Giorno per giorno – 09 Giugno 2019

Carissimi,
“Gesù disse loro di nuovo: Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi. Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi” (Gv 20, 21-23). E così, al termine del tempo pasquale, la liturgia ci fa tornare alla sera di quel “primo giorno dopo il sabato”, la domenica di Pasqua, segnata dal primo incontro dei discepoli con il Crocifisso risorto. In cui Gesù fa, per la prima volta esplicitamente, il dono dello Spirito, disegnando la missione della Chiesa, sintetizzata nell’offerta della Pace, ricevuta e data attraverso la cura e dedizione reciproca, e nell’impegno e nella responsabilità della riconciliazione. Senza di questo, che è, poi, il significato della Croce, non c’è Chiesa, ci fosse pure tutto l’apparato di sacramenti, riti, rapporti gerarchici e di quant’altro, che, svuotati del loro significato, farebbero dello stare insieme una semplice consorteria con altri fini. Qui da noi, lo Spirito Santo, invocato con l’abbreviazione di Divino, è forse la “presenza” più sentita dalla nostra gente. Questo spiega, tra l’altro, il fatto che molti diano ai propri figli il nome di Divino. La sua festa è, a livello popolare, quella piú solennemente celebrata. Sicché, stamattina, anche la gente delle periferie che non è abituata a frequentare la cattedrale, si riversa [quasi] tutta là. Parliamo dei cattolici, ovviamente. Tutti, del Divino, conoscono a memoria i canti, soprattutto la lunga sequenza, con cui oggi viene accolta la proclamazione del Vangelo: “Vinde, Pai dos pobres, Doador dos dons, Luz dos corações. Grande defensor, em nós habitai e nos confortai. Na fadiga, pouso, no ardor brandura, e na dor, ternura…” (Vieni, Padre dei poveri, Dispensatore di doni, Luce dei cuori. Grande Difensore, abita in noi, e confortaci. Nella fatica, riposo, nel calore, sollievo, tenerezza nel dolore…). Padre Geraldo ci ricordava nell’omelia che basterebbe che anche noi si fosse, o si cercasse di essere almeno un po’, così. E Dio solo sa quanto ce ne sia di bisogno. Sarebbe la prova che lo Spirito abita davvero in noi. Altro che cedere alla cultura dell’insulto, dell’arroganza, della discriminazione, che va, ovunque, per la maggiore! Che, allora, lo Spirito dispensi a tutti noi i suoi doni!

A cinquanta giorni dalla Pasqua la Chiesa celebra la solennità di Pentecoste, in cui si fa memoria della discesa dello Spirito Santo sugli apostoli riuniti in preghiera “insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui” (At 1, 14). È anche celebrazione del segreto lavorio dello Spirito in tutti coloro che si arrendono all’Evangelo del Regno, lo annunciano e lo testimoniano.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Atti degli Apostoli, cap.2, 1-11; Salmo 104; 1ªLettera ai Corinzi, cap.12, 3-7. 12-13; Vangelo di Giovanni, cap.20, 19-23.

La preghiera della Domenica è in comunione con tutte le comunità e Chiese cristiane.

Tre sono le memorie di oggi: quella di Efrem di Nisibi, diacono, poeta e innografo; quella di José de Anchieta, “il più piccolo della Compagnia di Gesù” (secondo la sua stessa definizione); e quella di Héctor Gallego, prete e martire della solidarietà in Panama.

Efrem nacque a Nisibi in Mesopotamia (oggi Nusay-bin in Turchia, al confine con la Siria), verso il 306 e, diciottenne, ricevette il battesimo dal vescovo di quella città, Giacomo, che divenne sua guida spirituale ed amico. Al pari di altri asceti di quella regione, Efrem rinunciò al matrimonio e scelse di vivere in solitudine, dedicandosi allo studio delle Scritture e alla preghiera, e ponendo la sua vita al servizio della chiesa e dei poveri. Quando nel 363 la città cadde in mano persiana, Efrem, che nel frattempo era stato ordinato diacono, si stabilì a Edessa, dove gli fu affidata la direzione della cosiddetta “scuola dei persiani”, in cui si insegnava a leggere e a commentare la Sacra Scrittura. Dall’assidua frequentazione dei testi sacri, trasse, con l’aiuto dell’estro poetico di cui era assai dotato, molte liriche e inni, che si diffusero ben presto in tutto l’Oriente. Nel 372, una grande carestia si abbattè sulla città di Edessa, e Efrem ricevette l’incarico di organizzare i soccorsi. Morì il 9 giugno dell’anno successivo. Benedetto XV lo dichiarò dottore della Chiesa nel 1920.

