Giorno per giorno – 14 Aprile 2018

Carissimi,
“Venuta intanto la sera, i suoi discepoli scesero al mare e, saliti in una barca, si avviarono verso l’altra riva in direzione di Cafarnao. Era ormai buio, e Gesù non era ancora venuto da loro. Il mare era agitato, perché soffiava un forte vento” (Gv 6, 16-18). Sì, i discepoli siamo noi, ma anche gli altri, e la barca è la chiesa, la comunità, la famiglia, il nostro paese, l’umanità intera, e il mare è la vita, a volte calma e tranquilla, a volte in tempesta, e il buio è il buio, in tutti i sensi. E, infine, Gesù è Lui, che lo si chiami così o in altro modo, o non lo si nomini affatto: è una promessa che ci accompagna o ci dovrebbe accompagnare sempre, ma a volte sparisce dall’orizzonte; è il senso profondo dell’esistente, che così spesso si fa fatica a capire; è la certezza di uno sguardo amante, in mezzo a tanto disamore; è come segretamente si vorrebbe essere anche noi, avventura di libertà e di grazia. E molte altre cose ancora, che chi è abituato a racchiuderlo in una formula, a sequestrarlo, a pretendere di monopolizzarlo, non capirà mai. Perché lui è anche sempre l’infinitamente oltre. Che abbatte le barriere di chiesa e di religione e giunge dove noi non si immaginerebbe mai e se la ride delle nostre ortodossie, barriere, [reciproche] condanne e ostracismi, dato che Lui si è voluto sempre dall’altra parte, per stare in migliore e più allegra compagnia. Sino alla fine. Quando ci traghetterà, inatteso, all’altra riva, l’ultima. Come è successo oggi, dopo una dolorosa malattia, all’amico di una giovane amica, che ce lo ha comunicato con le parole di una canzone: “Trasformeremo la ruggine in oro. Ma dietro l’angolo c’è ancora il dolore che non dimentico. Io non mi dispero, perché è negli occhi tuoi che si intravede ciò che ha senso per davvero”. Si intravede, quand’anche innominato. E potrebbe essere un salmo per i nostri tempi.

Il nostro calendario ecumenico ci porta la memoria di Maria Egiziaca, eremita e penitente, e di Râmana Mahârshi, mistico indiano.

Su Maria Egiziaca, eremita e penitente del VI secolo, che trascorse gran parte della vita e fu sepolta nel deserto di Giuda, sorsero ben presto numerose leggende, di cui non riusceremo mai a sapere gli eventuali elementi di storicità. La più famosa di queste, attribuita a Sofronio, narra che Zosimo, ieromonaco di una laura palestinese, essendosi recato durante una Quaresima nel deserto, vi incontrò un’anziana donna, consunta dagli stenti e bruciata dal sole, a cui chiese di raccontargli la vita. Lei disse di essere egiziana. A dodici anni era fuggita di casa e si era recata ad Alessandria, dove per diciassette anni aveva vissuto in modo dissoluto. Incontrando un giorno un gruppo di pellegrini che si imbarcavano per Gerusalemme, decise di unirsi a loro, mossa dal desiderio di nuove avventure. Giunta nella città santa, avrebbe voluto entrare a visitare la basilica del Sepolcro, ma una forza misteriosa l’aveva trattenuta. Fu allora che maturò la sua conversione. E scelse il deserto. Giunta sulle rive del Giordano, fece visita al santuario di S. Giovanni Battista e scese nel fiume per purificarsi. Ricevuta la Comunione, si inoltrò nel deserto, dove, quando incontrò Zosimo, abitava da quarantasette anni. Terminato il racconto, chiese al monaco di tornare l’anno successivo, il Giovedì santo, per portarle l’eucaristia. Cosa che egli fece. Maria si comunicò e rinnovò l’appuntamento per l’anno successivo. Ma quando il monaco tornò, trovò solo il corpo della donna morta e una scritta: “Padre Zosimo, sotterra il corpo dell’umile Maria; restituisci alla terra ciò che è della terra, aggiungi polvere a polvere ed in nome di Dio prega per me; sono morta nel mese di pharmouti, secondo gli egiziani, che corrisponde all’aprile dei Romani, la notte della Passione del Salvatore, dopo aver partecipato al pasto mistico”. Era dunque morta un anno prima, la notte successiva al loro ultimo incontro. Zosimo, aiutato da un leone, scavò la fossa e la seppellì, tornando poi al suo monastero, dove raccontò la storia all’ egumeno Giovanni e agli altri monaci, per loro edificazione. I copti ne celebrano la memoria il 6 barmudah/miyazya, che coincide con il 14 aprile).

