Giorno per giorno – 08 Ottobre 2016

Carissimi,
“Mentre Gesù parlava, una donna dalla folla alzò la voce e gli disse: Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato! Ma egli disse: Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!” (Lc 11, 27-28). Come quella donna diceva della madre di Gesù, noi a volte si è portati a dire della sua generazione: beati loro che l’hanno visto, conosciuto, toccato! Ma Gesù anche a noi risponde: beati invece voi se, dopo aver ascoltato la mia parola, le date nuovamente vita nella vostra storia. La buona notizia che pur si è compiuta insuperabilmente in Gesù, non ci è proposta perché si resti lì a contemplarla, o a raccontarcela come una favola, ma perché, attraverso noi e quanti altri vi si dispongano, si moltiplichi e si diffonda, fino a raggiungere “tutte le nazioni”. Ora, non è responsabilità da poco farsi carico dell’evangelizzazione, a partire da dentro di casa. Ad ogni passo, infatti, noi siamo giudicati dalla Parola-che-salva, che ci è stata affidata: siamo noi questa Parola che accoglie, aiuta, libera, conforta, salva, perdona, o siamo invece parola vuota, o carica di indifferenza, di disprezzo, di risentimento, di odio?

Il nostro calendario ci porta la memoria di Sergio di Radonež, patriarca dei monaci della Russia ortodossa, di Néstor Paz Zamora, martire in Bolivia, e di Penny Lernoux, giornalista in difesa dei poveri in America Latina.

Bartolomeo, questo era il suo nome di battesimo, era nato il 3 maggio del 1313, a Rostov Vielikij (Russia). Da piccolo, con tutta la buona volontà, non gli riusciva proprio di imparare a leggere. Finché un giorno incontrò un monaco. E gli confidò il suo cruccio piangendo. Quello allora lo benedisse, gli diede un po’ di pane e gli disse: Va con Dio. Da allora fu tutto più facile. Quando ebbe poco più di vent’anni, decise di ritirarsi con il fratello Stefano in una foresta, non lontano dal villaggio di Radonez, nei pressi di Mosca, dove qualche anno prima la famiglia si era trasferita. Costruì una cappella dedicata alla Trinità, dove il 7 ottobre del 1337 ricevette l’abito monastico, assumendo il nome Sergio. Nonostante la solitudine, i disagi e i pericoli della vita nella foresta, giunsero presto altri uomini, desiderosi di imitarne l´esempio che, pochi anni più tardi lo vollero come loro igùmeno (abate). In breve la Comunità monastica crebbe in modo considerevole e Sergio seppe guidarla con grande umiltà ma anche con fermezza. Fondò molti altri monasteri e la sua fama si diffuse moltissimo. Tipico santo contadino, alieno da ogni intellettualismo, era semplice, umile, serio e gentile e visse una vita di preghiera, digiuno e lavoro. Insegnò ai suoi monaci che la fuga dal mondo e dalla sua logica non esimeva, ma, al contrario, imponeva spirito di servizio e aiuto concreto nei confronti del prossimo, oltre che la pratica rigorosa della povertà, a livello personale e comunitario. Pochi mesi prima di morire, convocati i suoi monaci, nominò il suo successore. Quando poi sentì vicina la morte, li mandò a chiamare, diede loro le ultime istruzioni spirituali, ricevette i sacramenti e, sollevate le mani al cielo, rese l’anima a Dio. Era il 25 settembre del 1392 (corrispondente nel calendario gregoriano all’8 ottobre).

Le poche notizie che disponiamo su Néstor Paz Zamora le ricaviamo dal Martirologio latino-americano. Figlio di un generale boliviano, Néstor era stato per alcuni anni in seminario, dove aveva compiuto i suoi studi di teologia. Uscitone, si era legato alle comunità di Charles de Foucauld, di cui sentiva di condividere profondamente la spiritualità. Era studente di medicina all’Università, quando decise di unirsi alla guerriglia di Teoponte, in cui sarebbe morto di stenti, poco dopo, l’8 ottobre 1970. Tutta la sua esperienza di cristiano mistico e militante è mirabilmente contenuta nelle pagine del Diario che dedicò alla moglie Cecy. Da esso traspare il significato trascendente e sempre valido che Néstor leggeva nella sua lotta per la “terra nuova”, dove l’amore fosse la legge fondamentale. Il 12 agosto scrisse: “Sono un lievito che lavora continuativamente. Questa è almeno la sensazione che ho. Una grande pace e una grande tranquillità mi invadono. Sto ‘vitalmente’ passando dall’idea della ‘morte’ come diminuzione all’idea della ‘morte’ come pienezza e passo ad una nuova dimensione. Non la cerco, ma, se venisse, l’aspetterei con la serenità e la tranquillità che merita un tale momento, e persino le chiederei che li avvisasse che sono passato al Padre, che il ‘vieni, Signore Gesù’ è diventato realtà in me”.

