Giorno per giorno – 30 Ottobre 2016

Carissimi,
“Un uomo, di nome Zacchèo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là. Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua” (Lc 19, 2-5). Noi, questo vangelo, lo si era già meditato ieri, nella chácara di recupero, dove ci siamo ritrovati per congedarci da Sirlon, giunto al termine dei nove mesi di trattamento. Questo Zaccheo, il cui nome, paradossalmente (ma sono i paradossi di Dio) significa “puro”, era agli occhi di tutti, lui così piccolo, una montagna di immondizia, che la gente – salvo i suoi amici di malefatte – doveva scansare con disprezzo. Ladro, ricco, corrotto e corruttore, in combutta con gli occupanti stranieri, un senzadio privo di scrupoli e di pietà, il giorno che seppe che Gesù stava lì nei paraggi, gli venne voglia di vederlo. Vai a sapere se per semplice curiosità, o per cosa d’altro. E successe quel che successe. Noi tutti, ci dicevamo ieri, siamo (o siamo stati) un po’ come Zaccheo, coi nostri piccoli arricchimenti illeciti (non necessariamente monetari), le nostre piccole corruzioni, le nostre connivenze con i nemici del Regno, il nostro fare a meno di Dio, l’assenza di scrupoli e di pietà. Non perché particolarmente cattivi, oppure sì, nel senso etimologico della parola, “prigionieri”, o schiavi di un qualche idolo che ci avevano venduto per buono. Sirlon, un ragazzone di ventidue anni, seduto accanto a sua madre, ha pianto parecchio ieri, durante la celebrazione, facendo memoria di questi nove mesi, e di qualcosa del tempo di prima. Vai a sapere cosa davvero l’aveva portato alla chácara, se solo darsi una tregua, la volontà di venire fuori dal giro, la nostalgia di Dio, la tristezza di non essere santo, di riuscire a non far male a nessuno. Cosa che fosse ad averlo spinto, era venuto qui. La chácara è stato il suo sicomoro, da cui sporgersi, un po’ nascosto, anche per la vergogna, nella speranza di vedere Gesù, di cui forse conosceva poco, ma quanto basta per sapere che non gliene sarebbe venuto del male. E ciascuno di noi ha avuto il suo sicomoro. Con Gesù che arriva lì sotto e dice: io devo proprio venire a casa tua. Fosse stato il centurione avrebbe protestato: io non son degno. Ma come opporsi all’io-devo del Signore? Noi non sappiamo in che giorno, esattamente, Sirlon (forse lo sappiamo per ciascuno di noi), abbia davero accolto l’autoinvito di Gesù, però la gioia che sprizzava ieri ci ha confermato che gli aveva davvero aperto le porte di casa, e le promesse che tra il riso e le lacrime ha fatto erano pari pari quelle di Zaccheo, il “puro”. Perché Gesù è così che vede ciascuno di noi. Come con lo sguardo amante di una madre. Noi, cosa abbiamo promesso al Signore?

I testi che la liturgia di questa XXXI Domenica del Tempo comune propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro della Sapienza, cap.11,22 -12,2; Salmo 145; 2ª Lettera ai Tessalonicesi, cap.1,11-2,2; Vangelo di Luca, cap.19,1-10.

La preghiera della domenica è in comunione con tutte le comunità e Chiese cristiane.

Oggi, il calendario ci porta le memorie di Marcello di Tangeri, obiettore di coscienza, martire della non-violenza, e di Santo Dias, martire della giustizia e della solidarietà.

Giovane nordafricano, Marcello era centurione dell’esercito romano, quando, scegliendo la non-violenza, rifiutò di continuare a servire in armi l’impero. Gli atti del processo riferiscono che il 21 luglio del 298, mentre si celebrava la festa degli “augusti imperatori” Marcello, centurione ordinario, gettò le sue armi alla presenza della truppa riunita e proclamò la sua rinuncia al servizio militare per servire nella milizia di Cristo. Il 28 luglio fu interrogato dal comandante Fortunato, il quale considerando la gravità del delitto, decise di inviarlo al suo superiore gerarchico, Aurelio Agricolano, a Tangeri. Il 30 ottobre Marcello, introdotto alla sua presenza, fu interrogato nuovamente. Agricolano gli chiese: “Quale furore ti ha preso così da profanare il giuramento?”. Marcello rispose: “Non è certo pazzo uno che teme Dio”. Agricolano domandò ancora: “È vero che hai gettato a terra le armi?” e Marcello di ritorno: “Sì, non è lecito infatti combattere al servizio del potere di questo mondo per un cristiano che teme Cristo Signore”. Agricolano disse allora: “Si decreta che sia condannato a morire di spada Marcello che pubblicamente ha rinnegato il suo giuramento e profanato il grado di centurione, nel quale militava, ed ha pronunziato le parole piene di follie riportate negli atti del comandante”. E mentre veniva condotto al supplizio, Marcello disse: “Il Signore ti benedica”. E dopo queste parole venne ucciso con la spada.

