Giorno per giorno – 03 Luglio 2017

Carissimi,
“Poi Gesù disse a Tommaso: Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente! Rispose Tommaso: Mio Signore e mio Dio! Gesù gli disse: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!” (Gv 20, 27-29). Stasera, a casa di dona Nady, ci dicevamo che il vangelo di oggi ci riguarda per almeno due motivi. Il primo è che condividiamo la situazione iniziale di Tommaso, che è quella di non essere stati presenti con gli altri apostoli, quando il Risorto si è presentato loro. Da qui la possibile diffidenza in relazione al racconto: e chi mi dice che sia vero, che non sia solo una bella favola? Che noi potremmo ripetere anche sulla successiva esperienza di Tommaso, il quale finì per vederlo, il Signore. E per toccarne le ferite. Nell’occasione, Gesù proclama l’ultima delle sue beatitudini, che, a volerlo, ci può riguardare direttamente: “Beati quelli che pur non avendo visto crederanno”. Sono tante le cose che crediamo (o ci fanno credere), senza che noi le si sia viste, o più in generale, sperimentate, in prima persona. E che noi siamo disposti nondimeno ad accettare come verità per la semplice parola o testimonianza di qualcun altro. Correndo il rischio, ogni volta, di essere ingannati. O, al contrario, di esserne felicemente sorpresi, quando in qualche modo ci sia dato di verificarne la fondatezza. Il salto della fede, di una qualche fede, è chiesto a tutti. Ciò che è proposto alla fede degli apostoli, prima, di Tommaso, poi, e infine a noi, è credere che Dio è entrato nella storia, superando di colpo tutte le immagini fiorite nella coscienza religiosa degli uomini, per dirsi nella vicenda di Gesù e più ancora, paradossalmente, nella sua passione e morte, come segno di una solidarietà radicale, fino alle estreme conseguenze, con le vittime di ogni tempo, e di un amore gratuito e incondizionato che si offre a tutti, amici e nemici, persino a coloro che lo negano, lo tradiscono o lo uccidono. Questo Dio, questo significato ultimo e definitivo, si destina e si propone a noi anche come senso più vero della nostra vita e criterio di giudizio, l’unico giudizio suo, che ci sia permesso, senza essere peccaminoso e ingiusto, sulla storia degli altri. Il “mio Signore e mio Dio” di Tommaso, può divenire il nostro. Sarà il nostro sì, il nostro assenso a Gesù come verità di Dio e nostra.

Se, oggi, si è letto questo vangelo, è a causa della memoria di Tommaso apostolo. Noi, assieme a lui, ricordiamo una grande figura di maestro del sec. XX : Bernard Häring, apostolo della non-violenza.

Israelita, Tommaso fece parte del gruppo dei dodici. Il suo nome appare nell’elenco fornito dai quattro evangelisti. Il Vangelo di Giovanni gli dedica un rilievo particolare. È lui che incita i discepoli a seguire Gesù e a morire con lui in Giudea (Gv 11,16). È lui che chiede a Gesu, durante l’ultima cena, sul cammino che conduce al Padre (Gv 14,5-6). Tommaso fa una singolare esperienza dell’incontro con il Cristo risorto (Gv 21,2). Temperamento coraggioso e pieno di generosità, percorre le tappe della fede e riconosce Gesù, il maestro che ha dato la sua vita per amore, come Dio e Signore (Gv 20,26-28). Una tradizione afferma che nella sua missione di evangelizzazione arrivò fino in India, dove sarebbe morto martire.

Bernard Häring era nato il 10 novembre, 1912 a Böttingen (Germania), da Johannes e Franziska Häring. Entrò dodicenne nel seminario di Gars-am-Inn e, nel 1933, iniziò il suo noviziato tra i Redentoristi. Ordinato sacerdote sei anni più tardi, dopo la parentesi bellica, riprese gli studi di teologia morale, a cui l’avevano destinato i superiori, conseguendo, nel 1947, il dottorato in Sacra Teologia nell’Università di Tübingen. Nel 1954 pubblicò la sua prima opera maggiore di teologia morale: La Legge di Cristo, in cui “proponeva una teologia morale incentrata sulla Bibbia, sulla liturgia, sulla cristologia e sulla vita”, opponendosi “risolutamente ad ogni legalismo che facesse di Dio un controllore anziché un salvatore di grazia”. Fu nominato da papa Giovanni XXIII membro della Commissione Preparatoria del Concilio Vaticano II e a lui si deve un decisivo contributo nella redazione del documento conciliare Gaudium et Spes. Nel 1979 gli venne diagnosticato un tumore alla gola, contro cui lottò coraggiosamente, senza mai perdere il suo spirito. Centrale nel suo magistero e nella sua testimonianza di vita i temi della pace, della non-violenza e del dialogo. Scrisse: “Non potrei perdonarmi, se non credessi di poter vivere il Vangelo dell’amore non-violento e se non lo predicassi come nucleo e apice della fede in Cristo, redentore del mondo”. Molto ebbe a soffrire per le incomprensioni e le censure da parte della gerarchia ecclesiastica, ma questo non gli impedì di scrivere alla vigilia della morte: “Amo la Chiesa così com’è, come anche Cristo mi ama con le mie imperfezioni e le mie ombre”. Si spense a Gars-am-Inn il 3 luglio 1998.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono propri della memoria dell’Apostolo Tommaso e sono tratte da:
Lettera agli Efesini, cap.2, 19-22; Salmo 117; Vangelo di Giovanni, cap.20, 24-29.

