Giorno per giorno – 23 Gennaio 2019

Carissimi,
“E i farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui per farlo morire” (Mc 3, 6). Questo perché Gesù aveva curato uno di sabato. Profanando una volta di più la Legge, che, nell’insegnamento dei maestri, autorizzava a soccorrere il malato solo se egli corresse pericolo di vita. E non era certo il caso dell’uomo con la mano inaridita, di cui dice il vangelo di oggi. Stamattina, ci dicevamo che c’è dell’altro dietro la mano inaridita di quell’uomo, in sinagoga. Oggi, diremmo, in chiesa. C’è una religione che ci chiude in noi stessi, un’incapacità di fondo di aprirsi al dono. Secondo una logica appresa nella società, per la quale ciò che riceviamo da Dio (dalla vita), o arraffiamo, rapiniamo, sottraiamo agli altri, direttamente o attraverso la longa manus del Sistema (salvando così la nostra buona coscienza), siamo poi incapaci di condividerlo. Viene Gesù, ci vede, mette a nudo la nostra falsa religiosità che ci chiude agli altri, prende Lui l’iniziativa, e dal nostro incontro con lui usciamo curati. Pronti a divenire, come Lui, come Dio, benedizione per il nostro prossimo. Portatori della logica del Regno. Percepita, però, questa, dal Potere e dai suoi alleati, come pericolosa. Questo spiega l’alleanza innaturale (?) che si instaura tra i sostenitori del tradizionalismo religioso (farisei, pseudoevangelici, cattolici nostalgici alla Bannon, ecc.) e i fautori di un regime sostanzialmente pagano (Erode, Trump, Bolsonaro e quant’altri). Come ci è dato assistere. Ora, se è giusto, da un lato aver ben presente questi meccanismi e denunciarli, è ancor più doveroso vigilare su noi stessi perché non si ricada noi, nel nostro piccolo, nella stessa logica, che ci fa prigionieri del nostro egoismo.

Il calendario ci porta la memoria di Nikolaus Gross, martire sotto il totalitarismo nazista, e quelle di Benedetta Bianchi Porro e di Pierre Lyonnet, gesuita, entrambi testimoni seri e gioiosi sull’altare della sofferenza.

Nikolaus Gross era nato il 30 settembre 1898 a Niederweningern, nei pressi della città di Essen, in Germania, nella famiglia di un minatore. Costretto ad abbandonare gli studi, cominciò a lavorare giovanissimo in un laminatoio, poi come manovale e successivamente come minatore in una miniera di carbone, dove per cinque anni svolse il suo lavoro in galleria. Nel 1917 entrò a far parte del Gewerkverein christlicher Bergarbeiter, l’associazione sindacale dei minatori cristiani. Da allora, oltre che al lavoro e agli studi che aveva ripreso, gran parte del suo impegno fu profuso nell’attività sindacale e nella militanza politica, in tempi che si profilavano tempestosi. Sposatosi con Elisabeth Koch, ebbe da lei sette figli. All’inizio del 1927 divenne aiuto redattore, e poi capo-redattore del Westdeutsche Arbeiterzeitung, l’organo del Katholische Arbeitnehmer Bewegung, l’Associazione dei minatori cattolici, a cui Gross aveva aderito nel 1919. Nel 1929, all’affacciarsi del nazismo sulla scena politica, prese subito coscienza del pericolo che esso rappresentava e scrisse che “bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini e la disobbedienza diventa un dovere quando ci si domanda qualcosa contro Dio o contro la fede”. Nel 1930, scriverà: “come lavoratori cristiani, rigettiamo il nazismo definitivamente, risolutamente e chiaramente”. Inevitabile che il suo giornale, alla presa del potere da parte di Hitler, fosse dichiarato nemico dello stato e, in seguito soppresso. Gross continuò tuttavia le sue attività come membro di una rete di resistenza, facendo opera di diffusione tra gli operai di pubblicazioni che richiamavano i valori del Vangelo e la responsabilità che deriva dalla fede. Accusato di coinvolgimento nell’attentato a Hitler del 20 luglio 1944, all’organizzazione ed esecuzione del quale non aveva per altro, partecipato direttamente, fu arrestato tre settimane più tardi, rinchiuso a Ravensbrück, e poi nel carcere di Tegel, a Berlino. Condannato a morte il 15 gennaio 1945, per tradimento, fu impiccato nella prigione di Plötzensee, il 23 gennaio. Il suo corpo fu bruciato e le sue ceneri disperse. Nel 1943 aveva scritto: “La maggior parte delle grandi prestazioni nasce dall’adempimento giornaliero del dovere nelle piccole cose quotidiane. E nel far questo il nostro amore va sempre ai poveri e agli ammalati in modo speciale”.