Râmana era nato il 30 dicembre 1879 a Tiruchuli, a circa trenta miglia di distanza da Madurai, nell’India meridionale, nella famiglia di Sundaram Aiyar e Alagammâl. Ricevette il nome di Venkateswaram. Successivamente, quando si iscrisse a scuola, il nome gli fu cambiato in Venkataraman e presero a chiamarlo Râmana. Alla morte del padre, fu affidato ad uno zio e andò a vivere a Madurai, dove frequentò la Scuola superiore della Missione americana. Negli studi non si rivelò particolarmente brillante, era però un giovane forte e sano. A diciassette anni, dopo aver “vissuto” a livello di coscienza l’esperienza della morte e il superamento di questa nel processo di assorbimento/identificazione con il Sé divino, lasciò ogni cosa e si recò sulla montagna sacra di Arunachala, a Tiruvannamalai, dove sarebbe rimasto per il resto della sua vita. Passò molti anni in silenzio e solitudine. Poi cominciò a diffondersi la sua fama, che richiamò presso di lui folle di visitatori e di curiosi. Nel 1907, uno dei suoi primi devoti lo chiamò Baghavan Râmana Mahârshi (il beato Râmana Grande Saggio) e il nome gli restò. Attorno a lui sorse un ashram, che via via si ingrandì. Râmana sedeva la maggior parte del tempo nella sala dell’ashram, come testimone di tutto quello che accadeva intorno a lui. Non permetteva mai che gli venisse mostrata qualsiasi preferenza e anch’egli trattava tutti con lo stesso rispetto e amore. Il suo insegnamento era quasi muto: bastava uno sguardo e il suo significato veniva compreso da tutti. Se gli veniva posta una domanda, rispondeva brevemente e con dolcezza. Il 5 Febbraio 1949, si manifestò la malattia che l’avrebbe portato alla morte: un sarcoma maligno. Râmana rimase distaccato e del tutto indifferente alla sua sofferenza, ma si preoccupava di confortare quanti, vicino a lui, se ne addoloravano. La fine arrivò la sera del 14 Aprile 1950. Dopo che i presenti nell’ashram ebbero eseguito il suo inno ad Arunachala, Râmana chiese ai suoi aiutanti di metterlo a sedere: sorrise e entrò nel suo Mahanirvana, o, semplicemente, morì.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Atti degli Apostoli, cap. 6, 1-7; Salmo 33; Vangelo di Giovanni, cap.6, 16-21.

La preghiera del sabato è in comunione con le comunità ebraiche della diaspora e di Eretz Israel.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, offrendovi una citazione di Râmana Mahârshi, tratta dal suo libro “Sii ciò che sei” (Il Punto d’Incontro), che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
C’è solitudine ovunque. L’individuo è sempre solitario. È suo compito scoprirla all’interrno, non cercarla all’esterno. La solitudine è nella mente dell’uomo. Si potrebbe essere in mezzo al mondo e mantenere la serenità di mente. Un tale uomo è in solitudine. Un altro può stare in una foresta, ma sará incapace di controllare la sua mente. Di un tale uomo non si può dire che sta in solitudine. La solitudine è una funzione della mente. Un uomo attaccato al desiderio non può ottenere la solitudine ovunque egli sia, mentre un uomo distaccato é sempre in solitudine. (Ramana Maharshi, Sii ciò che sei).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 14 Aprile 2018ultima modifica: 2018-04-14T22:08:56+02:00da fraternidade
Reposta per primo quest’articolo