Giorno per giorno – 12 Giugno 2018

Carissimi,
“Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini. Voi siete la luce del mondo. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli” (Mt 5, 13-14. 16). Gesù lo diceva ai discepoli di allora e di ogni tempo. Cosa significhi essere sale e luce, lo avrebbero appreso col tempo. Anche noi, con la sua grazia e un po’ di buona volontà. “Se il sale perde sapore”: già, ma qual è il sapore di questo sale che Gesù ci propone? È il suo stesso sapore, quello che faceva dire a Paolo: “Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso” (1Cor 2,2). E il sapere/sapore della croce non è, a prima vista, niente affatto gradevole, perché sa di debolezza, sconfitta, fallimento, salvo che si scopra il suo significato più vero, che è il dono di sé per la vita dell’altro (sempre amato, anche quando nemico), fino alle estreme conseguenze. Che, a partire da Gesù è ciò che sappiamo (e perciò il sapore) di Dio. “Voi siete la luce del mondo”. Gesù, nel vangelo di Giovanni, l’aveva detto di sé: “Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12). Aveva però anche aggiunto: “Chi segue me avrà la luce della vita”. Seguire Gesù nelle “opere buone” fa dunque anche di noi luce. Per sapere in cosa consistano poi queste opere, e la luce che da esse promana, una traccia ce l’offre il profeta Isaia: “dividere il pane con l’affamato, introdurre in casa i miseri, senza tetto, vestire uno che vedi nudo, senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne” (Is 58, 7). La quale ultima proposizione suona un po’ il contrario dello slogan che si diffonde sempre più ovunque e che consacra gli egoismi di parte: “Prima i nostri” (in Svizzera, nel Canton Ticino, ha dato addirittura il nome a una proposta di legge). La parola di Dio dice, invece: soccorri chi ha bisogno, senza dimenticare i tuoi. “Allora la tua luce sorgerà come l’aurora” (Is 58, 8). Già, solo così saremo luce. Diversamente saremo solo tenebra.

Il nostro calendario ecumenico porta oggi le memorie di Medgar Wiley Evers, martire della lotta nonviolenta degli afroamericani, e di Enmegahbowh, primo prete e missionario indiano d’America.

Medgar Wiley Evers era nato il 2 luglio 1925, a Decatur, nel Mississippi, figlio di James and Jessie. Aveva frequentato scuola fino a quando, diciottenne, era stato chiamato sotto le armi e spedito in guerra. Al ritorno dal fronte, si era iscritto alla Facoltà di economia e commercio dell’Università statale di Alcorn e, lì, oltre a studiare, come ogni bravo ragazzo, cantava nel coro, giocava a calcio, gareggiava in atletica leggera, redigeva il giornaletto dell’Università. Dopo la laurea, sposò Myrlie Beasley e insieme furono ad abitare a Mound Bayou, dove cominciò la sua lotta per i Dirittti Civili, organizzando il boicottaggio dei distributori di benzia che non permettevano l’uso delle toilette ai neri e creando sezioni locali del NAACP (Associazione nazionale per il progresso della popolazione di colore). Per mantenere la famiglia, lavorò qualche anno come agente assicurativo, fino al 1954, quando la Corte suprema dichiarò incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole. Chiese allora l’ammissione alla Facoltà di Legge del Mississippi, ma gli fu negata. Questo però richiamò su di lui l’interesse della direzione nazionale del NAACP, che gli propose una collaborazione a tempo pieno. Trasferitosi con la moglie a Jackson, cominciò a investigare gli episodi di violenza contro i neri e si impegnò per fare ammettere all’università James Meredith, che sarebbe diventato di lì a poco il primo afroamericano a varcare i cancelli di un’università del Mississippi. Tutto bene, ma crebbe l’odio nei confronti di Evers. Il quale, la notte del 12 giugno 1963, rientrando a casa, fu ucciso da un proiettile assassino. Il killer, un sostenitore della supremazia dei bianchi, tale Byron De La Beckwith, processato due volte negli anni sessanta, riuscì in entrambi i casi a farla franca. Solo nel 1994, sottoposto nuovamente a processo, sarebbe stato riconosciuto colpevole e condannato all’ergastolo. Medgar Evers, lui, aveva scritto, qualche anno prima di essere ucciso: “Può sembrare strano, ma io amo il Sud. Io non potrei scegliere di vivere altrove. Qui c’è terra, dove un uomo può allevare il suo bestiame, ed io comincerò a farlo un giorno o l’altro. Ci sono laghi dove puoi lanciare l’amo e pescare la tua trota. Qui c’è spazio dove i miei bambini possono giocare e crescere e diventare buoni cittadini. Sempre che l’uomo bianco glielo consenta”.

