Giorno per giorno – 16 Aprile 2018

Carissimi,
“In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo” (Gv 6, 26-27). Il pericolo di ogni religione, ma, forse, più in generale, di ogni relazione, è quello di instaurarla, o di inserirvisi e viverla, finalizzata al proprio appagamento e, perciò, oltre ogni apparenza, chiusa in se stessa, e non come apertura vera e costante sull’altro e sul suo bisogno, come è del dono originario. Se centrale è il nostro personale soddisfacimento, saremo portati a usare Dio e il prossimo come occasioni e strumenti per aumentarlo sempre più, sia in riferimento a beni materiali, che intellettuali, o presuntamente spirituali. Visti, in maniera un po’ blasfema, dal punto di vista del messaggio di Cristo, centrato sulla gratuità e universalità del dono, come segni della benedizione divina a fronte dei nostri meriti (in un orizzonte, perciò, meritocratico o di meretricio). Gesù, dal canto suo, ci invita a darci da fare per un “cibo che rimane per la vita eterna”, ad alimentarci, cioè, come si vedrà lungo tutto il discorso sul Pane della vita, del significato racchiuso nella sua storia, in cui prende carne, cioè concretezza, il piano di salvezza di Dio, che abbraccia tutti, ma proprio tutti. Sempre che non scegliamo, invece, di ridurci, quan’anche gente perbene, a una gang di rapinatori. Come è di chiunque non vive nella logica divina del dono e della condivisione.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Atti degli Apostoli, cap.6, 8-15; Salmo 119, 23-30; Vangelo di Giovanni, cap. 6, 22-29.

La preghiera di questo lunedì è in comunione con le grandi religioni dell’India, Vishnuismo, Shivaismo, Shaktismo.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Atti degli Apostoli, cap.6, 8-15; Salmo 119, 23-30; Vangelo di Giovanni, cap. 6, 22-29.

La preghiera di questo lunedì è in comunione con le grandi religioni dell’India, Vishnuismo, Shivaismo, Shaktismo.

Le memorie di oggi sono tutte, a diverso titolo, memorie di piccoli. Ricordiamo, infatti, Iqbal Masih, martire per i diritti dell’infanzia, Benedetto Giuseppe Labre, vagabondo di Dio, e Bernadette Soubirous, come un chicco di grano.

Iqbal Masih era nato nel 1983 a Muridke, in Pakistan, da una giovane e poverissima coppia cristiana, Bezak e Fredrem. All’eta di cinque anni venne ceduto dai genitori ad un certo Gullah, artigiano di tappeti, per far fronte a una situazione debitoria divenuta insostenibile. Fu l’inizio di una schiavitù, comune a milioni di altri bambini, che si vedono negato il diritto ad un’infanzia che lasci spazio alla serenità degli affetti familiari, dei giochi tra coetanei, degli studi che preparano un futuro migliore. Organizzato e controllato dalla cosiddetta “mafia dei tappeti”, il lavoro al telaio di questi bambini durava fino a dodici ore al giorno, con ritmi massacranti. Per Iqbal, tutto questo durò per sei anni, fino a quando, nel 1993, quasi materializzazione di un sogno impossibile, all’entrata della fabbrica apparve Ehsan Ullah Khan, un avvocato attivista del Fronte di liberazione dal lavoro forzato. Quell’incontro segnò per il piccolo Iqbal una nuova vita. Cominciò a studiare (“diventerò avvocato per difendere i bambini-schiavi”), e a viaggiare, per denunciare lo sfruttamento suo e di miriadi di suoi coetanei. Presto, in Pakistan, cominciò a sentirsi l’effetto di queste denunce: decine di fabbriche di tappeti, che sfruttavano il lavoro minorile, furono infatti costrette a chiudere i battenti. Ma, cominciarono a piovere anche le minacce di morte, sul piccolo e sulla sua famiglia. Iqbal fece sapere: “Non ho più paura del mio padrone; ora è lui ad avere paura di me”. E continuò imperturbabile. Poi la mattina di Pasqua, 16 aprile 1995, uscito di chiesa, il ragazzino fece ritorno a casa e, inforcata la bicicletta, prese a giocare spensierato con due cuginetti. Il suo assassino lo stava aspettando. Due colpi di fucile posero fine alle sue speranze e ai suoi sogni, ma non a quelle di milioni di altri bambini che, dalla sua vita e dalla sua morte, cominciarono a scorgere il profilarsi di una nuova aurora.

Benedetto Giuseppe Labre era nato ad Amettes, presso Arras, in Francia, il 26 marzo 1748, primo di 15 figli di una famiglia di piccoli agricoltori. Dopo gli studi presso la scuola del villaggio, chiese invano ai genitori il permesso di farsi trappista. Compiuti i diciotto anni, bussò alla porta della Certosa di S. Aldegonda, poi a quella dei cistercensi di Montagne, in Normandia, ma senza risultato. Riuscì a trattenersi qualche settimana nella certosa di Neuville e, per un periodo un po’ più lungo, nell’abbazia cistercense di Sept-Fons. Ma non faceva per lui. Sicché alla fine risolse che il suo monastero sarebbe stato la strada. E si recò a Roma. Una bisaccia in spalla, col Nuovo Testamento, l’Imitazione di Cristo e il breviario, un rosario e una croce era tutto ciò che questo vagabondo di Dio si portava appresso. Il suo pasto era sobrio: un pezzo di pane e qualche erba. Se riceveva dell’elemosina, subito la condivideva con gli altri poveri. Di notte si riparava sotto le fornici del Colosseo, di giorno pregava o leggeva le Scritture. Compì numerosi pellegrinaggi, ma tornava sempre a Roma. Lì, morì il 16 aprile 1783, nel retrobottega del macellaio Zaccarelli, che lo aveva raccolto per strada svenuto. Fu sepolto nella chiesa di S. Maria dei Monti

