Giorno per giorno – 06 Luglio 2019

Carissimi,
“Allora gli si accostarono i discepoli di Giovanni e gli dissero: Perché, mentre noi e i farisei digiuniamo, i tuoi discepoli non digiunano? E Gesù disse loro: Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto mentre lo sposo è con loro? Verranno però i giorni quando lo sposo sarà loro tolto e allora digiuneranno” (Mt 9, 14-15). I farisei, di cui avevamo ascoltato ieri, e i discepoli di Giovanni, di cui ci parla il vangelo di oggi, esprimono i loro “dubia” sulla prassi pastorale di Gesù. Certo animati dalla miglior buona volontà, temono che la sua familiarità con i peccatori, al punto di mettersi a mensa (fare eucaristia?), con loro, semini confusione, anche perché nulla lascia intendere che loro siano già sulla strada della conversione. Convertito, ma a loro, è, per il momento, solo Gesù. Farisei e discepoli di Giovanni, non siedono perciò a tavola, restano in piedi, a distanza. Non fanno comunione. Vuoi per non contaminarsi, vuoi in omaggio a una religione tutto sommato triste, esteriore, ritualistica, che non riesce a vedere e godere della novità di Dio, resa presente da Gesù. Novità che, invece, i discepoli, i poveri, i peccatori, in qualche modo sorprendentemente, colgono. È quando lui sarà tolto, ogni volta che viene tolto, eliminato, allontanato, il suo significato dalla storia del mondo, che noi siamo chiamati a digiunare, facendo della condivisione a cui il digiuno ci porta, la maniera per renderlo nuovamente presente, generando allegria nella vita dei poveri, degli ultimi, degli esclusi. Noi, abbiamo imparato a farlo? O continuiamo a giudicare, dividere, escludere, con religione o senza?

Due sono le memorie di oggi, entrambe sotto il segno del martirio, della testimonianza alla Verità di Gesù, fino a dare la vita. Quelle di Jan Hus e di Thomas More.

Jan Hus era nato a Husinec, nella Boemia meridionale, verso il 1371. Terminati gli studi, fu ordinato presbitero nel 1400. Chiamato all’ufficio di predicatore della chiesa di San Michele a Praga, divenne professore di teologia all’Università della stessa città. Uomo di una profonda spiritualità, saldamente ancorata alla Parola di Dio, Hus percepì presto la corruzione, i latrocini e l’ipocrisia che dilagavano soprattutto tra il clero e diede tutto se stesso per restituire alla comunità dei semplici cristiani, attraverso un approccio diretto alle Scritture, la figura del Gesù umile, povero, solidale con gli ultimi, consegnatoci dal Vangelo. La sua predicazione rivelò numerose convergenze con le dottrine del riformatore inglese John Wycliff, condannato per eresia (che, all’epoca, era praticamente sinonimo di fedeltà all’Evangelo) qualche decennio prima. Questo fatto segnò anche il destino di Hus. Nel 1408, infatti, il prete fu sospeso a divinis e nel 1412 scomunicato. Nonostante il favore popolare, quando nel 1413 la nobiltà favorevole al clero corrotto prese il potere a Praga, Hus dovette fuggire e rifugiarsi nel villaggio natale. Qui scrisse la sua maggior opera teologica, De Ecclesia. Il culmine della tensione con la gerarchia ecclesiastica si registrò quando, nella lotta che opponeva due contendenti al titolo di papa, uno dei due (che successivamente sarebbe uscito sconfitto) promosse la vendita di indulgenze per raccogliere fondi per una guerra contro il rivale. Hus restò sconvolto dall’idea che si potesse anche solo immaginare di vendere benefici spirituali per finanziare una guerra tra due che rivendicavano il titolo di “Servo dei servi di Dio” e lo dichiarò pubblicamente. Nel 1414, convocato dal Concilio di Costanza, vi si recò, munito di un salvacondotto imperiale, per difendere le sue tesi. Non aveva tenuto conto che, per un certo potere, anche i salvacondotti erano carta straccia. Riconosciuto colpevole, fu condannato a morte e e arso vivo nella pubblica piazza il 6 luglio del 1415.

