Giorno per giorno – 18 Giugno 2018

Carissimi,
“Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due. Da’ a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle” (Mt 5, 38-42). Prima di essere un invito rivolto a noi, questo è il ritratto di Dio, per come si è rivelato in Gesù Cristo. E quindi dovremmo stare attenti a predicare un’immagine di Dio, che non riflette neanche la legge del taglione veterotestamentaria, l’ “occhio per occhio, dente per dente”, ma ricorda semmai (come spesso succede di essere noi) il biblico Lamech, che minacciava stragi per una scalfittura ricevuta (cf Gen 4, 23-24). Sicché ci troviamo davanti un dio che scatena terremoti per una bestemmia, o manda a fuoco una discoteca perché i giovani si concedevano a intimità eccessive (se però a prendere fuoco è una chiesa, il fatto è più difficile da giustificare), insomma ogni disgrazia, proprio come per gli antichi, risulta essere il castigo per una qualche colpa. E invece Dio non c’entra. Perché, per lui per primo, vale il principio del “non opporti al malvagio”, o, come scriverà Paolo, “Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male” (Rm 2,21). È solo così che noi si comincia ad assomigliare un po’ al Padre. Se no, siamo solo una presa in giro. Di lui e di noi.

Il nostro calendario ecumenico ci porta oggi le memorie di Bernardo Mizeki, martire nel Mashonaland; di P. Giovanni Vannucci, maestro spirituale del nostro tempo; di Maria Teresa Porcile Santiso, teologa al femminile.

Nato nel 1861 nella regione dell’attuale Mozambico, Bernardo Mizeki si trasferì, a dodici anni, a Città del Capo (Africa del Sud), dove per dieci anni lavorò come operaio, abitando in una baraccopoli. Divenuto cristiano, quando completò gli studi, fu inviato a lavorare come agente di pastorale laico nel Mashonaland, nell’attuale Zimbabwe. Ogni giorno, pregava l’Ufficio Divino, coltivava il suo orticello, per trarne i mezzi di sussistenza, studiava la lingua locale e creava relazioni d’amicizia con la gente del villaggio. Attento alle caratteristiche della religione dei Shona, seppe inculturare l’annuncio cristiano nella fede monoteistica nel Dio unico, Mwari, e nella sensibilità alla vita dello spirito. Minacciato più volte e poi rapito da un gruppo di estremisti, fu ucciso per la sua fedeltà a Cristo, il 18 giugno 1896. Il luogo della sua morte divenne centro di grande devozione per gli anglicani e altri cristiani.

Nato a Pistoia il 26 dicembre 1913, Giovanni Vannucci fece la sua professione religiosa nell’ordine dei Servi di santa Maria. Nei primi mesi del 1951, con alcuni confratelli si associò per qualche mese alla nascente e allora contestata comunità cristiana creata a Nomadelfia (Grosseto) da don Zeno Saltini. Aveva affermato in quei mesi: “C’è troppa separazione tra monaci e popolo, non ci sono ponti di comunicazione, siamo nettamente separati, non c’è comunione. Noi portiamo l’eredità di un inquinamento del quale dobbiamo cercare generosamente, con una decisione coraggiosa e ferma, di liberarci […] perché possiamo tradire il Vangelo anche non ascoltando la voce della storia”. I provvedimenti disciplinari che, nel clima dell’epoca, seguirono, trovarono il frate consenziente e docile, convinto che una tale prova rappresentasse la necessaria potatura operata da Dio in vista di un suo cambiamento radicale. Restò per un anno nel convento di Sansepolcro, interessandosi vivamente ai problemi dei più poveri ed emarginati e, successivamente a Firenze, dove, negli anni che seguirono, fu l’animatore di iniziative culturali e caritative, che suscitarono un forte risveglio religioso della città. Nel 1967, potè finalmente dar vita a un suo antico sogno: quello di avviare una comunità dedita alla preghiera, al lavoro e all’accoglienza, nella povertà e nell’allegria, dove a tutti “fosse concesso di portare a maturazione i propri doni e servire l’uomo con essi”. Fu ciò che egli fece fino alla morte, avvenuta il 18 giugno 1984, nell’Eremo di san Pietro a Le Stinche, nel Chianti.

