Giorno per giorno – 09 Luglio 2018

Carissimi,
“Ed ecco una donna, che soffriva d’emorragia da dodici anni, gli si accostò alle spalle e toccò il lembo del suo mantello. Pensava infatti: Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita. Gesù, voltatosi, la vide e disse: Coraggio, figliola, la tua fede ti ha guarita. E in quell’istante la donna guarì” (Mt 9, 20-22). Stamattina, commentando questo vangelo, ci si è messi per un momento nei panni, ingombranti, data la situazione, di quanti, a nuoto, di questi tempi, tentano di raggiungere una delle vostre rive (o, a piedi, una delle nostre frontiere), e abbiamo cercato di immaginare i loro pensieri, che devono essere simili a quelli della donna di cui avevamo appena udito il racconto: se anche solo toccherò quel lembo di terra all’orizzonte, sarò salvo. “Salvo” dice, infatti, il testo originale, che usa il verbo “sozein”, lo stesso che dà origine alla parola salvatore. E, qualche volta, ma sempre meno, funziona. Vorrà dire che quella terra sarà stata in questo caso come il mantello di Gesù. Il vangelo ci portava anche il racconto della risurrezione della figlia del capo religioso, morta prima di raggiungere la maturità, di cui però Gesù dice che dorme. Come potrebbe dirsi di una comunità, per la sua incapacità di assumere l’onere della testimonianza, che segna il passaggio a una fede adulta, il cui pastore sarebbe portato a darsi per vinto, se non fosse per la fede che la visita di Gesù, attraverso il suo tocco, possa destarla, liberandola dalla presa mortale di ogni egoismo, per riconsegnarla alla vita. Attraverso chi Gesù sarà in grado di toccarci, salvandoci dal Sistema mortifero in cui pare si sprofondi, un po’ ovunque, sempre più? La vicenda dei dodici ragazzini, da sedici giorni prigionieri, con il loro allenatore, in una grotta nella lontana Thailandia, e la lotta senza sosta per salvarli, che sembra commuovere il mondo intero, potrebbe essere figura di quel tocco miracoloso, capace di segnare per noi un nuovo inizio, dopo esserci lasciati alle spalle un salutare sentimento di vergogna per l’indifferenza di cui si possa essere stati capaci in situazioni, anche più drammatiche di quella, che si presentano ogni giorno, in ogni dove. Che l’immagine e il tocco dei crocifissi del nostro tempo possa convertirci e salvarci.

Oggi ricordiamo Angelus Silesius, mistico tedesco del XVII secolo; Augustus Tolton, primo prete afroamericano negli Usa, e Bruno Borghi, primo preteoperaio in Italia; André Chouraqui, uomo dei tre mondi.

Johannes Scheffler nacque a Cracovia nel dicembre del 1624, figlio di Stenzel e di Maria Magdalena Henneman, entrambi luterani. Nel 1637 rimase orfano di padre e due anni più tardi gli morì la madre. Compiuti gli studi ginnasiali a Breslavia, nel 1643 si trasferì a Strasburgo e poi a Padova, per studiarvi diritto e medicina. È in questo periodo che prese a leggere autori mistici come Taulero e Meister Eckhart, che ne influenzarono la spiritualità. Nel 1649 ottenne l’incarico di medico di corte del duca Sylvius Nimrod von Württemberg in una cittadina nei pressi di Breslavia. Ma vi rimase solo tre anni a causa di un conflitto con il cappellano luterano di corte. Il 12 giugno 1653, Johannes aderì alla fede cattolica e assunse il nome di Angelus Silesius. Poco dopo fu nominato medico di corte dell’imperatore Ferdinando III e nel 1657 pubblicò gli scritti che aveva composto nel frattempo. Al fine di spogliarsi progressivamente dei propri beni, costituì fondazioni in favore di monasteri e di poveri. In quello stesso anno, venne ordinato sacerdote. Nel 1671 ottenne ospitalità in un monastero cistercense, dove trovò modo di sottrarsi agli attacchi che, dai tempi della sua conversione, gli venivano dagli ex-correligionari. Visse gli ultimi anni in assoluta povertà, dedito alla preghiera e alla contemplazione, morendo il 9 luglio 1677.

