Giorno per giorno – 09 Ottobre 2016

Carissimi,
“Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: Gesù, maestro, abbi pietà di noi! Appena li vide, Gesù disse loro: Andate a presentarvi ai sacerdoti. E mentre essi andavano, furono purificati” (Lc 17, 11-14). Stamattina, durante la condivisione della Parola, ci siamo detti, una volta di più, che il vangelo, anzi, Gesù, per essere più precisi, ci mostra come è, e come agisce Dio, perché noi si possa essere (bella pretesa!) come Lui. Gesù deve onorare il suo nome, che è Dio-salva, perciò non fa differenza, tra chi, di quei dieci, sia dei suoi, e chi invece sia addirittura un nemico dei suoi, il samaritano. Guarisce tutti. E questa è già la prima lezione per noi. Se privilegiamo i nostri, non siamo dei suoi. Siamo semplicemente uguali agli altri, ma ancor più degli altri, bisognosi di essere guariti. Dio è colui che libera, salva, sempre e soltanto. Tutti. Se no, è un idolo. Già sul Sinai ci aveva messo in guardia. Poi, c’è la figura di questo samaritano, “eretico”, “nemico di Dio e del suo popolo” (di Dio lo sono anche gli altri popoli, a dire la verità). Lebbroso, per giunta. Che, mentre obbedisce all’ordine di Gesù e se ne va dai suoi sacerdoti, al Monte Garizim, per ricevere il certificato di guarigione, che lo reintegrerà a pieno titolo nella comunità dei suoi, si accorge di essere guarito. E, come prima cosa, risolve di tornare a dire grazie a Gesù. La gratitudine è aprire gli occhi sulla salvezza che ci ha raggiunti tutti, indipendentemente, come abbiamo visto, da popolo, razza, religione, tanto è vero che il samaritano è un eretico, considerato razzialmente impuro, mentre gli altri che procedono verso il tempio ad occhi chiusi e non si sono ancora accorti di nulla, rappresentano i fedeli che si considerano ortodossi. Tutti e dieci lebbrosi, però. Come frutto del loro parlar male degli altri (si continua a farlo anche oggi, tra le chiese e nelle chiese), secondo l’eziologia della malattia tradizionalmente accolta dai maestri (a partire dalla lebbra che colpì Miriam, sorella di Mosè). Chi sperimenta la salvezza portata da Gesù è chi è entrato nella sua logica, vive nella dimensione della gratitudine, smette di parlar male degli altri, testimonia l’amore universale di Dio. Se non facciamo questo, è perché non siamo ancora stati curati dal nostro male, e non abbiamo ancora incontrato Gesù, che è, quand’anche anonimamente, la salvezza di Dio.

I testi che la liturgia di questa XXVIII Domenica del Tempo Comune propone alla nostra riflessione sono tratti da:
2° Libro dei Re, cap.5, 14-17; 2ª Lettera a Timoteo, cap.2, 8-13; Vangelo di Luca, cap.17, 11-19.

La preghiera della Domenica è in comunione con tutte le comunità e Chiese cristiane.

Oggi la Chiesa fa memoria del Patriarca Abramo, Padre di tutti i credenti nel Dio unico.

Primo dei Patriarchi e fondatore del monoteismo ebraico, confidando nella parola di Dio, emigrò con sua moglie Sara nella terra di Canaan (Gen 12, 1ss). Come segno della sua alleanza con Dio, gli fu ordinato, quando era già vecchio, di circoncidersi (Gen 17,10) e, secondo il racconto biblico, fu dopo questo che Sara diede miracolosamente alla luce un figlio, Isacco (Gen 21,2). Una delle dieci prove di fedeltà a cui Dio sottopose Abramo fu la richiesa che gli offrisse in sacrificio proprio Isacco (Gen 22,2). L’episodio, che nell’esegesi ebraica è designato como la ’Aqedah (la legatura), è ricco di interpretazioni suggestive. Abramo è considerato il “guardiano della Torah”, ancor prima che essa fosse stata rivelata da Dio. A lui si deve la pratica della preghiera ebraica del mattino (Gen 19,27). Benevolo e compassionevole, intercedette presso Dio perché Sodoma fosse risparmiata, nonostante la malvagità dei suoi abitanti, chiedendogli quanti uomini giusti fosse sufficiente trovarvi per evitarle la distruzione. Partito da cinquanta, quando arrivò a dieci, ritenne giusto non insistere oltre (Gen 18, 23 ss). Sembra che il minian, il numero minimo di dieci uomini necessario per il culto pubblico, si fondi proprio su questa tradizione. Abramo morì a 175 anni e fu sepolto nella caverna di Macpela (Gen 25,7ss). Gode di una grande considerazione, oltre che nell’ebraismo, anche nel cristianesimo e nell’islamismo, che vedono in lui la figura perfetta del credente, che fonda gli ideali etici e culturali di queste tre religioni.

È tutto, per stasera. In un volume piccolo, ma davvero bello, di Paul Beauchamp, che ha come titolo “Cinquanta ritratti biblici” (Cittadella Editrice), troviamo ciò che l’autore scrive sulla figura di Abramo e, nel congedarci, ve ne proponiamo un brano come nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Il narratore che ci ha tramandato Gen 22 è molto distante da questa epoca remota. Innanzitutto nel suo racconto, si tratta di un figlio unico. Agli antipodi della famiglia gregge. Leggiamo: “[…] tuo figlio, il tuo unico, quello che tu ami, Isacco”. In seguito, Abramo non rinuncia soltanto a un figlio, rinuncia alla promessa! Sono passati venticinque anni da quando ha ricevuto questa promessa di diventare una “grande nazione”. Poi è arrivato il giorno dell’ “ospitalità” (philoxenia), la prima Annunciazione. Abramo aveva raggiunto l’età di cento anni senza che sua moglie gli avesse dato un figlio. Ciò che gli era stato dato per mezzo di un miracolo, oggi gli è richiesto indietro! Un autore del Nuovo Testamento dà la sua interpretazione: Abramo non ha rinunciato alla promessa. Si è detto: il dono promesso, che proviene da più lontano dell’uomo, va anche ben oltre e non può essere tolto: “Dio è capace di far risorgere anche dai morti. Così in una sorta di prefigurazione, egli ritrovò suo figlio” (Eb 11, 19). Ma questa interpretazione non deve farci immaginare che Abramo abbia visto in anticipo l’epilogo del suo dramma: “Per fede, Abramo, messo alla prova, offrì Isacco” (Eb 11, 17). Ora la fede è notte. Nel racconto, il monte si chiama “il Signore vedrà” (Gen 22, 14; cf anche il versetto 8). Dio vede – Abramo non vede. “Il padre riebbe suo figlio”. Ma è diventato un altro padre. In quanto al figlio, nella tradizione ebraica, il titolo del racconto mette l’accento sul suo dramma: l’episodio non si chiama “sacrificio”, ma “legatura” di Isacco. Se Abramo non ha creduto che Dio volesse la morte, Isacco non ha creduto che suo padre volesse ucciderlo… Ma non è tutto. Lo scioglimento di questa legatura libera nel lettore questo sentimento di un debito di sangue, schiavitù antica e quotidiana. L’audacia del racconto è di attribuire a Dio l’antica imposizione. Come se Dio dicesse: tu hai dato di me questa immagine di crudeltà, ma sono venuto ad abitarla perché non c’era altro modo per liberartene. (Paul Beauchamp, Cinquanta ritratti biblici).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 09 Ottobre 2016ultima modifica: 2016-10-09T22:26:36+02:00da fraternidade
Reposta per primo quest’articolo