Di Maria Teresa Porcile Santiso, teologa cattolica, nata in Uruguay nel 1943, non disponiamo di dettagli biografici. La ricordiamo con un profilo, probabilmente da lei stessa ispirato, per la presentazione di un’opera collettanea, che suona così: “Come Teresa di Lisieux, la sua patrona, vuole imparare l’ebraico per leggere la Bibbia. Studia all’Istituto di cultura ebraica di Montevideo, dove incontra altri cristiani e vive l’apprendistato della tradizione religiosa in un ambito giudeo-cristiano. Molto importante è stato, per lei, un soggiorno in kibbutz in Israele. Attratta dalla vita contemplativa, ha fatto per sei anni un’esperienza di formazione in questo senso. Ma ha deciso di vivere la sua vocazione al di fuori di ogni ordine religioso, consacrandola allo studio e al dialogo. Studi di pedagogia e di filosofia all’Università cattolica di Montevideo. Prosegue la sua formazione ecumenica all’Istituto del Consiglio ecumenico di Ginevra, dove insegna per diversi anni. Dottorato di teologia a Friburgo. Viaggia molto per congressi, sessioni, ritiri. Definisce la sua teologia come “teologia nomade in cerca d’identità”. Alcuni mesi all’anno, insegna la Bibbia e l’ecumenismo all’Istituto di formazione dei preti di Montevideo”. Muore, aggiungiamo noi, il 18 giugno 2001. Aruna Gnanadason, incaricata del Programma Donna al Consiglio Mondiale delle Chiese, ricordandone la figura, ha detto: “Lei stessa era un’espressione della sua teologia: profondamente spirituale, era totalmente coinvolta nelle lotte dei poveri, delle donne e di tutti gli esclusi”.

I testi che la liturgia propone oggi alla nostra riflessione sono tratti da:
1° Libro dei Re, cap.21, 1-16; Salmo 5; Vangelo di Matteo, cap.5, 38-42.

La preghiera di questo lunedì è in comunione con le religioni del subcontinente indiano: Vishnuismo, Shivaismo, Shaktismo.

Dal 17 al 24 giugno la Chiesa in Brasile celebra la 33° Settimana del Migrante, con il tema “La vita è fatta di incontri”, e lo slogan: “A braccia aperte senza paura di accogliere”. L’attività si svolge tradizionalmente in questo mese, nei giorni che precedono la Giornata Mondiale del Rifugiato, che cade il 20 giugno. Giornate queste, un po’ ovunque, proprio nei confronti di rifugiati e migranti, sotto il segno di Caino. In Paesi che si dicono cristiani. Che Dio abbia pietà.

È tutto, per stasera. Noi ci congediamo, lasciandovi alla lettura di un brano di omelia di Giovanni Vannucci. Tratto dal libro “Nel cuore dell’essere” (Romena), è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
In noi ci sono numerose forze germinali, allo stato di seme, che devono crescere, devono svilupparsi. E quando avverrà l’incontro nostro con il Figlio dell’Uomo, con lo Sposo che viene, sarà un incontro che verrà determinato dalla fioritura di tutto nostro essere. Ma non aspirate voi a più bellezza? Le piccole bellezze che riusciamo a costruire ci lasciano insoddisfatti e vogliamo andare oltre, a una bellezza più piena, più completa, più perfetta, più totale, che ci soddisfi pienamente! Ma non aspirate voi a una vita sempre più viva, più intensa, più ardente, più forte? Ma non aspiriamo noi a una libertà sempre più piena? Non aspiriamo noi a un avvicinamento degli uomini con sempre più rispetto, più attenzione, più venerazione? Non aspiriamo noi a un amore sempre più sconfinato? Come ci stancano i piccoli amori! I piccoli amori egoistici! Chiusi in noi stessi, chiusi nel piccolo ambiente familiare che abbiamo costruito con tanta pazienza, chiusi anche nelle nostre piccole chiese. In noi c’è una pulsione che ci porta a un amore che abbracci tutto il creato, e tutti gli uomini, e tutte le creature. Vedete, in noi ci sono queste pulsioni, e lavorare cristianamente nel nostro essere, essere svegli, pronti, con le lampade accese, come ci dice Cristo, significa portare avanti queste energie che sono in noi. Quindi non dobbiamo aver paura. Un cristiano che ha paura della vita non è un cristiano. Un cristiano che ha paura della bellezza non è un cristiano. Un cristiano che ha paura della libertà non è un cristiano. Un cristiano che ha paura dell’amore e limita il suo amore non può essere un cristiano. Cristo ci dice: Io sono venuto a portarvi la vita perché abbiate una vita più abbondante. Mi direte: allora dobbiamo cambiare il mondo? Dobbiamo cambiare noi, noi stessi, perché ognuno di noi è chiamato a dischiudersi nell’ infinita pienezza di vita che è Dio. E il nostro incontro sarà un incontro di gioia, come l’albero quando fiorisce; quella gioia che proviamo quando riusciamo a rompere dei limiti nella nostra coscienza che ci impediscono di essere più liberi, più veri; quella gioia che proviamo quando il nostro cuore si dischiude a un amore più vasto e più sconfinato e cominciamo a guardare gli altri uomini senza fermarci alle etichette che hanno, o di partito, o di religione, o di razza, o di altre cose del genere, e vediamo, nell’altro, l’uomo…. Quando riusciamo a superare queste limitazioni che ci vengono dalla limitatezza della nostra natura, noi proviamo una gioia immensa. E queste aperture di coscienza sono l’incontro con lo Sposo, cioè con quella pienezza di vita che Cristo ci ha portato e che continuamente è pronto a darci. (Giovanni Vannucci, Nel cuore dell’essere).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle dela Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 18 Giugno 2018ultima modifica: 2018-06-18T22:03:22+02:00da fraternidade
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