Giorno per giorno – 10 Luglio 2018

Carissimi,
“Usciti costoro, gli presentarono un muto indemoniato. Scacciato il demonio, quel muto cominciò a parlare e la folla presa da stupore diceva: Non si è mai vista una cosa simile in Israele! Ma i farisei dicevano: Egli scaccia i demòni per opera del principe dei demòni” (Mt 9, 32-34). Muti come quell’uomo lo si può essere tutti, quand’anche parlassimo tutte le parole di questo mondo, se l’Avversario, lo spirito del Sistema, ci impedisce di proclamare la Parola di Gesù che, facendo ciò che dice, rende ogni volta attuale, nel dono di sé, il dono della vita e il principio della cura e della liberazione dal male. Il vangelo di oggi, riferendo poi della compassione che Gesù prova per le folle “stanche e sfinite, come pecore senza pastore” (v.36) e dell’invito a pregare “il padrone della messe che mandi operai nella sua messe” (v.38) è preludio del secondo dei cinque discorsi in cui Matteo organizza gli insegnamenti di Gesù: il discorso missionario, che occuperà tutto il decimo capitolo. Esso raccoglie le istruzioni rivolte ai discepoli di ogni tempo, compreso perciò il nostro, inviati, una volta guariti dallo loro cecità e mutezza, a un mondo che, ora come allora, non conosce compassione per le folle stanche e sfinite.

Oggi le chiese copta, ortodossa e cattolica fanno memoria di Cirillo d’Alessandria, pastore e padre della Chiesa. Il martirologio latinoamericano ricorda P. Faustino Villanueva, martire della solidarietà in Guatemala. Noi ricordiamo anche i 51 Martiri ebrei di Berlino, vittime del fanatismo religioso nel 1519.

Cirillo nacque nel 370, nei pressi di Alessandria d’Egitto, ma della sua vita conosciamo in pratica solo gli eventi che seguirono la sua nomina a papa di Alessandria, nel 412, quando succedette nella carica a suo zio, il patriarca Teofilo, uomo violento e intollerante nei confronti di pagani, ebrei e cristiani che non la pensassero come lui, responsabile tra l’altro, nel 403, della fraudolenta deposizione da patriarca di Costantinopoli di S. Giovanni Crisostomo. A titolo di curiosità, furono i patriarchi della Chiesa alessandrina i primi in ordine di tempo a fregiarsi del titolo di papa (papas, padre), ai tempi di Eracla, 13º patriarca (232-248) sulla cattedra che fu, secondo la tradizione, di san Marco. Cirillo, teologo colto e penetrante, non fu, come del resto lo zio, alla cui scuola era cresciuto, quel che si dice uomo di dialogo. Se anche non vi intervenne personalmente, delegò tuttavia ai suoi armigeri e sostenitori l’organizzazione di provocazioni e tumulti che sfociarono nella cacciata degli ebrei da Alessandria, nell’espulsione dei Novaziani dalle loro chiese, nonché, nel marzo del 415, nella folle uccisione della filosofa e scienziata pagana Ipazia. Dal punto di vista teologico, Cirillo si dedicò soprattutto ad elaborare una cristologia e una pneumatologia con base nell’Evangelo e nella tradizione. Si scontrò per questo con Nestorio, patriarca di Costantinopoli, sul cui insegnamento teologico ebbe la meglio, nel Concilio di Efeso (431), che vide l’affermarsi della sua teologia dell’Incarnazione: “L’Emmanuele consta con certezza di due nature: di quella divina e di quella umana. Tuttavia il Signore Gesù è uno, unico vero figlio naturale di Dio, insieme Dio e uomo; non un uomo deificato, simile a quelli che per grazia sono resi partecipi della divina natura, ma Dio vero che per la nostra salvezza apparve nella forma umana”. Sembra che, negli ultimi anni di vita, condotto a più miti consigli dalla pluriennale esperienza pastorale, si sia dedicato a ricercare un cammino che aiutasse a superare i contrasti insanabili tra le chiese, creati dalla radicalizzazione del dibattito teologico. Morì nel 444. La chiesa copta lo ricorda il 27 giugno del calendario giuliano, che corrisponde al nostro 10 luglio.

Faustino Villanueva era un missionario spagnolo della Congregazione del Sacro Cuore, giunto in Guatemala, ventottenne, nel 1959, e destinato alla parrocchia di Joyabaj, nel Quiché. Lì, come nelle altre località in cui fu inviato negli anni seguenti – Canillá, San Andrés Sajcabajá, San Bartolomé Jocotenango, San Juan Cotzal, Sacapualas – la sua attitudine pastorale fu sempre la stessa: conoscere la realtà e i problemi della gente, annunciare la Parola di Dio, celebrare l’Eucaristia e amministrare i sacramenti nei diversi villaggi e comunità, portare medicinali, animare e organizzare la catechesi, e, negli ultimi tempi, aiutare a costituire una piccola cooperativa di produzione che riuscisse a sottrarre la povera gente dalle mani degli usurai. Tutti lo conoscevano come grande organizzatore, uomo di dialogo, pacifico, equilibrato e serio, ma anche sempre teneramente vicino alla sua gente. In nulla, pericoloso e, tanto meno, sovversivo. Eppure, nel Guatemala di quegli anni, chiunque scegliesse di vivere a servizio delle comunità indigene, sapeva già di essere nel mirino degli squadroni della morte. Il 10 luglio 1980, a tarda sera, due giovani bussarono alla sua porta chiedendo di parlargli. Il prete li fece accomodare nell’ufficio parrocchiale. Il tempo di entrare e lo crivellarono di colpi. Morì a causa della sua dedizione agli indigeni del Quiché, i più emarginati nella società guatemalteca.