José era nato il 19 marzo 1533 a San Cristobal de la Laguna, nell’isola di Tenerife, arcipelago delle Canarie, da dona Mência Dias de Clavijo Llerena (di famiglia ebrea convertita) e da João Lopez de Anchieta, un esule basco che, dopo una ribellione, si era visto commutata la pena di morte in quella dell’esilio, grazie all’intervento di un capitano suo amico, tal Ignazio di Lojola. Di cui in seguito si sarebbe sentito parlare in altra veste. Ricevuta la prima istruzione nella città natale e mandato, quattordicenne, a Coimbra, in Portogallo, per portare a termine i suoi studi, José maturò lì la sua vocazione religiosa. Entrato nella Compagnia di Gesù nel 1551, fece la sua professione religiosa due anni più tardi e subito dopo fu inviato con altri compagni come missionario in Brasile. Sbarcati a Bahia l’8 luglio 1553, i missionari si spostarono in direzione dell’altipiano. Giunti nei pressi di un villaggio indigeno, nella regione di Piratininga, costruirono la loro prima casa, “una casupola poverissima e strettissima”, che vollero dedicare a san Paolo, dato che era il 25 gennaio [1554], festa della Conversione dell’Apostolo. Fu da quella baracca che negli anni successivi si sarebbe sviluppata quella che oggi è la megalopoli paulista. Ordinato sacerdote nel 1566, il nostro gesuita, che continuerà a firmarsi sempre e soltanto col nome, per timore forse che si scoprissero le sue ascendenze ebree (erano tempi in cui l’Inquisizione perseguitava gli ebrei convertiti, diffidando della sincerità della loro conversione), si distinse per entusiasmo apostolico e per saggezza, nonché per capacità di governo, quando, un decennio più tardi, fu chiamato alla guida della Provincia gesuita del Brasile. Di fronte alla brutalità e all’ignoranza crassa dei colonizzatori, seppe prendere le difese degli indios, studiando le possibilità e percorrendo i cammini di quella acculturazione pacifica che, nei parametri culturali e religiosi dell’epoca, era intesa come unica via alla promozione umana, sociale e morale di quelle popolazioni. Compose in lingua indigena il primo catechismo, dopo averne scritta anche la prima grammatica. Morì il 9 giugno 1597 a Reritiba, chiamata poi Anchieta in suo onore.

Il colombiano Jesús Héctor Gallego era giunto, per la prima volta a Santa Fé de Veraguas, in Panama, da seminarista, nel febbraio 1967. Ed era tornato in patria, solo per esservi ordinato prete, il 16 luglio dello stesso anno, per mano del profetico vescovo Mons. Marcos Gregorio McGrath. Rientrato in agosto, in Panama, avviò subito un’intensa attività pastorale per impiantare quella che sarà la sua futura parrocchia. Con un gruppo di seminaristi prese a percorrere tutta la regione, visitando i villaggi disseminati sulle sue montagne. Si trattava di un distretto completamente abbandonato, per l’assoluta mancanza di vie di comunicazione. I contadini erano quasi tutti analfabeti, poveri, in cattive condizioni di salute e isolati. Padre Héctor organizzò la popolazione in 64 comunità di base, in cui si approfondiva la conoscenza delle Scritture, si discutevano i problemi della comunità, si celebrava l’Eucaristia. Una volta al mese si celebrava la Messa di tutte le comunità; oltre mille contadini, macinando molti chilometri a piedi, convergevano allora a celebrare la loro fede, scoprire insieme le cause dell’oppressione e della miseria, divenire solidali nella lotta, organizzare il lavoro in cooperativa. Il lavoro di coscientizzazione si basava su un “pericoloso libello rivoluzionario”: l’enciclica Populorum Progressio di Paolo VI. Se la gente sentiva di potersi fidare di quel prete, che vestiva e abitava poveramente come loro, che, come loro, a volte, pativa la fame, altri invece presero a guardarlo con sospetto e stizza. Le minacce contro il “prete estremista”, che era venuto a turbare l’ordine e la sicurezza dei latifondisti, si moltiplicarono, così come gli avvertimenti, i dispetti, gli attentati, i fermi. Finché, il 9 giugno 1971 fu prelevato a forza di casa e fatto sparire. Numerosi testimoni riconobbero nei sequestratori alcuni membri della Guardia Nazionale, che nei giorni precedenti il sequestro avevano chiesto di lui. Tre di loro saranno in seguito condannati a quindici anni di prigione per coinvolgimento diretto nella sparizione di padre Héctor. Lui però vive.