Augustus Tolton nacque, secondo di quattro figli, nella famiglia di una coppia di schiavi cattolici, Peter Paul e Martha Jane Tolton, a Ralls County, nel Missouri, il 1° Aprile 1854. Allo scoppio della Guerra Civile, nel 1861, il padre fuggì dalla proprietà e si arruolò nell’esercito dell’Unione al fine di lottare per la libertà della sua famiglia e per la fine dello schiavismo. Fu uno dei 180 mila negri che morirono durante la guerra. Martha Tolton a sua volta fuggì con i figli verso la libertà, attraversando il fiume Mississippi e stabilendosi a Quincy, nell’Illinois. Crescendo, il giovane Augustus manifestò il desiderio di essere prete, ma non si trovava un seminario disposto ad accoglierlo. Senza disanimare, egli studiò dapprima col suo parroco, poi, nel 1878, fu ammesso nella scuola gestita dai francescani a Quincy, dove rimase due anni, finché ottenne di potersi recare a Roma nel Collegio Urbano, il seminario della Congregazione di Propaganda Fide. Ordinato prete nel 1886, divenne il primo prete afroamericano negli Stati Uniti. Tornato nella sua diocesi, gli fu affidata una parrocchia di negri, ma il suo carattere, la sua preoccupazione per le reali necessità della sua gente, e le sue predicazioni lo resero presto popolare anche tra molti bianchi di origine tedesca e irlandese, che presero a frequentare la sua chiesa. Suscitando, neanche a dirlo, il risentimento e la gelosia degli altri parroci della zona. I quali nel giro di poco tempo riuscirono ad ottenere il trasferimento del “prete negro” a Chicago, dove divenne il primo pastore negro della città, profondendosi senza risparmio per la causa della sua gente e per la causa del Regno di Dio. Troppo, forse, per durare a lungo. Morì d’infarto, la notte del 9 luglio 1897, tornando da un ritiro. Aveva quarantatre anni.

Di Bruno Borghi abbiamo a disposizione solo pochi elementi biografici. Ne ricaviamo alcuni da un ricordo a lui dedicato a suo tempo da Adista. Cristiano e prete scomodo, fece parte, con La Pira, Balducci, Turoldo, Facibeni, Vannucci, Milani e altri, di una generazione che seppe animare e provocare salutarmente il panorama ecclesiale e politico italiano, a partire dagli anni cinquanta. Nato nel 1922, entrò nel seminario di Firenze dove fu compagno di studi di don Lorenzo Milani, con cui instaurò una duratura amicizia. Nel 1950, scelse di lavorare in fabbrica, desiderando “immedesimarsi totalmente nella condizione della classe operaia, in cui vedeva la presenza di valori e istanze capaci di rivitalizzare una realtà sociale ed ecclesiale in cui cominciavano, dalla base, a nascere i primi fermenti del rinnovamento”. Nell’ottobre 1964 fu autore, insieme a don Milani, di una “Lettera ai sacerdoti della diocesi fiorentina”, in cui denunciava l’autoritarismo del vescovo Ermenegildo Florit. Nel 1965, sempre con don Milani, intraprese una battaglia in difesa dell’obiezione di coscienza al servizio militare, allora fuori legge. Nel 1968, scese in campo per esprimere la sua solidarietà concreta a don Enzo Mazzi, che l’arcivescovo aveva allontanato dalla comunità dell’Isolotto. In seguito Borghi abbandonò il sacerdozio. Conobbe e sposò Agnese, da cui ebbe un figlio, Giovanni. Negli anni successivi, non venne mai meno il suo impegno nella società civile, a difesa dei settori più emarginati. Si impegnò tra l’altro come volontario, a fianco dei carcerati, nel carcere fiorentino di Sollicciano. È morto il 9 luglio 2006, nella sua abitazione di Torri (Firenze).

