Giorno per giorno – 04 Luglio 2017

Carissimi,
“Ed ecco scatenarsi nel mare una tempesta così violenta che la barca era ricoperta dalle onde; ed egli dormiva. Allora, accostatisi a lui, lo svegliarono dicendo: Salvaci, Signore, siamo perduti! Ed egli disse loro: Perché avete paura, uomini di poca fede? Quindi levatosi, sgridò i venti e il mare e si fece una grande bonaccia” (Mt 8, 24-26). Di tempeste, di ogni tipo e di diversa grandezza, ne conosciamo un po’ tutti. A livello personale, famigliare, comunitario, ecclesiale, sociale. E, con esse, il sospetto che Dio dorma e ci lasci soli. È quando devono sperimentare, in maniera drammatica, in molti paesi a rischio, diverse comunità cristiane, fatte oggetto di violenze e persecuzioni. Ma è, a veder bene, anche più letteralmente simile al racconto del vangelo, l’esperienza, ormai quasi quotidiana, di centinaia e migliaia di persone che fuggono situazioni intollerabili di sopravvivenza, per raggiungere le regioni che ritengono, a volte illudendosi, possano offrire condizioni più dignitose di vita a loro e, attraverso loro, alle famiglie rimaste nei paesi d’origine. “Salvaci, Signore. Siamo perduti!”. Ma, questa volta, al grido sembra non rispondere nessuno. E più che i flutti che ti sommergono fanno male le risa o gli insulti di quanti stanno sull’altra, irraggiungibile, riva. Noi, poi, siamo noi il Signore che dorme, e che dovrebbe svegliarsi, per sgridare i venti e il mare, per salvare “nel tempo” quanti gridano al soccorso, come anticipo della Parola definitiva che Lui pronuncerà sull’ultima tempesta che ci avrà sommerso. Che ci farà ritrovare tutti sull’altra riva.

Il nostro calendario ecumenico ci porta oggi la memoria di Andrea di Creta, pastore e innografo; di Jean Cardonnel, disobbediente per amore; e di Swami Vivekánanda, mistico indiano, figura chiave nel rinascimento dell’induismo del secolo XIX e promotore del dialogo tra le religioni.

Andrea era nato a Damasco, da Giorgio e Gregoria, una coppia di semiti cristiani, all’inizio della seconda metà del VII secolo. Quindicenne si recò a Gerusalemme ed entrò nel Monastero del Santo Sepolcro. Teodoro, patriarca di Gerusalemme, lo volle suo collaboratore e lo inviò, nel 680, a Costantinopoli, come suo delegato al VI Concilio ecumenico, convocato sotto il regno dell’imperatore Costantino IV. A Costantinopoli, Andrea fu ordinato diacono della Basilica di Santa Sofia e gli fu affidata la cura di un orfanatrofio e di una casa per anziani. Nell’anno 700 fu eletto vescovo della città di Gortina, nell’isola di Creta. Fu celebre come predicatore e compositore di inni sacri. Ci sono stati tramandati circa cinquanta sermoni e numerosi inni a lui attribuiti. Fu anche pastore pieno di premure per il suo popolo, nei tempi calamitosi dell’espansione musulmana. Tra gli inni da lui composti, il più noto è il Grande Canone, che viene cantato durante la quaresima nelle chiese ortodosse. Andrea morì nell’anno 740, a Mitilene, nell’isola di Lesbo.