Penny Lernoux era nata il 6 gennaio 1940 in un’agiata famiglia cattolica della California. Al termine di un brillante corso di studi universitari, era diventata giornalista, recandosi a lavorare, dal 1961, in America Latina, e fissando la sua residenza dapprima a Rio de Janeiro, poi a Bogotà e Caracas e, infine, nuovamente a Bogotà. A partire dal 1974 operò come scrittrice freelance. Sposata e madre di una figlia, da subito percepì l’estremo contrasto esistente tra la ricchezza di politici, latifondisti e uomini di affari latinoamericani, da un lato, e la povertà delle masse della regione, dall’altro. Affascinata dalla proposta radicale del Vangelo, si avvicinò alle comunità cristiane di base e si interessò da vicino alla teologia della liberazione, che ne facevano lo strumento per interpretare e cambiare una realtà, caratterizzata da un violento sfruttamento economico e da brutali regimi dittatoriali. Fu per molti anni corrispondente del National Catholic Reporter, oltre a scrivere per altre testate e pubblicare numerosi libri. Colpita da un tumore ai polmoni, due settimane prima della morte, consapevole della gravità del suo stato, confessava: “Mi sento come se stessi scendendo per un nuovo sentiero. Non è una paura fisica o la paura della morte, perché i poveri dell’America Latina, con il loro coraggio, mi hanno insegnato una teologia della vita che, attraverso la solidarietà e la nostra lotta comune, trascende la morte. È piuttosto una sensazione di impotenza – ed io che ho sempre voluto essere campione dei poveri mi ritrovo proprio come impotente – e, anch’io, devo tendere la mia scodella da mendicante; devo imparare – sto imparando – l’estrema impotenza di Cristo. È un’esperienza purificante. Quante cose sembrano ora meno importanti, specialmete le ambizioni”. Morì l’8 ottobre 1989. Aveva lasciato scritto: “Tu puoi anche guardare una favela o un villaggio contadino… ma è soltando entrando in quel mondo – e vivendoci – che comincerai a capire cosa significa essere senza potere, essere come Cristo”.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Lettera ai Galati, cap.3, 22-29; Salmo 105; Vangelo di Luca, cap.11, 27-28.

La preghiera del Sabato è in comunione con le comunità ebraiche della diaspora e di Eretz Israel.

È tutto per stasera. Non abbiamo testi di Sergio di Radonež. Scegliamo così, nel congedarci, come già in passato, di offrirvi un brano che ci pare rifletta bene la spiritualità di cui il monaco russo è una delle più alte espressioni. Sono le parole che Fëdor Dostoevskij mette sulla bocca dello staretz Zosima in quello che è il suo capolavoro, “I fratelli Karamazov” (Garzanti). Ed è questo, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Amici miei, chiedete a Dio di essere allegri. Siate allegri come i bambini, come gli uccellini del cielo. E non permettete che il peccato degli uomini confonda le vostre azioni, non abbiate paura che logori il vostro operato e ne impedisca la realizzazione, non dite: “Il peccato è potente, la disonestà è potente, potente è l’ambiente del male, mentre noi siamo deboli e soli, l’ambiente malefico ci sta logorando e ci impedisce di realizzare le nostre buone azioni”. Fuggite, figli miei, fuggite da questa afflizione! C’è solo un modo per salvarsi: renditi responsabile di tutti i peccati degli uomini. È proprio così, amico mio, giacché non appena ti considererai sinceramente colpevole di tutto e per tutti, ti accorgerai immediatamente che quella è la verità: tu sei davvero colpevole per tutti e per tutto. Invece, riversando la tua indolenza e la tua impotenza sugli altri, finirai per condividere l’orgoglio di Satana e mormorerai contro Dio. A proposito dell’orgoglio di Satana, penso che sia difficile per noi sulla terra comprenderlo, e quindi è facile cadere in fallo e condividerlo, persino nella convinzione di fare qualcosa di nobile e bello. In realtà noi non siamo in grado di comprendere molti dei sentimenti e dei movimenti più forti della nostra natura fino a quando ci troviamo sulla terra; ma non lasciarti tentare da questo e non pensare che questo possa in qualche modo giustificarti, giacché il Giudice Eterno pretenderà da te quello che tu puoi comprendere e non quello che non puoi comprendere, te ne convincerai da solo, giacché allora vedrai ogni cosa nella giusta luce e non metterai più nulla in discussione. In realtà è come se sulla terra noi tutti errassimo senza meta, e se non fosse per la preziosa immagine di Cristo che è davanti a noi, saremmo rovinati e perduti del tutto, come il genere umano prima del diluvio. Molte cose sulla terra ci sono nascoste, ma in compenso ci è stato donato un misterioso, recondito senso del nostro vivido legame con un altro mondo, un mondo superiore, celeste, e le radici dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti non sono qui, ma in altri mondi. Ecco perché i filosofi asseriscono che è impossibile concepire l’essenza delle cose sulla terra. Dio prese i semi da altri mondi e li seminò su questa terra, il suo giardino crebbe e tutto quello che poteva germogliare germogliò, ma ciò che è cresciuto vive ed è vivo esclusivamente in virtù di quel senso di contatto che avverte con gli altri mondi misteriosi. Se questo senso si indebolisce o scompare in te, morirà anche ciò che è cresciuto in te. Allora diventerai indifferente alla vita e comincerai persino a odiarla. (Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 08 Ottobre 2016ultima modifica: 2016-10-08T22:37:12+02:00da fraternidade
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