Benedetta Bianchi Porro era nata l’ 8 agosto 1936, a Dovadola, in provincia di Forlì, secondogenita della famiglia di Guido Bianchi Porro e di Elsa Giammarchi. Colpita a pochi mesi da poliomielite, che le lascerà una gamba un po’ più corta dell’altra, Benedetta visse la sua infanzia, allegramente e senza complessi, “bambina sensibile e delicata, intelligente e volitiva”, studiando prima a Forlì e, successivamente a Desenzano, quando la famiglia, nel 1951 si trasferì a Sirmione. Nel frattempo si erano però manifestati i primi sintomi di una sordità progressiva, che non gli impedirono tuttavia di dedicarsi brillantemente agli studi, ma anche agli interessi e svaghi della sua età: il pianoforte, le nuotate nel lago, le gite in barca, i giochi e gli scherzi. Nel 1953, terminata il secondo liceo, sostenne e superò gli esami di maturità, iscrivendosi così, a soli diciassette anni, alla facoltà di medicina dell’Università di Milano. Già l’anno successivo, tuttavia, cominciarono a manifestarsi i sintomi della malattia che, diagnosticata nel 1957 come neurofibromatosi diffusa, l’avrebbe portata alla morte, lungo “un calvario indicibile, in cui […] si alternarono momenti di sconforto e straordinari slanci di entusiasmo di fronte ai doni dell’amicizia, alle bellezze del creato, alla percezione sempre più intensa della vicinanza di Dio”. A partire dal 1963, sorda, paralizzata e cieca, Benedetta potè comunicare con gli altri solo attraverso un filo di voce e le dita della mano destra, che gli venivano premute sul corpo e sul volto secondo un alfabeto muto convenzionale. E le sue comunicazioni erano spesso messaggi di conforto e di speranza dirette a coloro di cui veniva a conoscere dolore, sofferenza, disperazione. La mattina del 23 gennaio 1964, Benedetta chiese alla madre che le leggesse l’ultima pagina della Storia di un’Anima di Teresa di Lisieux. E lei gliela lesse “attraverso le dita”. Più tardi, stringendo la mano alla madre e all’infermiera, disse: “Grazie”. E si spense.

Del gesuita Pierre Lyonnet, nato in Francia nel 1906, sappiamo solo poche cose. Ma ci bastano. Gravemente malato fin dagli anni del suo noviziato, fu ordinato prete nel 1937. Chi lo conobbe ricorda che “egli frequentava quasi sempre soltanto povera gente, coloro che non avevano nulla o che non si stupivano di nulla. Erano i poveri i suoi veri amici. Erano sempre sulla sua bocca. Così, quando egli si accingeva a predicare, tutti sapevano che avrebbe parlato dei Poveri. La terribile notte che precedette la sua morte, agitato ed immerso in un bagno di sudore, pur privo di forze, ad un certo punto si voltò bruscamente verso coloro che lo assistevano dicendo: “Su, facciamo cinque minuti di ricreazione… parliamo un po’ dei Poveri”. Era solo questo che poteva farlo riposare: parlare dei poveri, essere in mezzo ai poveri, fra tutti coloro che si trovavano nel bisogno: o perchè privi di cibo o di riscaldamento, o perchè ammalati, o perchè abbandonati da tutti, o perchè disperati. Era spietato, invece, con la durezza di cuore e con tutto quanto dimostrava ostinazione, indifferenza, sclerosi, impermeabilità. Allora le sue collere erano terribili. Aveva una spaventosa avversione al denaro, per esso concepiva una specie di odio: egli capiva che il denaro è il grande ostacolo dell’Amore, il grande artefice dell’insensibilità, dell’indurimento dei cuori”. Alternò a lunghi soggiorni in clinica il suo servizio presso lo studentato di Fourvière e nel 1939 presso il collegio di Saint Etienne, a Lione, dove morì il 23 gennaio 1949. Sul letto di morte confesserà di “non aver vissuto, in dieci anni, un ora sola senza sentire atroci dolori”. Conserviamo di lui testi di intensa spiritualità. Come questo, davanti al Crocifisso: “Ora, Signore, non prego più: ti invito ad ammirarmi. No, mio Dio, non vi sono ricchezze in me che tu non ve le abbia poste, nessuna virtù che non sia dalla tua grazia. Custodiscimi umile e forse allora saprò pregare anche nel momento della grande tentazione che è la sofferenza”.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Lettera agli Ebrei, cap.7, 1-3. 15-17; Salmo 110; Vangelo di Marco, cap. 3, 1-6.

