Giorno per giorno – 12 Maggio 2019

Carissimi,
“Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio. Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10, 27-30)”. Siamo proprio sicuri di ascoltare sempre la voce di Gesù, e, perciò, di seguirlo? O non ci capita spesso di dare piuttosto retta alle chiacchiere degli imbonitori di turno, politici, pastori, venditori di fumo, che finiscono per attirarci al loro seguito, sottraendoci alle cure e all’ammestramento di colui che confessiamo come nostro unico Pastore e Salvatore, senza però dare contenuto a questa nostra professione di fede, scegliendo anzi contenuti che la stravolgono e la negano? Il suo contenuto più vero, come sottolineano bene le letture di oggi, è il principio della cura, che è, per così dire, il riassunto di Dio e il significato dell’evento di Gesù e perciò anche il senso della missione dei cristiani. Della quale Pietro, oggi, diceva: “Così infatti ci ha ordinato il Signore: Io ti ho posto come luce per le genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra” (At 13, 47). Salvezza, i cui segni, devono potersi vedere già qui ed ora. E saranno questi: “Non avranno più fame, né avranno più sete, né li colpirà il sole, né arsura di sorta, perché l’Agnello che sta in mezzo al trono sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi” (Ap 7, 16-17). Detto delle moltitudini “di ogni nazione, razza, popolo e lingua” (v. 9), che fuggono la “grande tribolazione” (v. 14). Quale Pastore testimoniamo con la nostra fede? Possiamo davvero affermare, facendo nostre le parole di Gesù, che nessuno che abbia cercato rifugio presso di noi sia andato perduto o sia stato rapito dalla nostra mano? Certo, quando è il caso, a costo di trasgredire le leggi, e scontando l’ira dei potenti di turno. La chiesa è questa cosa qui, se no rischia di trasformarsi in una combriccola di sfaccendati.

I testi che la liturgia di questa 4ª Domenica di Pasqua propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Atti degli Apostoli, cap.13, 14. 43-52; Salmo 100; Libro dell’Apocalisse, cap.7, 9. 14b-17; Vangelo di Giovanni, cap. 10, 27-30.

La preghiera della Domenica è in comunione con tutte le comunità e chiese cristiane.

Oggi il nostro calendario ecumenico ci porta le memorie di Rabbi Meir e di sua moglie Beruriah, sapienti in Israele; e di Irena Sendler, “giusta tra le nazioni”.

Discepolo di Akiva, e Maestro Tannaita del II secolo, Rabbi Meir era discendente di pagani convertiti al giudaismo. In realtà il suo nome era Measha, o Nechemiah, ma fu chiamato Meir o, in aramaico, Nehorai, (l’Illuminatore), perché illuminava le menti degli studiosi dell’halacha (la parte giuridica del Talmud). Quando la Mishna non cita per nome l’autore di un’opinione, si ritiene sia un insegnamento del nostro. Scriba di professione, raccontano che guadagnasse tre selah per settimana. Ne spendeva uno per comprare cibo, un altro per il vestiario e il terzo lo versava agli studiosi della Legge. Quando i suoi alunni gli fecero notare che in tal modo non accantonava nulla per i suoi figli, rispose: “Se essi saranno retti, sarà vero per loro ciò che disse il re David: Non si è mai visto un giusto abbandonato e i suoi figli costretti a mendicare il pane (Sal 37,25). Se non lo saranno, perché dovrei lasciare del mio a dei nemici di Dio?”. Beruriah, moglie di Rabbi Meir, fu la figura femminile di maggior spicco del periodo talmudico. Figlia di Rabbi Chanina Ben Teradion, martirizzato per aver insegnato pubblicamente la Torah, nonostante un divieto imperiale, la donna godeva di una considerevole reputazione come erudita, e spesso si preferiva la sua opinione a quella dei sapienti che le si opponevano. Lo stesso Meir si avvaleva sovente del suoi consigli. La sua vita fu marcata dalla tragedia: oltre al padre torturato a morte dai romani, sua sorella fu obbligata a prostituirsi, suo fratello fu ucciso dai banditi e infine i suoi due figli morirono improvvisamente nel pomeriggio di un sabato. Per non turbare la gioia sabbatica del marito, aspettò l’ora del tramonto, lo chiamò e gli chiese se era tenuta a restituire alcuni oggetti che le erano stati affidati. Il marito rispose che aveva l’obbligo di farlo. Lei allora lo condusse nella camera dei figli e scoprendone i corpi inanimati disse, citando il libro di Giobbe: “Il Signore dá, il Signore toglie, sia benedetto il nome del Signore”. Rabbi Meir morì in Asia Minore, verso il 175 d.C. Chiese di essere sepolto in Israele, in riva al mare, perché le onde che bagnavano la sua terra, coprissero anche la sua tomba. Successivamente il suo corpo venne esumato e sepolto nuovamente a Tiberiade, dove la tomba divenne meta di pellegrinaggi. Nel calendario ebraico, la memoria di Rabbi Meir (da noi unita a quella della sposa Beruriah) cade il 14 Iyar (data mobile tra aprile e maggio).