Nel 1519, un folto gruppo di Ebrei di Berlino fu accusato del furto sacrilego della pisside e delle ostie consacrate perpetrato in una chiesa di Knoblauch, un paese del circondario. Centoundici ebrei furono arrestati e processati sommariamente. Di essi, cinquantuno furono condannati a morte e trentotto mandati al rogo nella piazza del mercato. Era il 10 luglio 1519. Venti anni dopo, la Dieta di Francoforte li avrebbe riconosciuti tutti innocenti. Vittime dell’odio per la loro fede di cristiani fanatici.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Osea, cap.8, 4-7.11-13; Salmo 114b; Vangelo di Matteo, cap.9, 32-38.

La preghiera del martedì è in comunione con le religioni tradizionali africane.

Noi si è saputo solo stasera della scomparsa, avvenuta lo scorso 2 luglio, a Torino, di Carlo Carlevaris, uno dei primi pretioperai italiani. Nato il 16 aprile 1926 a Cardè, fu ordinato prete nel 1950. Fu in seguito cappellano degli stabilimenti Fiat dal 1952 al 1962, quando venne licenziato perché giudicato non funzionale alla politica dell’azienda. Maturò così la sua scelta di impegnarsi in fabbrica come operaio e militante sindacale, dal 1967 al 1986. Venne assunto prima alla Lamet, azienda della cintura torinese, poi in Fiat, alla Grandi Motori, alla Lancia e alla Michelin. La nomina di Michele Pellegrino ad arcivescovo di Torino, con la centralità che il tema del mondo del lavoro venne ad occupare nella pastorale diocesana, ne fece uno dei principali collaboratori del nuovo arcivescovo e uno degli ispiratori della lettera pastorale “Camminiamo insieme”, che il cardinale pubblicò l’8 dicembre 1971.

Nel congedarci, scegliamo di offrirvi in lettura una citazione tratta dall’intevento tenuto da don Carlo Carlevaris all’Incontro internazionale dei Pretioperai, a Lione, nella Pentecoste del 1987. Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
L’offensiva liberale premia scelte che la visione evangelica non può consentire. La dimensione collettiva di una solidarietà attenta ai più vulnerabili, che è il substrato della cultura e della pratica delle lotte operaie, ci sembra più vicina all’evangelo e alla nozione di popolo di Dio e condannano l’individualismo, la priorità al denaro, i privilegi ai più forti. La carità che si rivolge ai più poveri non può sostituire la solidarietà fraterna che lotta per una reale giustizia distributiva che evita la creazione di masse di poveri. Il rapporto spirituale con Dio non può sostituirsi al contatto con Lui vissuto attraverso il servizio degli uomini e alla costruzione dell’umanità, nutrito dall’apporto storico della vita della gente. […] Restare con la gente in fabbrica o fuori e il nostro modo di vivere, di essere militanti a tempi lunghi, pone la questione della fede ai nostri compagni. Si rendono conto che non è un lusso o una insignificanza, ma un elemento portante della nostra vita. Si stabilisce così un buon rapporto con coloro che vivono al di fuori di qualsiasi referenza alla fede: noi e loro scopriamo ciò che c’è di positivo nelle nostre vite. Cercare con loro attraverso le realtà quotidiane il superamento dei nostri egoismi e intolleranze, nell’apertura e amore dell’altro, le strade che portano al Padre e che sono loro specifiche, diventa espressione del nostro ministero, anche se essi non passeranno mai attraverso una Chiesa. Infatti la Chiesa, serva e povera, deve essere segno per tutti gli uomini. In tutti i paesi il problema dell’emarginazione attraversa anche i preti operai. Il domandarsi se la nostra scelta è quella della classe operaia o dei poveri torna di attualità con una forte presenza di garantiti (non più poveri) tra i lavoratori e un aumento di non garantiti (disoccupati, in difficoltà…). Per semplificare si potrebbe dire che ci sono due modi di porsi di fronte ai poveri: se sono visti come individui marginalizzati di cui si condivide la povertà anche aiutandoli a uscirne, o se sono visti come forza storica, un popolo con il quale ci si batte per la sua liberazione. La presenza militante sembra essere ancora elemento essenziale della nostra scelta di vita. Sappiamo di aver scelto e di essere stati inviati non per essere dei militanti, ma è altrettanto vero che le esigenze della vita ci hanno fatto diventare militanti. La vita militante chiede testimonianza, non rassegnazione. (Carlo Carlevaris, Lione 1987 / L’incontro internazionale dei PO).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 10 Luglio 2018ultima modifica: 2018-07-10T22:36:51+02:00da fraternidade
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