La preghiera del mercoledì è in comunione con quanti ricercano la Verità del mondo e l’Assoluto della loro vita, lungo i sentieri dell’impegno per la pace, la giustizia e la fraternità tra popoli e individui.

“Ci sono molti giovani, credenti o non credenti, che al termine di un periodo di studi mostrano il desiderio di aiutare gli altri, di fare qualcosa per quelli che soffrono. Questa è la forza dei giovani, la forza di tutti voi, quella che può cambiare il mondo; questa è la rivoluzione che può sconfiggere i “poteri forti” di questa terra: la “rivoluzione” del servizio. Mettersi al servizio del prossimo non significa soltanto essere pronti all’azione; bisogna anche mettersi in dialogo con Dio, in atteggiamento di ascolto, come ha fatto Maria. Lei ha ascoltato quello che le diceva l’angelo e poi ha risposto. Da questo rapporto con Dio nel silenzio del cuore, scopriamo la nostra identità e la vocazione a cui il Signore ci chiama, che si può esprimere in diverse forme: nel matrimonio, nella vita consacrata, nel sacerdozio… Tutti questi sono modi per seguire Gesù. L’importante è scoprire che cosa il Signore si aspetta da noi e avere il coraggio di dire “sì”.” È un brano del messaggio inviato da Papa Francesco ai giovani in preparazione della XXXIV Giornata mondiale della Gioventù, che si è aperta ieri a Panama, dove il papa è giunto nel tardo pomeriggio. Siamo certi che essa rappresenterà per tutti un tempo forte della Grazia e dell’esperienza dello Spirito nel cammino di conversione e di testimonianza alla Buona Notizia del Regno. Noi accompagneremo tutti da lontano con la nostra preghiera.

Ed è tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, lasciandovi ad una citazione di Pierre Lyonnet, tratta dai suoi “Scritti spirituali” (Borla), che troviamo in rete e che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
O Cristo tu non sei una verità fra le altre verità. Tu sei la Verità, e tutto ciò che è vero a questo mondo sei tu. Tu non sei un amore fra gli altri amori. Tu sei l’Amore in cui si purificano, si santificano, si uniscono non diminuiti, ma anzi completati tutti gli amori autentici. Tu non sei un mezzo fra gli altri mezzi, un mezzo da usare accanto ad altri mezzi, del quale si può mettere in dubbio l’efficacia… ma sei l’unica strada, e nello stesso tempo il vero termine, sei la vita… Ah, Signore! Che cosa potrei fare senza di te, poiché tu hai preso tutto in me, poiché sei quanto esiste di più intimo in me, poiché sei la mia grandezza, la mia vita, il mio tutto? O Cristo, ti riconosco come mio solo Signore per sempre. Guai a me se dovessi offrire il mio cuore e il mio spirito a un altro maestro! Perché non ci sono altri maestri per l’uomo e altri amori fuori dell’Amore. Ecco tutte le mie risorse, tutti i miei talenti che io posso far valere… Non voglio nasconderti nulla, sottrarti nulla, rubarti nulla… Ti abbandono tutto… Questo impegno fra me e te è un impegno di persona a persona, di amore ad amore, la cui unica clausola consiste nel non parlare mai di limiti al dono. Fra noi, tutto è per la vita e per la morte. (P. Lyonnet, Scritti spirituali).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 23 Gennaio 2019ultima modifica: 2019-01-23T22:51:32+01:00da fraternidade
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