Jean Cardonnel, era nato nel 1921 a Figeac (Francia). Entrato nell’Ordine dei Predicatori, nel 1940, fu ordinato prete nel 1947. Tre anni dopo fu fatto priore del convento di Marsiglia. Il caso dei coniugi Rosenberg, scoppiato proprio in quegli anni, lo portò a protestare con fermezza contro la pena di morte. Nello stesso tempo espresse il suo appoggio all’esperienza dei preti operai, avviata negli anni del dopoguerra. Quando, nel 1954, il Maestro Generale dell’ordine venne in Francia per condannarla, Cardonnel, per protesta, si dimise dall’incarico, continuando nel suo ministero come semplice frate. Nel 1958, sempre a Montpellier, denunciò il sistematico ricorso alla tortura in Algeria e si pronunciò per un’Algeria libera e indipendente. Il che gli causò l’allontamento dalla città. Inviato in Brasile per insegnare teologia a Rio de Janeiro, prese presto coscienza dei problemi del Terzo Mondo: povertà diffusa, operai senza salario, contadini senza terra, meninos de rua. Fece in tempo ad apprendere il portoghese, prima che i superiori e l’episcopato chiedessero il suo allontamaneto dal Paese. Nel 1968, con l’appoggio della rivista Témoignage Chrétien predicò la Quaresima alla Mutualité sul tema “Vangelo e rivoluzione”. Scoppiò così il “caso Cardonnel”. Il giornale Le Monde titolò: “Un prete rosso”. I superiori gli proibirono allora di parlare fuori di ambienti strettamente ecclesiastici e di scrivere su riviste che non fossero di conio teologico e scritturistico, senza aver ottenuto di volta in volta l’autorizzazione dell’Ordinario locale. Ma lui non ci sentì troppo. Continuò a scrivere, parlare, digiunare, manifestare, marcare presenza in tutti i punti caldi del pianeta. Nel 2002, di ritorno da un viaggio a La Réunion, più che ottantenne, trovò che il priore del convento di Montpellier gli aveva sgomberato la cameretta. Pensò non fosse giusto e denunciò il superiore per violazione di domicilio. Vinse la causa. Fu la prima volta che un tribunale francesce riconobbe che la cella di un frate è un domicilio privato. Jean Cardonnel morì il 4 luglio 2009. Lasciò scritto: “Il vero Dio lo si riconosce dal suono della sua Parola, la Parola fatta carne, nel soffio dello Spirito vivente, che dice a ciascuno di noi, a ciascuno nella nostra singolarità infinita: Anche se una madre dimenticasse il suo bambino, io non ti dimenticherò mai! Tu mi sei unico al mondo, in un mondo in cui bisogna urgentemente che ci siano solo degli unici al mondo”.

Narendranath Dutta (tale il suo nome di famiglia) era nato il 12 gennaio 1863, figlio di Bhuvanesvari Devi, una donna di grande pietà e cultura, e di un noto avvocato di Calcutta, Bisvanàth. Giovane brillante dall’intelligenza aperta e razionale, dai molteplici interessi e da un profondo senso della solidarietà umana, studiò filosofia e scienza occidentale a Calcutta. Lì incontrò colui che avrebbe fornito le risposte ai molti interrogativi del suo spirito: Sri Ramakrishna, di cui divenne discepolo. Alla morte di questi, nel 1886, Narendranath assunse il nome di Vivekánanda, che significa Beatitudine della conoscenza discernente. Obbedendo al compito, affidatogli dal suo maestro, di diffondere la conoscenza spirituale e di alleviare la miseria e le sofferenze degli umili e dei poveri, Vivekánanda cominciò a viaggiare in lungo e in largo per l’ India, denunciando l’abbandono e la miseria in cui era costretta la maggioranza della popolazione, lo statuto d’inferiorità della donna, e il vigente, disumano, sistema delle caste. Sollecitò misure concrete e immediate per fronteggiare nella misura del possibile queste sfide e fece di tutto per sensibilizzare e coscientizzare i ceti intellettuali sulla necessità di favorire il graduale passaggio del potere ai sudra, la casta più bassa e tuttavia maggioritaria dell’India. Nel 1893 Vivekánanda fu richiesto insistentemente di recarsi a rappresentare l’Induismo al Parlamento Mondiale delle Religioni, a Chicago. Dopo aver manifestato qualche resistenza, accettò. Il suo intervento colpì tutti per la sua forte spiritualità. La stampa internazionale gli tributò notevoli riconoscimenti, facendone conoscere la figura e il pensiero negli Stati Uniti e in Inghilterra. E anche in patria conobbe una grande popolarità. Soleva dire che “la fabbrica, lo studio, la fattoria, i campi, sono tutti luoghi ugualmente idonei all’incontro di Dio con l’essere umano, quanto la cella di un monaco e l’altare di un tempio” e aggiungeva che per lui “adorare Dio significa servire l’essere umano”. Disse anche: “Se proprio volete farvi un’idea del carattere di un uomo, non considerate le sue opere grandi. Il primo sciocco che passa può, in un istante della sua vita, comportarsi da eroe. Guardate piuttosto come un uomo compie le azioni più comuni: esse vi riveleranno il vero carattere di un grande uomo”. Morì il 4 luglio del 1902, a soli 39 anni di età.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro di Genesi, cap.19, 15-29; Salmo 26; Vangelo di Matteo, cap.8, 23-27.