Enmegahbowh fu il primo nativo americano ad essere ordinato prete nella Chiesa Episcopale degli Stati Uniti. Era nato nel 1807 da una famiglia dell’etnia Odawa (o Ottawa, da cui traggono il nome alcune città degli Usa e la capitale del Canada), stanziata nelle regioni dell’Ontario, Oklahoma e Michigan. Il suo nome significa “Colui che prega [per il suo popolo] stando in piedi”. Sposato a una donna degli indiani Ojibwa, entrò a far parte di questa tribù. Fu nel 1851, quando era già più che quarantenne, che Enmegahbowh passò dal Midewiwin, la religione sciamanica dei suoi antenati, al cristianesimo, facendosi battezzare da James Lloyd Breck, un missionario venerato come santo dalla Chiesa episcopale. Divenuto diacono, fu mandato, nel 1858, a Crow Wing, nel Minnesota, per aiutare nella fondazione di una nuova missione, di cui assunse la responsabilità, nel 1861. Fu ordinato prete nel 1867. In anni assai difficili, segnati dalle continue prepotenze dei bianchi, e dal comprensibile desiderio di vendetta degli indiani, Enmegahbowh fece di tutto per tutelare i diritti della sua gente e salvaguardare la pace, affrontando ogni rischio e pericolo pur di affermare il messaggio di vita di Gesù. Morì nella riserva indiana della Terra Bianca, nel nord Minnesota, il 12 giugno 1902, all’età di 95 anni. Il calendario episcopale dei santi ne fa memoria in questo giorno.

I testi che la litugia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
1° Libro dei Re, cap.17, 7-16; Salmo 4; Vangelo di Matteo, cap.5, 13-16.

La preghiera del martedì è in comunione con le religioni tradizionali dell’Africa Nera.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, e, prendendo spunto dalla memoria di Medgar Evers, vi offriamo in lettura un brano di Martin Luther King, tratto da “Il sogno della non violenza” (Feltrinelli). Che è, così, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
In ultima analisi l’uomo bianco non può ignorare il problema negro, perché il bianco è parte del negro e il negro è parte del bianco. L’agonia del negro sminuisce l’uomo bianco, e la salvezza del negro innalza l’uomo bianco. Ciò di cui l’America bianca ha bisogno oggi è una forma di altruismo partecipe che riconosca questa verità. L’autentico altruismo supera la semplice capacità di provare pietà; è la capacità di provare empatia. Pietà significa sentirsi dispiaciuti per qualcuno; empatia significa sentirsi dispiaciuti assieme a qualcuno. Empatia è la comprensione per la persona che ha bisogno: per il suo dolore, la sua agonia, i suoi fardelli. Non credo che i problemi dei nostri brulicanti ghetti avranno una gran possibilità di essere risolti finché la maggioranza bianca non giungerà a sentire, attraverso una genuina capacità di identificazione, il dolore e l’angoscia che costituiscono la vita quotidiana dei negri. (Martin Luther King Jr, Il sogno della non violenza).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 12 Giugno 2018ultima modifica: 2018-06-12T22:03:13+02:00da fraternidade
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