Giorno per giorno – 13 Maggio 2019

Carissimi,
“Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10, 8-10). Quale sguardo disincantato sulla storia racchiuso in queste poche parole! Una storia che raramente è uscita dalla logica della competizione e contrapposizione violenta, per conquistare e mantenere il potere, a vantaggio del proprio gruppo etnico, sociale, religioso, ideologico che sia. Trasferendo, e perpetuando nel tempo, sul piano delle relazioni umane, quella che, nel racconto di Genesi, era l’immagine, suggerita dal serpente, di un dio, concepito come figura di un dominio incontrastato, geloso delle proprie prerogative (“diventereste come Dio!”). Così da cambiare radicalmente di segno al Dio che era ed è dono di tutto a tutti. A ristabilire la verità originaria delle cose è venuto Gesù, come “porta”, che rende possibile a tutti, in un processo di esodo permanente (“entrerà e uscirà”), l’esperienza della libertà dalla tirannia, aperta o mascherata, dei falsi pastori, governanti, leader politici o religiosi, ideologhi al loro servizio, che a vario titolo spadroneggiano e manipolano, fomentando sospetto, divisione, odio, intolleranza, per meglio opprimere, sfruttare, impoverire i più, accumulando a favore dei pochi. Contro il progetto di Dio che è che tutti trovino pascolo, abbiano vita e vita in abbondanza. Abbiamo così lo strumento per decidere della fedeltà nostra, della nostra chiesa, della nostra società, al Vangelo di Gesù.

Oggi il nostro calendario ci porta le memoria di Bede Griffiths, monaco-sannyasi, e di René Voillaume, piccolo fratello di Gesù.

Alan Richard Griffiths era nato, ultimo di tre figli, il 17 dicembre 1906 a Walton-on-Thames, in Inghilterra, da una famiglia un tempo benestante, ma ora impoverita. Giunta l’età degli studi, il giovane ottenne tuttavia una borsa di studio, che gli consentirà di studiare fino al conseguimento della laurea in giornalismo, a Oxford. Dopo la laurea, per circa un anno, il giovane Griffiths visse con due amici un’esperienza di vita semplice ed essenziale, a contatto con la natura, alimentata dalla lettura della Bibbia e di altri testi di letteratura cristiana. Dopo una visita all’abbazia benedettina di Prinknash, chiese di ricevere il battesimo – che gli fu somministrato la vigilia del Natale 1931 e, l’anno successivo entrò in monastero, assumendo il nome di Bede. Nel 1937 pronunciò i suoi voti perpetui e nel 1940 fu ordinato sacerdote. Per circa quindici anni se ne stette relativamente tranquillo, scandendo la sua vita, come vuole la Regola, tra preghiera, studio e lavoro. Nel 1955, la svolta, con la richiesta di trasferirsi in India, “alla scoperta dell’altra metà dell’anima”. Assieme a Benedict Alapott, un prete indiano nato in Europa, si stabilì per tre anni a Kengeri, nel Bangalore, poi nel 1958, raggiunse p. Francis Acharya, nel Kerala, collaborando alla fondazione dell’ Ashram Kurisumala, un monastero di rito siriaco, dove assunse il nome di Dhayananda (Beatitudine della preghiera). Nel 1968, infine, si trasferì, con altri due monaci indiani, Swami Amaldas e Swami Christodas, all’Ashram Saccidananda, a Shantivanam, nello stato del Tamilnadu, vicino a Tiruchirappalli. L’ashram, fondato nel 1950 da Jules Monchanin e Henry Le Saux, era stato il primo tentativo di fondare in India una comunità cristiana che seguisse i costumi di un ashram e s’adattasse, nel modo di vivere e di pensare, allo stile indù. Bede Griffiths, che adesso prese a chiamarsi Dayananda (Beatitudine della Compassione), si conformò in tutto al costume vedico, vestendo la veste arancione del sannyasi e vivendo in assoluta povertà, fino alla morte, che lo colse, uomo dal cuore universale, il 13 maggio 1993.