È tutto, per stasera. Prendendo spunto dalla solennità odierna, vi proponiamo, nel congedarci, una pagina del teologo ortodosso Olivier Clement, tratta dal suo libro “I volti dello Spirito” (Qiqajon), che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
L’era dello Spirito – e troppo spesso tendiamo a dimenticarlo – è anzitutto l’era della chiesa. Infatti la chiesa è chiesa dello Spirito Santo: è dal calice eucaristico che lo Spirito si riversa sul mondo. La chiesa, al di là di tutti quegli aspetti più prettamente sociologici che pure conserva e che sovente ci disorientano, dal punto di vista dello Spirito santo non è nient’altro che il sacramento del Risorto. Al cuore di ogni azione sacramentale, e soprattutto della liturgia eucaristica, si trova l’epiclesi, invocazione per la discesa dello Spirito sull’assemblea e sulle sue offerte. L’ascensione, e quei misteriosi dieci giorni nei quali Cristo, il nostro gran sacerdote, ha pregato il Padre perché mandasse sui discepoli in attesa lo Spirito che avrebbe vivificato la chiesa come in origine aveva vivificato il mondo, l’ascensione e l’intercessione del Cristo glorificato sono il luogo in cui si dà l’epiclesi delle epiclesi. E noi sappiamo, con tutta la forza della nostra fede, che Dio risponde, che è fedele, e quindi che ogni assemblea eucaristica è il luogo di una continua pentecoste. “Noi abbiamo ricevuto lo Spirito celeste”, canta il coro dopo la comunione nella divina liturgia ortodossa. La pentecoste fonda la chiesa: nei Grandi vespri cantiamo: “Lo Spirito fa nascere i profeti come da una sorgente, istituisce i presbiteri, rende teologi i peccatori, costituisce la chiesa”. Lo Spirito moltiplica nella chiesa le vocazioni, i doni, i servizi, i ministeri. Non dimentichiamo che anche l’autorità episcopale è un dono dello Spirito Santo che vivifica l’istituzione apostolica fondata da Cristo… L’opera di Cristo ha reso possibile l’avvento in pienezza dello Spirito: per questo Pavel Evdokimov ha potuto affermare che Cristo era il grande precursore dello Spirito. Cristo ha reso la creatura capace di divenire, in lui “pneumatofora”. Lo Spirito, che ci rende uomini liberi, collaborando con la nostra libertà delinea a poco a poco, nella comunione dei santi, il volto del Cristo veniente. Una delle intuizioni principali di Massimo il Confessore e di Simeone il Nuovo Teologo è che le virtù dei santi, assimilando le energie divine corrispondenti, incarnano progressivamente il Logos nella storia, o meglio manifestano, diffondono la sua incarnazione, preparando così lo svelamento escatologico del mondo come “corpo di Dio”, luogo di una pentecoste che si perpetua. (Olivier Clement, I volti dello Spirito).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 09 Giugno 2019ultima modifica: 2019-06-09T22:06:59+02:00da fraternidade
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