasformazione della società? È vero che l’amore cristiano può tutto? (Ignacio Ellacuría, Conversione della Chiesa al Regno di Dio).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 16 Novembre 2019ultima modifica: 2019-11-16T22:38:47+01:00da fraternidade
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