La preghiera del martedì è in comunione con le religioni tradizionali del Continente africano.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura il brano di una conferenza tenuta da Swami Vivekánanda a Los Angeles, il 4 gennaio 1900. Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Continuamente, fin dalla nostra infanzia, cerchiamo di dare la colpa a qualcosa al di fuori di noi. Ci occupiamo sempre di mettere al loro posto gli altri e non noi stessi. Se siamo infelici diciamo: “Oh, è un mondo diabolico”. Malediciamo gli altri e diciamo: “Che stupidi dementi!”. Ma perché mai saremmo in un tale mondo se fossimo davvero così bravi? Se questo mondo è diabolico, anche noi dobbiamo essere dei diavoli; perché altro saremmo mai qui? “Oh, la gente nel mondo è così egoista!”. Abbastanza vero; ma perché ci ritroviamo in quella compagnia, se siamo meglio di loro? Provate a pensarci. Otteniamo solo quello che meritiamo. È una bugia quando diciamo che il mondo è cattivo e noi siamo buoni. Non può mai essere così. È una bugia terribile che diciamo a noi stessi. Questa è la prima lezione da imparare: essere decisi a non maledire niente al di fuori, a non dare la colpa a nessuno al di fuori, ma ad essere uomini, alzarsi e dare la colpa a noi stessi. Scoprirete che ciò è sempre vero. Controllate voi stessi. Non è vergognoso che in un momento parliamo così tanto della nostra umanità, del nostro essere degli dei – che sappiamo tutto, possiamo fare di tutto, che siamo senza colpa, immacolati, le persone più altruiste del mondo; e l’attimo dopo una pietruzza ci fa male, una piccola arrabbiatura causata da un tizio qualsiasi ci ferisce – qualsiasi stupido che passa per strada è capace di rendere infelici “questi dei”? Ma non dovrebbe essere altrimenti se fossimo veramente divini? È vero che bisogna dare la colpa al mondo? Lo stesso Dio, che è la più pura e più nobile delle anime, potrebbe essere reso infelice da qualcuno dei nostri trucchetti? Se sarai non-egoico come lui, allora sarai come Dio: cosa nel mondo potrà farti del male? Potresti attraversare i sette inferni ed uscirne incolume, senza danni. Ma il fatto stesso che ti lamenti e vuoi dare la colpa al mondo esterno, mostra che tu lo percepisci come altro da te – lo stesso fatto che tu lo percepisci così mostra che non sei quello che sostieni di essere. Rendi solamente più grande la tua offesa, aggiungendo infelicità ad infelicità, immaginando che il mondo esterno ti faccia del male e gridando: “Oh, mondo dannato! Quest’uomo mi ferisce; quell’uomo mi ferisce!” e così via. Significa aggiungere bugie all’infelicità. Dobbiamo prenderci cura di noi stessi – per quanto possiamo – e smetterla di occuparci degli altri per un po’. Cerchiamo di perfezionare i mezzi; lo scopo prenderà la sua strada. Perché il mondo può essere buono e puro, solamente se le nostre vite sono buone e pure. Esso è un effetto e noi siamo i mezzi. Perciò, pensiamo a purificare noi stessi. Rendiamoci perfetti. (Swami Vivekananda, Conferenza – Los Angeles, California, 4 Gennaio 1900).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 04 Luglio 2017ultima modifica: 2017-07-04T22:37:37+02:00da fraternidade
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