Giorno per giorno – 24 Gennaio 2019

Carissimi,
“Gesù intanto si ritirò presso il mare con i suoi discepoli e lo seguì molta folla dalla Galilea. Dalla Giudea e da Gerusalemme e dall’Idumea e dalla Transgiordania e dalle parti di Tiro e Sidone una gran folla, sentendo ciò che faceva, si recò da lui”(Mc 3, 7-8) Insomma, arrivavano da ogni dove, dal nostro Nordeste, ma anche dal Venezuela, o, come direste voi, dai paesi comunitari e extracomunitari. O come la colonna di migranti honduregni, salvadoregni e guatemaltechi, che, da mesi, si sta dirigendo verso la frontiera del Messico con gli Stati Uniti. Tutti in cerca di vita. Solo che allora non c’erano reti di filo spinato o porti chiusi, o popolazioni rivoltate che ricacciavano indietro i nuovi arrivati, o addirittura un esercito schierato a battaglia. C’era un povero Rabbino itinerante, che aveva fama di guaritore e loro era solo questo che desideravano, guarire, essere liberati dai loro mali, così gli si accalcavano intorno, gli si buttavano addosso. Lui, per non rimanerne schiacciato, e finire anzitempo la sua missione, chiese ai suoi predisporgli una barchetta, da cui potesse annunciare a tutta quella gente il progetto del Padre (che non è una religione, ma è vita e vita piena per tutti), perché tutti, a loro volta, se ne facessero poi portatori. Quella barchetta, con poca gente, i primi ad essere stati da Lui toccati e guariti, non con ansia di imbarcare quanti più si potesse, ma come semplice segno di come essere, era già prefigurazione della chiesa, di ogni nostra comunità. Lo è davvero, ancora oggi?

Oggi facciamo memoria di Erich Sack, pastore luterano, oppositore del nazismo, martire a Dachau; e di Mons. Samuel Ruiz Garcia, vescovo-profeta nel Chiapas.

Erich Sack nacque, il 1° Aprile 1887, a Goldap, nella Prussia Orientale (oggi, in Polonia). Ordinato Pastore luterano dopo gli studi in teologia all’Università di Königsberg , aveva cominciato a svolgere il suo ministero nella Parrocchia di S. Anschar e all’ospedale “Bethlehem” a Eppendorf, nei dintorni di Amburgo. Nel 1914 ritornò nella Prussia Orientale e divenne Pastore a Lyck (Ełk). Nel 1924 si trasferì a Pillkallen (Dobrovolsk) e, nel 1927, a Lasdehnen (Krasnoznamensk). Dopo la presa del potere da parte dei nazisti, si oppose strenuamente all’organizzazione dei “Cristiani tedeschi” di ispirazione nazista, e si unì alla Chiesa Confessante. Nel 1942 fu arrestato dalla Gestapo, sotto l’accusa di “minare la resistenza del popolo tedesco” per aver espresso pubblicamente le sue preoccupazioni circa una vittoria tedesca. Erich Sack morì nel campo di concentramento di Dachau il 24 Gennaio 1943.

Nato il 3 Novembre 1924, a Irapuato, nello stato di Guanajuato (Messico), Samuel Ruiz Garcia era stato ordinato sacerdote il 2 aprile 1949. Alla fine del 1959, quando aveva solo trentacinque anni, Giovanni XXIII lo nominò vescovo del Chiapas, una diocesi vastissima, caratterizzata per la sua estrema povertà e per il fatto di avere una popolazione a maggioranza indigena. Dai poveri della sua diocesi, tatic Samuel, anche sull’onda dello spirito più vero del Concilio Vaticano II, si lasciò convertire e al loro servizio ininterrottamente si pose sino al compimento dei settantacinque anni di età, alla fine del 1999, quando, presentate le canoniche dimissioni (ansiosamente attese da alcune alte gerarchie), si ritirò a Queretaro, dove visse gli ultimi anni della sua vita. Si è spento il 24 gennaio 2011, alla vigilia del cinquantunesimo anniversario della sua consacrazione episcopale. In tempo per celebrarla ai piani superiori.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Lettera agli Ebrei, cap. 7, 25 – 8,6; Salmo 40; Vangelo di Marco, cap. 3, 7-12.

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura un brano di intervista concessa da Mons. Samuel Ruiz Garcia al giornalista Massimo De Giuseppe, che troviamo col titolo “Ricordando Samuel Ruiz. La Chiesa e il mondo indigeno: il Chiapas, tra Concilio e comunità maya” nel sito di Status Ecclesiae. Ed è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Quando il Concilio ci disse di avviare una situazione di incarnazione attraverso la cultura esistente, cominciò a cambiare l’approccio pastorale: l’azione nelle diverse zone indigene cominciò a farsi trasformatrice e noi a renderci conto del pluriculturalità di quel mondo. Tutto questo processo si sviluppò in modo molto graduale e si accompagnò a un complesso fenomeno di conoscenza reciproca. Però all’inizio era difficile riconoscere le differenze, così come era difficile per loro distinguere catechisti pre-conciliari e post-conciliari perché il processo di cambiamento passò attraverso una serie di difficoltà nel lavoro con la gente, soprattutto nel mutare la nostra posizione verso un’accettazione di elementi culturali; diventava insomma difficile riconoscere quali posizioni, attitudini, situazioni o tradizioni degli indigeni potevano o non dovevano essere accettate, con un giudizio e una percezione culturale della situazione che era fondamentalmente occidentale. Quando, con il consiglio e con l’esperienza sul campo, abbiamo cominciato ad assumere un’attitudine rispettosa verso la cultura, la legge e la tradizione altrui, prendendo in considerazione le persone come tali, nel tentativo di vedere come Dio si era reso vivo in queste culture particolari, per poter procedere nella nostra opera pastorale: solo in quel momento abbiamo iniziato a fornire alcune indicazioni agli indigeni. Allora però si ebbe anche una reazione che non avevamo previsto. Alcuni infatti vennero a dirmi: signore, noi non la capiamo più, perché prima ci dicevate che le nostre consuetudini non avevano valore, spingendoci a rigettare la nostra cultura. Ora invece tu vuoi che noi rimangiamo quello che ci avete fatto rigettare. Per me quella fu un’esperienza piuttosto forte. Però, come dicevo, durò poco, perché evidentemente, muovendoci all’interno del loro contesto culturale che noi dimostravamo di apprezzare, riuscimmo ad ottenere grandi risultati; non era difficile per loro tornare a recuperare ciò che pensavano si dovesse conservare del proprio mondo, il proprio essere indigeni, forzosamente abbandonato per cercare di farsi mestizos. Questo passaggio fu difficile ma rapido e la crisi iniziale passò in fretta semplicemente perché sentirono che veramente c’era apprezzamento della loro cultura, dei loro valori, nella speranza di entrare in una nuova dimensione di condivisione. (Massimo de Giuseppe, Samuel Ruiz. La Chiesa e il mondo indigeno: il Chiapas, tra Concilio e comunità maya).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 24 Gennaio 2019ultima modifica: 2019-01-24T22:53:09+01:00da fraternidade
Reposta per primo quest’articolo