Giorno per giorno – 10 Ottobre 2016

Carissimi,
“Questa generazione è una generazione malvagia; essa cerca un segno, ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona. Poiché, come Giona fu un segno per quelli di Nìnive, così anche il Figlio dell’uomo lo sarà per questa generazione” (Lc 11, 29-30). Stasera, a casa di dona Jane, ci dicevamo che ogni generazione è in qualche modo “quella” generazione. Tutti, infatti, da sempre, si cerca un segno, che ci faciliti la fede, il nostro assenso fiducioso ad una proposta che mette in gioco le nostre scelte decisive. Come è quella che ci si presenta in nome di Dio. I miracoli hanno un po’ questa pretesa. Poi, però ci si accorge che anch’essi sono ambigui, dato che ciascuno finisce per dar loro l’interpretazione che preferisce: frutto di un intervento divino, o demoniaco, o semplicemente del caso. Di fronte alla richiesta di un segno decisivo, la risposta di Gesù è perentoria: Non sarà dato alcun segno che sacrifichi la nostra libertà. E porta l’esempio di Giona, un profeta controvoglia, piccolo e pauroso, inviato a Ninive, la città nemica, ad annunciare la sua imminente distruzione. Credergli o non credergli? I niniviti credettero, sì, che la città sarebbe stata distrutta, ma credettero anche che, forse, era possibile evitarlo. Il segno, labile, a cui credettero, fu la parola minacciosa di quell’uomo, che essi seppero mutare di segno. Ora, cosa ci attesta la verità della parola di Gesù? Un racconto scritto duemila anni fa, che ha cambiato la vita di uomini e donne di ogni generazione. Un racconto di cui molti potranno dire: fantasie, o, addirittura, stupidaggini. Lo scriveva già l’apostolo Paolo di quella parola che si riassume nell’evento della croce. Credere che Dio ci ami a tal punto da preferire morire pur di non farci male e non privarci della nostra libertà e decidere che potremmo tentare di fare qualcosa di simile. Divenire anche noi segno di un segno incomparabilmente maggiore che si offre come proposta alla libera scelta di fede degli altri.

Tre sono le memorie che il nostro calendario ci propone oggi: Jules Monchanin (Swami Parama Arubi Anandam), precursore del dialogo tra cristianesimo e induismo; Michele Pellegrino, pastore e profeta di una Chiesa rinnovata, Daniele Comboni, missionario del Regno in Africa.

La vita di Jules Monchanin, nato a Fleurie, in Francia, il 10 aprile 1895, fu quella di un pioniere dell’incontro tra le religioni, vissuta fino al limite delle sue possibilità fisiche, psicologiche, intellettuali e culturali. Ordinato presbitero, nel 1938 si trasferì nell’India del Sud, dove si mise a disposizione della Chiesa di Tiruchirapalli. Dopo qualche anno, assieme a Henri Le Saux, fondò l’ashram della Trinità, assumendo il nome di Swami Parama Arubi Anandam (= Felicità dello Spirito Santo). Monchanin credette profondamente che la spiritualità hindu potesse arricchire e vivificare il cristianesimo. Fermamente convinto, fin dall’inizio del suo ministero sacerdotale che la missione del cristiano fosse quella di stabilire una relazione dialettica con il pensiero scientifico moderno e con le altre religioni, dedicò tutto se stesso a questo fine. Alla fine dell’agosto 1957 gli fu diagnosticato un tumore e gli fu suggerito di tornare in Francia per essere operato. Fu ricoverato all’ospedale Saint-Antoine di Parigi, stremato e ridotto a 42 kg di peso. Lo stato di avanzamento della malattia, rese impossibile operarlo, e Monchanin, il 10 ottobre 1957, dopo aver ricevuto il viatico, stese le braccia in forma di croce come estremo gesto di offerta e dopo alcune ore spirò dolcemente.

Michele Pellegrino era nato a Centallo (Cuneo) il 25 aprile 1903. Sacerdote a soli 22 anni nella diocesi di Fossano, fu professore di Letteratura cristiana antica e di Storia del cristianesimo all’Università di Torino, fino a quando, nel 1965, papa Paolo VI lo chiamò alla guida della Chiesa torinese. L’amore per la Parola di Dio e la profonda conoscenza dell’insegnamento dei Padri, ne fecero un pastore sensibilissimo, sollecito e coraggioso di fronte alle necessità e alle sfide inedite che via via si manifestavano nella comunità dei fedeli e nella società civile del tempo. Rassegnate le dimissioni, nel luglio del 1977, continuò negli anni successivi ad impegnarsi in Italia e all’estero sui temi dell’attuazione del Concilio, della povertà, della comunione, del dialogo interreligioso e della libertà nella comunità dei credenti in Cristo. Colpito da ictus cerebrale, l’8 gennaio 1982, paralizzato e reso afono, chiese di passare quanto gli restava da vivere tra gli ultimi degli ultimi, al Cottolengo. Lì si spese leggendo i Padri della Chiesa, sgranando senza sosta il rosario, visitando, sorridendo e benedicendo gli altri malati. Fino a che la morte lo colse la mattina del 10 ottobre del 1986.