René Voillaume era nato a Versailles il 19 luglio 1905. Ordinato prete nel 1929, aveva proseguito gli studi all’Angelicum di Roma e si era poi specializzato in lingua araba e islamistica a Tunisi. L’8 settembre 1933, nella basilica parigina del Sacro Cuore a Montmartre, insieme a Guy Champenois, Marcel Boucher, Georges Gorrée e Marc Gerin, Voillaume dava inizio alla famiglia dei Piccoli fratelli di Gesù. Decisero di stabilirsi insieme a El-Abiodh, nell’Algeria del Sud, seguendo le impronte di Charles de Foucauld, l’eremita solitario che a lungo sognò, senza riuscirvi, di fondare una congregazione che avesse come ideale la vita nascosta di Gesù a Nazareth. Nel 1939, dall’incontro di Voillaume con Magdeleine Hutin, avvenuto l’anno prima, sarebbe nata la congegazione delle Piccole sorelle di Gesù. Altre famiglie sarebbero in seguito sorte, alimentate dall’intuizione spirituale di fratel Charles e dalla traduzione che Voillaume seppe farne nel cuore del nostro tempo. Quando, prima di morire Voillaume diede spazio ai ricordi autobiografici, volle sottolineare l’importanza che, nella sua vicenda spirituale, ebbero il Santissimo Sacramento e Nazareth. Quest’ultima letta nei suoi due significati di vita di silenzio, preghiera, lavoro e povertà, e quello di inserimento in un ambiente povero, in cui, fuori da ogni troppo facile retorica, si condivide la vita e il lavoro di tutti. Il 13 maggio 2003, alle soglie dei 98 anni padre Voillaume moriva a Aix-en-Provence, assistito dai rappresentanti delle varie famiglie spirituali nate dai suoi scritti e dalla sua vita.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Atti degli Apostoli, cap.11, 1-18; Salmo 42; Vangelo di Giovanni, cap. 10, 1-10.

La preghiera di questo lunedì è in comunione con i fedeli del Sangha buddhista.

È tutto, anche per stasera. Noi ci congediamo qui, con un testo di René Voillaume, tratto dal suo “Pregare per vivere” (Cittadella Editrice). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Bisogna assolutamente che ci convinciamo che andiamo all’adorazione non per ricevere, ma per dare, e per dare spesso senza comprendere, senza vedere ciò che diamo. Vi andiamo per abbandonare a Dio, nella notte interiore, tutto il nostro essere. Bisogna che comprendiamo tutto ciò che le parole “abbandonare a Dio tutto il nostro essere”, racchiudono di fede oscura, talvolta di sofferenza e sempre di ricchezza d’amore. L’adorazione, la preghiera, non è in primo luogo un sentimento né un pensiero, ma è il riconoscere la presa di possesso di Dio su di noi, sul più intimo di noi stessi; è un’opera più grande e più assoluta di quanto possiamo averne coscienza. È un atto che suppone molto coraggio e abbandono di sé a una attività del Cristo in noi: è spesso terribilmente dolorosa. Capiremo meglio, con l’esperienza, fino a che punto l’orazione suppone un distacco radicale da tutto il creato. Al momento stesso della preghiera deve, in modo veramente attuale determinarsi una specie di morte a tutto quello che non è Dio. È per questo, che molti, fra cui preti e religiosi, rifuggono dalla vera preghiera per rifugiarsi in una semplice formalità di preghiere vocali che illudono, o nel surrogato di una riflessione meditata su un soggetto morale. Spesso, coscientemente o no, si ricorre a queste scappatoie, quando non si compie l’atto sostanziale del dono di sé, che si dovrebbe fare come condizione preliminare dell’orazione. Il che non vuol dire che si debbano trascurare le preghiere vocali o le riflessioni di fede sul Vangelo e sulle verità cristiane. In certi casi, esse possono servire da alibi a un’anima che si rifiuta. La nostra disponibilità per la preghiera suppone dunque, non solo la fede nell’importanza della preghiera, ma un vero lavoro di distacco interiore che, in linea di massima, dovrebbe essere radicale e senza limiti, della misura stessa del nostro amore. (René Voillaume, Pregare per vivere).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 13 Maggio 2019ultima modifica: 2019-05-13T22:49:47+02:00da fraternidade
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