Irena Krzyzanowski era nata a Otwock, una cittadina a circa venti chilometri da Varsavia (Polonia), il 15 febbraio 1910 da Janina e Stanislaw Krzyzanowski, un medico, che fu tra i primi membri del Partito socialista polacco, e uno dei pochi medici cattolici che, a quel tempo, accettarono di prestare assistenza alle famiglie povere della locale comunità ebraica. Morirà nel febbraio 1917, di tifo, contratto mentre assisteva i pazienti, che i suoi colleghi avevano rifiutato di curare. Fu per l’educazione ricevuta dai genitori che, già da bambina, Irena frequentò ed ebbe modo di conoscere e di simpatizzare con i suoi piccoli compatrioti ebrei. Terminati gli studi, sposò Mieczyslaw Sendler (con il cui cognome sarebbe stata conosciuta in seguito, nonostante il fallimento del matrimonio, subito dopo la guerra). All’epoca dell’invasione tedesca della Polonia, nel 1939, Irena lavorava come infermiera per i servizi sociali del comune di Varsavia. Quando si scatenò la perscuzione nei confronti degli ebrei, decise da subito che non poteva restare indifferente e che doveva darsi da fare. Nei mesi che seguirono, lei ed altri volontari fabbricarono migliaia di documenti falsi per aiutare le famiglie ebree a nascondersi. Nel dicembre del 1942, il movimento clandestino Żegota (Consiglio per l’aiuto agli ebrei), da poco creato, la nominò, con il nome di battaglia di Jolanta, a dirigere la sezione che si occupava del salvataggio dei bambini. Come impiegata dei servizi sociali di Varsavia aveva diritto di accesso al ghetto della città. Fu così che si ingegnò in mille modi per nascondere e portar fuori dal ghetto quanti più bambini possibile, affidandoli poi, con documenti falsi, presso famiglie fidate nelle campagne circostanti, o presso conventi e istituti religiosi. Di ognuno di essi annotò accuratamente in codice i veri nomi accanto a quelli falsi, collocando poi le liste in contenitori di vetro, che nascose sotto terra. Sperava in tal modo di potere riunire i bambini, un giorno, ai genitori o, almeno, a qualche membro delle loro famiglie. Il 20 ottobre del 1943 Jolanta fu scoperta e arrestata dalla Gestapo. Condotta nella famigerata prigione di Pawiak, fu ripetutamente torturata. Le spezzarono i piedi e le gambe, ma non tradì l’organizzazione, né rivelò gli indirizzi dei bambini nascosti. Condannata a morte, fu salvata all’ultimo minuto, quando membri della Żegota riuscirono a corrompere le guardie che l’avevano in custodia e sottrarla così all’esecuzione. Dopo la guerra visse un’esistenza normale, tornò al suo vecchio lavoro, si sposò nuovamente, ebbe tre figli, restando in ogni caso in contatto con alcuni dei bambini che aveva salvato. Nel 1965 ricevette il titolo di Giusta tra le nazioni dallo Yad Vashem di Gerusalemme. In una lettera al Senato del suo Paese, che, più tardi, le attribuì un premio, scrisse: “Ogni bambino salvato con il mio aiuto e con l’aiuto di tutti i meravigliosi messaggeri che oggi non ci sono più, è ciò che giustifica la mia esistenza sulla terra più di ogni possibile onorificenza”. In un’altra occasione ebbe a dichiarare: “Avrei potuto fare di più. Questo rammarico mi seguirà fin o alla morte”. Aveva salvato solo 2500 bambini. Era stata torturata e aveva rischiato solo la morte. Irena Sandler è morta a Varsavia il 12 maggio 2008.

“La scelta morale riguarda innanzitutto la scelta di noi stessi come persone buone. In tal modo diventiamo coloro che abbiamo scelto di essere e in tal senso siamo ‘buoni’. Ma come posso riconoscere ciò che è buono? È qui che faccio riferimento alle parole di Socrate per cui è meglio soffrire l’ingiustizia che commetterla”. È una citazione della filosofa Agnes Heller, che oggi compie novantanni. Nata nel 1929 in Ungheria, ebrea scampata alla persecuzione antisemita durante la guerra, fu allieva e amica di Gyorgy Lukács, poi voce del dissenso rispetto al sistema sovietico. Allontanata per questo dall’insegnamento, lasciò il Paese insieme al marito, il filosofo Ferenc Fehér, recandosi prima in Australia poi in America, dove vive. Prendendo spunto da questa ricorrenza, scegliamo di congedarci, offrendovi una sua citazione, da lei stessa liberamente tratta, nel corso di una conferenza, dal libretto che, con il titolo “La bellezza (non) ci salverà” (Il Margine), raccoglie il dialogo snodatosi sul tema tra la Heller e il sociologo polacco Zygmunt Bauman. Ed è questo, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
La bellezza non ci può salvare, non ci può redimere, né tanto meno può eliminare il dolore o mettere un freno alla morte. Tuttavia la bellezza ci salverà e ci salva tutt’ora dal mostro della disperazione: la bellezza ha in sé la promessa della felicità e, osservandola in un istante di sconforto, di più profonda e buia sfiducia religiosa o emotiva, o in qualsiasi altra situazione che ci getti nell’ombra e nell’avvilimento, essa ci ricorda che possiamo essere felici. (Agnes Heller, La bellezza (non) ci salverà)

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 12 Maggio 2019ultima modifica: 2019-05-12T22:44:04+02:00da fraternidade
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