Thomas More era nato a Londra il 7 febbraio 1478. Di carattere accattivante e simpatico, sposo e padre di famiglia, ebbe un figlio e tre figlie. Profondamente religioso, prendeva parte quotidianamente all’Eucaristia, dedicando inoltre parte del suo tempo alla lectio divina. Fu giurista e amico di Erasmo di Rotterdam, il celebre umanista che gli dedicò il suo capolavoro “L’elogio della pazzia”. Cancelliere del regno, lasciò numerose opere, la più conosciuta delle quali è L’Utopia: il sogno di una società perfetta, in cui, per dirlo con le sue parole, non succeda più che “un nobile, un banchiere, uno strozzino, un fannullone, un ignavo, che nulla fa per il bene dello Stato, abbia il diritto di vivere tra mollezze e lusso, tra l’ozio e gli inutili perditempo, mentre un operaio, un cocchiere, un falegname, un contadino, che lavorano come muli e senza i quali lo Stato non potrebbe tirare avanti neppure per un anno, abbiano a stento un boccone di pane e menino un’esistenza miserabile”. Che era, anche solo limitandoci a questo, un programma discretamente radicale! Essendosi opposto al divorzio di Enrico VIII e alla pretesa del re di arrogarsi l’ultima parola in materia religiosa, fu condannato a morte. Dopo la sentenza, alla Corte che gli chiedeva se avessa qualcosa da aggiungere, Thomas More rispose: “No, signori, non ho più niente da aggiungere se non che come si legge negli Atti degli Apostoli – san Paolo era presente e consenziente alla morte di santo Stefano ed ebbe in custodia le vesti di coloro che lo lapidavano: eppure ora sono entrambi santi in Paradiso, e lassù saranno amici per sempre. Così, io fermamente confido – e con tutto il cuore lo chiederò nelle mie preghiere – che, benché voi, monsignori, siate qui in terra i giudici della mia condanna, possiamo un giorno ritrovarci tutti insieme nella gioia del Paradiso, per la nostra eterna salvezza”. Thomas More fu decapitato il 6 luglio 1535, testimoniando così la sua fedeltà alla sua propria coscienza e alla Chiesa di cui si sentiva figlio.

I testi che la liturgia di questo sabato della 13ª settimana del Tempo comune propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro di Genesi, cap.27, 1-5. 15-29; Salmo 135; Vangelo di Matteo, cap.9, 14-17.

La preghiera del sabato è in comunione con le comunità ebraiche della diaspora e di Eretz Israel.

Il Dalai Lama (Oceano di Saggezza) compie oggi ottantaquattro anni. Nato il 6 luglio 1935, a Taktser, in un villaggio nel nord est del Tibet, da Choekyong Tsering e da Diki Tsering, il piccolo Lhamo Döndrub, all’età di due anni venne riconosciuto come tulku, o reincarnazione dello scomparso Thubten Gyatso, il tredicesimo Dalai Lama, e, come tale, emanazione del bodhisattva Avalokitesvara (il Buddha della Compassione), e fu perciò ribattezzato con il nome di Jetsun Jamphel Ngawang Lobsang Yeshe Tenzin Gyatso. Guida spirituale del buddhismo tibetano, il Dalai Lama ha ricevuto nel 1989 il Premio Nobel per la Pace. Beh, in tale occasione, come abbiamo già fatto in passato, scegliamo di congedarci con una sua citazione, tratta questa volta da una sua meditazione dal titolo “La medicina dell’altruismo”, che è, così. per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Milioni di persone vivono insieme in grandi città nel mondo intero, ma nonostante questa vicinanza molti sono soli. Alcuni non hanno neppure un essere umano con cui condividere i suoi sentimenti più profondi e vivono in uno stato di inquietudine continua. Tutto questo è molto triste. Noi non siamo animali solitari da coinvolgerci con qualcuno solo al fine di riprodurci. Se lo fossimo, perché costruiremmo centri e città così grandi? Ma pur essendo animali sociali costretti a vivere insieme, sfortunatamente ci manca senso di responsabilità nei confronti degli esseri umani nostri compagni. Sarà che la colpa è della nostra architettura sociale – la struttura di base della famiglia e della comunità su cui si fonda la nostra società? O sta forse nelle nostre risorse esteriori – le nostre macchine, la scienza e la tecnologia? Io credo di no. Credo che, nonostante i rapidi progressi fatti dalla civiltà in questo secolo, la causa più immediata del nostro dilemma attuale è l’enfasi eccessiva posta sullo sviluppo materiale. Siamo così presi dall’inseguirlo che, senza nemmeno saperlo, trascuriamo lo sviluppo dei bisogni umani più elementari di amore, di bontà, di cooperazione e di affetto. Se non conosciamo qualcuno o non ci sentiamo legati a un individuo o un determinato gruppo, semplicemente li ignoriamo. Ma lo sviluppo della società umana si basa interamente sulle persone che si aiutano a vicenda. Una volta perduta l’essenza della nostra umanità, siamo destinati a perseguire soltanto lo sviluppo materiale. Per me è chiaro: un vero senso di responsabilità può sorgere solo se sviluppiamo la compassione. Solo un sentimento spontaneo di empatia per gli altri può davvero motivarci ad agire a favore dei loro interessi. (Dalai Lama, La Medicina dell’Altruismo).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 06 Luglio 2019ultima modifica: 2019-07-06T22:38:03+02:00da fraternidade
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