Santo Dias era nato il 22 febbraio 1942, nella Fazenda Paraíso, municipio di Terra Roxa (entroterra di São Paulo), da Laura Amâncio e Jesus Dias da Silva. Dopo aver lavorato come bracciante, partecipando al sindacato dei lavoratori agricoli e alle sue azioni di lotta, nel 1961 fu espulso dalla terra dove era colono, per aver chiesto di essere messo a libretti e si trasferì nella capitale. Assunto in una fabbrica metallurgica, fu membro attivo delle Comunità ecclesiali di base e ministro dell’Eucaristia, agente della Pastorale operaia e leader sindacale. A causa di questa sua militanza subì ripetutamente repressione e licenziamenti, senza mai lasciarsi intimidire. Sposato con Ana Maria, da cui ebbe due figli, Santinho e Luciana, fu ucciso a 37 anni, durante una pacifica manifestazione di lavoratori metallurgici a São Paulo il 30 ottobre 1979. I funerali, presieduti, nella cattedrale di São Paulo, dal card. Paulo Evaristo Arns e da altri undici vescovi, riunirono migliaia di persone, delle comunità cattoliche, ma anche rappresentanti delle chiese evangeliche, ebrei, spiritisti, seguaci delle religioni afro e dei movimenti politici allora in lotta per la democrazia.

A partire da oggi, e per cinque giorni (gli ultimi tre del mese lunare di Āshwin e i primi due di quello Kārtik), tutte le religioni dell’India – incluse le minoranze di giainisti e sikh (pur variando per queste il significato) – celebrano la loro maggior festa, Diwali (o Dipavali, “Fila di lampade”). Gli indú ricordano con essa il ritorno di Rama (considerato un avatāra di Vishnu), nella città di Ayodhya, capitale del suo regno, dopo la sconfitta inferta al re di Lanka Ravana, che gli aveva rapito la moglie Sita. Diwali vuole affermare il trionfo della luce sulle tenebre, della vita sulla morte, della veritá sulla menzogna e ha, in questo senso, un significato universale. Ce n’è di bisogno un po’ ovunque.

È tutto, per stasera. Prendendo spunto dalla memoria di Marcello di Tangeri, con la sua scelta nonviolenta, vi proponiamo, nel congedarci, un brano del teologo Bernard Haering, tratto dal suo “Liberi e fedeli in Cristo” ( Ed. San Paolo). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Com-partecipando la sua pace ai discepoli, Cristo li rende messaggeri e costruttori di pace, ambasciatori di riconciliazione. Con questa missione egli dice all’umanità che la pace è possibile, qualora si accolga il suo messaggio e il suo dono. Il suo regno è un regno di operatori di pace. “Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli e figlie di Dio” (Mt 5,9). L’imperatore romano era chiamato “figlio di Dio – pacificatore”, ma egli instaurava la pace dominando i popoli con un esercito potente. Cristo dà una pace “quale il mondo non può dare” (Gv 14,27). I suoi messaggeri possono persuadere il mondo ad accettare la pace di Cristo solo con il loro “spirito mite” (Mt 5,5). Cristo, che ha riconciliato i peccatori con il suo amore sofferente e non-violento, com-partecipa la sua pace ai suoi messaggeri e dice loro: “Come il Padre ha mandato me, così io mando voi” (Gv 20,21). Il ministero e il messaggio affidato ai discepoli di Cristo può essere compendiato e definito semplicemente “Vangelo della pace” (Ef 6,15; cf Ef 2,17; At 10,36). Questa pace è la caratteristica sia del messaggero, sia della sua opera: La pace è nel soggetto. Essa è la sua opera. La giustizia non è solo la via che porta la pace: ne è anche il frutto. “La vera giustizia è il frutto che gli operatori di pace fanno maturare dai semi seminati in spirito di pace” (Gc 3,18). I discepoli di Cristo devono offrire dappertutto, a parole e con la loro condotta, l’augurio e il dono della pace (Lc 10,5-6). In Cristo, il vero discepolo può essere un con-creatore di pace. “Operatore di pace, egli percorrerà la sua strada, accendendo la gioia e versando la luce e la grazia nel cuore degli uomini su tutta la superficie della terra, facendo loro scoprire, al di là di tutte le frontiere, dei volti di fratelli, dei volti di amici” (Giovanni XXIII). Il mondo ha assolutamente bisogno di uomini e di donne che, pervasi dalla pace di Cristo, agiscano come operatori di pace. (Bernard Haering, Liberi e fedeli in Cristo).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 30 Ottobre 2016ultima modifica: 2016-10-30T22:35:21+01:00da fraternidade
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