Daniele Comboni era nato in una povera famiglia contadina, quarto degli otto figli di Domenica e Luigi Comboni, a Limone sul Garda (Brescia) il 15 marzo 1831. Durante gli studi a Verona aveva maturato la sua vocazione, che lo portò, completati gli studi di filosofia e teologia ad essere ordinato sacerdote nel 1854 e a partire, tre anni dopo, per la sua prima missione in Africa, con destinazione Khartoum, la capitale del Sudan. Da lì scrisse ai genitori: “Dovremo faticare, sudare, morire, ma il pensiero che si suda e si muore per amore di Gesù Cristo e della salute delle anime più abbandonate del mondo è troppo dolce per farci desistere dalla grande impresa”. Tornato in Italia, elaborò nel 1864 un Piano per la rigenerazione dell’Africa, sintetizzabile nello slogan “Salvare l’Africa con l’Africa”, espressione della sua fiducia incrollabile nelle risorse umane e religiose delle popolazioni africane. Sull’onda di questa sfida, fondò, nel 1867 e nel 1872, l’Istituto maschile e l’Istituto femminile dei suoi missionari, che saranno conosciuti in seguito come Missionari Comboniani e Suore Missionarie Comboniane. Nominato Vicario apostolico dell’Africa Centrale e consacrato vescovo nel 1877, dedicò i suoi ultimi anni con instancabile energia a battersi contro la piaga dello schiavismo e a consolidare l’attività missionaria con gli stessi africani. Il 10 ottobre 1881, a soli cinquant’anni, stroncato dalle fatiche e dalla malattia, moriva a Khartoum, tra la sua gente.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Lettera ai Galati, cap.4, 22-24.26-27.31-5,1; Salmo 113; Vangelo di Luca, cap.11, 29-32.

La preghiera di questo lunedì è in comunione con i fedeli del Sangha buddhista.

Anche per stasera è tutto. Noi ci si congeda qui, lasciandovi ad una citazione del Card. Michele Pellegrino, tratta dalla sua Lettera Pastorale “Camminare insieme”, dell’8 dicembre 1971. Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Riconoscere secondo il Vangelo il valore della povertà vuol dire rispettare e amare i poveri, mettersi dalla parte loro con una scelta preferenziale. Cristo, che è venuto a salvare tutti senza eccezione, ha proclamato beati i poveri e ad essi ha riconosciuto il primato dell’annuncio della salvezza. “Lo Spirito del Signore… mi ha mandato a predicare ai poveri la buona novella” (Lc 4, 18). La Chiesa non può fare altra scelta. Questa non è demagogia: è Vangelo. “Il Vangelo”, ammonisce Paolo VI, “ci inculca il rispetto privilegiato dei poveri e della loro particolare situazione nella società” (Octogesima adveniens, n. 23). […] Dobbiamo riconoscere che “nel tessuto sociale del nostro tempo esiste la ‘povertà di classe’: si danno, cioè, classi sociali povere, che assumono sempre più un atteggiamento di rifiuto, di contrapposizione radicale e di impermeabilità nei confronti della società globale, a mano a mano che, sotto la spinta delle ideologie, maturano in esse la coscienza di classe e la conseguente strutturazione organica di quanti vi appartengono. L’esempio tipico è quello della classe operaia. Ma accanto ad essa si devono porre purtroppo numerose altre categorie di persone che non contano, di cui si dispone senza chiedere il loro parere, i cui membri per il solo fatto di appartenervi non riescono a farsi sentire, a far valere i propri diritti, ma restano automaticamente emarginati, esclusi dal progresso, dalla cultura, dalle responsabilità. Basti pensare, per esempio, alla nuova classe degli ‘immigrati’, la quale spesso in una sola nazione raggruppa diversi milioni di persone, praticamente disattese e prive dei più elementari diritti politici, civili, umani. Ora, l’esistenza di queste classi povere, il fatto cioè che oggi sociologicamente parlando la povertà sia un fenomeno di classi intere, ripropone necessariamente ai cristiani in termini nuovi di ‘scelta di classe’ il dovere evangelico della preferenza per i poveri”. “Alla luce dell’insegnamento evangelico la scelta cristiana di classe deve consistere essenzialmente nella priorità e nella preferenza che i cristiani, per vocazione nativa e in vista del regno di Dio, sono tenuti a dare non solo a parole, ma in modo effettivo ed efficace, alle classi più povere nella loro azione pastorale e sociale, di evangelizzazione e di promozione umana” ((B. Sorge s. i., Vangelo e “scelta di classe”). Non si tratta di novità. La Chiesa, spesso accusata, e non sempre a torto, d’essersi messa dalla parte dei potenti, ha dato in ogni secolo splendida testimonianza evangelica, con la parola e con l’opera, di solidarietà verso i poveri e gli indifesi. (Card. Michele Pellegrino, Camminare insieme n. 12).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 10 Ottobre 2016ultima modifica: 2016-10-10T22:10:54+02:00da fraternidade
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