Bernadette Soubirous aveva solo quattordici anni, quando l’11 febbraio 1858, una fredda mattina di giovedì grasso, in cui era andata per legna, vide per la prima volta, alla grotta di Massabielle, quella che per molto tempo lei stessa chiamò semplicemente Quellacosa. La ragazzina, che era nata il 7 gennaio 1844, a Lourdes, nella famiglia del mugnaio François, sposato a Louise Casterot, era analfabeta e parlava solo dialetto e fu così che anche Quellacosa prese a parlarle in dialetto. Si sarebbe rifatta viva altre volte, in seguito e, dato che sembrava piacerle pregare, Bernadette si prestava volentieri a recitare con lei la corona. Per come andava il mondo, del resto, pareva non restasse che pregare. Poi vennero i giornali, le autorità, il vescovo, la pubblicità e i profittatori che spuntano sempre. Lei, la piccola non c’aveva mica il fisico, né, a dire il vero, neanche la voglia di tutto questo. Sicché il 7 luglio 1866, si presentò al convento di Saint-Gildard, delle Suore della Carità di Nevers, dicendo: “Vorrei solo nascondermi” e promettendosi: “Non vivrò un solo istante senza amare”. Che era poi quanto aveva appreso dalla sua Signora. Visse là 13 anni, senza che nessuno ne sapesse più niente, facendo la sacrestana, l’infermiera, e infine la malata. Di un male che non perdona. Della sua malattia dirà: “Sono macinata come un chicco di grano”. Morì trentacinquenne, il 16 aprile 1879, mercoledì di Pasqua, alle 3 del pomeriggio.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Atti degli Apostoli, cap.6, 8-15; Salmo 119, 23-30; Vangelo di Giovanni, cap. 6, 22-29.

La preghiera di questo lunedì è in comunione con le grandi religioni dell’India, Vishnuismo, Shivaismo, Shaktismo.

Prendendo spunto dal fatto che oggi è il novantunesimo compleanno del vescovo emerito di Roma, Benedetto XVI, scegliamo di congedarci con un suo testo di quando era ancora semplicemente Joseph Ratzinger. Tratta dal suo libro “Il nuovo popolo di Dio” (Queriniana), è, così, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
La chiesa non è una cerchia a se stante di salvati, intorno alla quale esisterebbero i condannati; essa esiste piuttosto, per sua essenza, per gli altri, una realtà concreta aperta agli altri. E siamo già qui in effetti nell’ambito del concetto della missione: essa è infatti anzitutto semplicemente l’inevitabile ed indispensabile espresssione di quel ‘per’, di quell’apertura, che determina profondamente la chiesa a partire da Cristo. Quale segno dell’amore divino, quell’essere gli uni per gli altri attraverso il quale la storia è stata salvata e ricondotta a Dio, la chiesa non dev’essere un circolo esoterico, ma è essa stessa essenzialmente uno spazio aperto. Ci si può richimare a questo punto ad un pensiero, formulato con particolare incisività dallo Pseudodionisio, un pensiero divenuto poi caro a tutta la Scolastica: bonum diffusivum sui, egli dice – l’amore si deve necessariamente riversare fuori di se stesso, oltre se stesso; il voler comunicare fa parte per necessità interna del bene come tale. Con questo si volle descrivere anzitutto l’apertura essenziale di Dio: Dio come la bontà in persona è al tempo stesso comunicazione, sovrabbondanza, superamento di sé, dono di sé. Ma la frase vale inoltre per tuttto quello che é buono in derivazione da lui, il Buono per eccellenza: anche la chiesa può solo raggiungere la sua pienezza nel diffondere, nel comunicare, nel riversarsi al di là di se stessa nella missione. La chiesa è una realtà dinamica: essa resta fedele al suo significato ed assolve il suo compito, solo se non conserva per sé il messaggio ad essa regalato, ma lo trasmette a sua volta all’umanità. Usando l’allegoria sinottica di potrebbe esprimere il tutto nella formula: la missione è l’espressione dell’ospitalità divina; è l’uscire dei messaggeri nel mondo a portare l’invito per il divino banchetto nuziale. Ritrasmettere continuamente questo invito, fa parte essenzialmente del servizio della chiesa in ordine alla salvezza; anche se sa che la misericordia di Dio è senza limiti, vale per essa la parola: “Guai a me se non annuncio l’evangelo” (1 Cor 9, 16). Il servizio per l’evangelo è per essa una necessità di quell’amore (2Cor 5,14), dal quale essa deriva e nel cui servizio sta la sua sola giustificazione. (Joseph Ratzinger, Il nuovo popolo di Dio).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 16 Aprile 2018ultima modifica: 2018-04-16T22:11:50+02:00da fraternidade
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