La preghiera di questo lunedì è in comunione con i fedeli del Sangha buddhista.

Oggi ricordiamo anche la drammatica scomparsa, avvenuta il 3 luglio 1995, a Firenze, di Alexander Langer, una delle personalità più ricche, profonde e, negli ultimi tempi, sofferte, della vicenda politico-culturale di fine secolo del vostro Paese. Vogliamo farlo citando le parole con cui, in un discorso tenuto a Viterbo, il 27 gennaio 1995, spiegava la sua proposta di rovesciare il motto olimpico (“citius, altius, fortius”) come segno di una cultura nuova preoccupata di ristabilire un rapporto armonioso con la natura e relazioni pacifiche e solidali tra gli uomini: “Invece di dire più veloce probabilmente abbiamo bisogno oggi di una svolta verso una maggiore lentezza (lentius). Invece di dire più alto, che è poi il massimo della competizione, io credo che possiamo puntare viceversa sul più profondo (profundius), cioè sul valorizzare più le dimensioni della profondità che significa tante volte rinunciare alla quantità, alla crescita, guadagnando in qualità. E invece di più forte oggi possiamo cercare invece il più dolce, il più mite (suavius): nei comportamenti collettivi ed individuali invece di puntare alla prova di forza, al massimo della competizione, si punti, anche in questo caso, sostanzialmente alla convivenza”.

Bene. Oggi, dom Eugenio, il nostro vescovo, compie settantatre primavere. Chi conosce il suo stile e quello di un certo numero di vescovi di qui, non arriva certo a stupirsi della maniera d’essere, semplice, accattivante, profonda e profetica, del vescovo di Roma, che questo Continente ha regalato alla Chiesa universale. Mettetelo nelle vostre preghiere, in questo giorno del suo compleanno, perché continui ad essere pastore di questa chiesa, secondo il cuore del Padre.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura una pagina di Bernard Häring, tratta da libro a cura di Valentino Salvoldi “Häring. Un’autobiografia a mo’ di intervista” (Paoline), che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Io sono sempre stato affascinato da quanto dice san Paolo ai Romani: “La legge dello Spirito… ci ha liberato dalla legge del peccato e della morte (8, 2). Bellissimo anche il capitolo 6 ai Galati, là dove l’Apostolo mostra l’opposizione tra lo “Spirito”, dono gratuito e liberante che conduce alla solidarietà nel bene – e la “carne”, intesa come egoismo incarnato, che porta alla morte. Chi ha il dono dello Spirito è libero, sa che tutto nella sua vita è grazia e da quanto ha ricevuto trae la foza per animare dello Spirito, cioè dell’Amore, tutti i suoi rapporti, tutta la sua attività. Lo Spirito, mentre ci libera da ogni forma di male, ci rende disponibili al servizio di Dio e dei fratelli, sull’esempio di Cristo che al Giordano, mentre riceve il Battesimo, proclama di essere Servo, nel senso predetto dal profeta Isaia, nei quattro stupendi carmi del “Servo nonviolento”. La forza intima che permette a questo Servo di realizzarsi perfettamente, dando la vita per i suoi fratelli, consiste nel fatto di sentirsi amato dal Padre, con un tipo d’amore che libera da ogni paura e che dà la gioia di “buttarsi” nel mondo per cercare di salvarlo. Dalla croce, Cristo ci comunica lo Spirito santo, esplosione d’amore, Pentecoste, che libera gli Apostoli, infondendo in loro il coraggio di amare tutti – compresi i nemici – con quell’amore che può essere solo dono di Dio, che, anzi, è Dio stesso. La prima lettera di Pietro continuamente fa riferimento allo Spirito santo che li ha resi servi nonviolenti, servi della pace, servi che creano rapporti sani, grazie al reciproco dono dell’Amore. Devo, forse, cercare la mia autorealizzazione prima di aiutare gli altri a liberarsi? No, l’ossessione dell’autorealizzazione mi sembra proprio una pericolosa forma di egoismo: la risposta giusta ci viene dall’esempio di Cristo: egli nel Battesimo è solennemente intronizzato come Servo che si realizza perfettamente nell’abbandono totale al Padre, a servizio dell’umanità. Chi serve gli altri fa esperienza dell’amore di Dio, che si prende cura di lui, così come ha sorretto i passi del suo Servo, guidandolo fino alla croce, apice della perfetta realizzazione che si raggiunge nell’amare gratuitamente tutti, compresi i nemici. (Häring. Un’autobiografia a mo’ di intervista).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 03 Luglio 2017ultima modifica: 2017-07-03T22:36:31+02:00da fraternidade
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