Nathan André Chouraqui era nato l’11 agosto 1917 (per il calendario ebraico il 23 del mese di Av dell’anno 5677), a Ain-Témouchent in Algeria, nono dei dieci figli di Isaac Chouraqui e Meléha Meyer, entrambi ebrei sefarditi. Colpito da poliomelite a sette anni, dopo gli studi nel Liceo francese di Orano, si trasferìi a Parigi per studiarvi Diritto. Nel 1938 conobbe Colette Boyer, una musicista ammalata di tubercolosi, che sposò nel 1940 ad Ain-Témouchent nel villaggio natale, con una cerimonia ebraica, cui seguì, poco dopo, la conversione di lei all’ebraismo. Durante la seconda guerra mondiale, Chouraqui fu attivo nella Resistenza francese. Poi lavorò per qualche tempo come magistrato in Algeria. Nel 1948, Colette scelse, con il consenso ma anche con il comprensibile strazio del marito, di far ritorno alla Chiesa, restando tuttavia fedele al Credo di Israele. Entrò tra le Piccole sorelle di Gesù, dove sarebbe vissuta fino al 18 ottobre 1981, quando spirò tra le braccia di lui, accorso al suo capezzale per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute. Intanto, nel 1951, Chouraqui aveva scelto di emigrare in Eretz Israel, stabilendosi a Gerusalemme, dove nel 1958, sposò Annette Lévy, che gli darà cinque figli. Da allora, dedicò tutta la sua vita a cercare le vie di un dialogo fruttuoso tra ebrei, cristiani e musulmani, i tre mondi in cui affondavano le radici della sua biografia. Traduttore e commentatore in francese della Bibbia ebraica, del Nuovo Testamento e del Corano, sapeva scorgere in essi la trama nascosta di un unico disegno divino che mira alla nascita di un uomo nuovo, libero dai condizionamenti e dalle schiavitu di sempre. Fu promotore di associazioni per il dialogo interreligioso e ambasciatore instancabile di un pensiero di pace nel mondo. Nel 1999 fu insignito del Premio Internazionale per il Dialogo fra gli Universi Culturali. André Chouraqui è morto a Gerusalemme il 9 luglio 2007.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Osea, cap.2, 16. 17b-18. 21-22; Salmo 145; Vangelo di Matteo, cap.9, 18-26.

La preghiera di questo lunedì è in comunione con i fedeli del Sangha buddhista.

Bene, se avete retto fino a qui, reggete ancora un po’ e leggete questo brano di André Chouraqui, tratto dal suo “I dieci comandamenti” (Mondadori). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Il futuro si costruisce innanzitutto sulla base delle scelte di ognuno di noi. Oggi più che mai l’uomo vive al crocevia fra la vita e la morte, la benedizione e la maledizione, l’amore e l’odio. Dalla vetta del Sinai, Mosheh si unisce a Gesù, a Muhammad e ai messaggeri di altre religioni, di tutte le epoche e di tutti i continenti, per invitarci a scegliere l’amore, al semplice scopo di vivere. Per designare l’amore la lingua greca disponeva di tre termini – eros, philia, e agapé – tutti derivati da un’unica radice ebraica che indica l’amore universale: ahavah. La definizione di amore che dà, in arabo, Bachya ibn Paquda ne “I doveri del cuore” – la più bella guida alla vita interiore che abbia mai letto, un libro che ho avuto la fortuna di tradurre durante la guerra – mi aveva fornito la vera risposta alle ferite di cui soffriamo: “L’amore di Dio è uno slancio dell’anima che nella sua essenza si protende verso Dio per unirsi alla sua altissima luce”. Amo questa definizione che mi ha accompagnato per tutta la vita. In quattro parole chiave – “slancio”, “distacco”, “unione” e “luce” – essa rivela l’amore universale. Lo slancio, senza il quale l’amore non esiste né sopravvive: quello del mistico per l’Essere creatore, dell’uomo per la donna e viceversa, dei genitori per i figli; ma anche lo slancio dell’animale per la sua progenie, o dell’albero che prepara i propri fiori e i propri frutti nel corso di anni. Lo slancio è necessario ma non sufficiente. Senza slancio l’uomo o la donna si condannano all’aridità, così mirabilmente descritta da tutti i mistici. Tuttavia ciò non può durare se non si accompagna al distacco. L’aereo più potente non riesce a decollare se non è libero da ogni vincolo. Lo stesso vale per l’amore: se l’amante è vincolato, anche da un solo filo, l’amore muore di morte naturale. Questa constatazione, ispirata a Giovanni della Croce, è universale. L’amore ha un unico vero nemico: l’egoismo, che spezza lo slancio perché rinnega l’Essere creatore e liberatore. È nel cuore di questo Essere, fonte di ogni vita e di ogni amore, che noi tutti ci riuniamo in unione con Lui, nella sua altissima luce. (André Chouraqui, I dieci comandamenti).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 09 Luglio 2018ultima modifica: 2018-07-09T22:49:12+02:00da fraternidade
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