Giorno per giorno – 21 Maggio 2016

Carissimi,
“Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso” (Mc 10, 14-15). Ai bambini, come ai poveri, appartiene, dice Gesù, il regno di Dio. Dato che Dio può regnare solo dove lo si lascia entrare, può entrare solo dove c’è spazio per lui, dove il cuore, la mente, la vita, non sono presi da altri interessi, da altre preoccupazioni. Come appunto succede con i bambini e con i poveri. Stasera, quindi, noi si era proprio a casa del regno di Dio, dato che ci siamo trovati da dona Josefa e dona Luisa, sempre più indebolite dai molti acciacchi, ma che riescono a non perdere quel sorriso, che dice la certezza di una presenza che è loro compagna da sempre. “Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino”. Ma cosa caratterizza il bambino nel suo affacciarsi al mondo delle relazioni umane, dato che il regno di Dio è con questo che ha a che vedere? Il bambino si fida (di chi si fida) e si lascia condurre per mano. O, anche, azzarda ad andare da solo, se sa che c’è uno sguardo amoroso che lo segue. Va alla conquista del [suo] mondo. Avanza con circospezione, ma, qualche volta, anche con imprudenza. E al buon Dio deve piacere quella ma anche questa, con gli inevitabili ruzzoloni, cadute e ammaccature che spesso comporta. Presto dimenticate, tutte. Tutto, per un bambino, è come un gioco, un’avventura, di cui non sa come sarà il finale, ma nutre però la speranza (che poi è anche la fede) che finirà bene. Sempre tra le braccia della madre o del padre. E nei rapporti con gli altri che partecipano al gioco, si diverte a costruire il mondo, e, qualche volta ingaggia battaglie, dichiara guerra, ma solo per poco, perché presto arriva di nuovo la pace. E, anche in questo caso, si dimenticano subito le ragioni di divisione e di diverbio, non si sa cosa sia il rancore, né si nutrono propositi di vendetta. Infine, il bambino cresce, anche senza rendersene conto (finché non si rende conto), si lascia alimentare, acquista fermezza sulle gambe, sa che sta per arrivare il momento di procedere da solo (solo apparentemente da solo, se ha appreso la lezione). Diventare come la figura del padre (della madre) che si porta dentro. Eroe (eroina) del gioco della vita. Queste sono alcune delle cose che ci siamo detti caratterizzare i bambini. E questo dovrebbe essere ciò che caratterizza noi e le nostre comunità e le chiese, se vogliamo essere sacramento del regno, cioè uno spazio in cui Dio si possa specchiare e riposare, fiducioso, questa volta, Lui di noi.

Oggi la comunità fa memoria di Christian de Chergé e gli altri Monaci trappisti, martiri a Tibhirine, in Algeria, e Irene McCormack e compagni, martiri in Perù.

Christian de Chergé era priore del Monastero trappista di Nostra Signora dell’Atlante, che sorge nei pressi di Tibhirine, in Algeria. Lui e i gli altri monaci furono sequestrati la notte tra il 27 e il 28 marzo 1996. Christian era nato il 18 gennaio 1937 a Colmar ed era monaco dal 1969. Gli altri erano: Luc Dochier, nato il 31 gennaio 1914 à Bourg-le-Péage, monaco dal 1941; Christophe Lebreton, nato l’11 ottobre 1950 a Blois, monaco dal 1974; Bruno Lemarchand, nato il 1º Marzo 1930 a Saint-Maixent, monaco dal 1981; Michel Fleury, nato il 21 maggio 1944 a Sainte-Anne, monaco dal 1981; Célestin Ringeard, nato il 27 luglio 1933 a Touvois, monaco dal 1983, Paul Favre-Miville, nato il 17 aprile 1939 a Vinzier, monaco dal 1984. Il loro sequestro fu rivendicato dal G.I.A (Gruppo Islamico Armato), con un comunicato che porta la data del 18 aprile. Con un un secondo comunicato del 23 maggio, il gruppo comunicava che i monaci erano stati decapitati il 21 maggio. Di loro, come atto di supremo sfregio, furono fatte ritrovare solo le teste. I funerali furono celebrati il 2 giugno e le teste dei monaci furono sepolte nel terreno del loro monastero due giorni dopo. Amici della popolazione islamica tra cui avevano scelto di vivere, presenza credente e orante in mezzo ad altri credenti e oranti, avevano voluto restare lì, per essere “oscuri testimoni di una speranza”, anche dopo essere stati ripetutamente avvisati che la loro permanenza era a rischio. Dovevano restare, perché “il monaco – come diceva Chesterton, citato da Christian – è come un albero, sta lì e purifica l’atmosfera”. Con altri amici musulmani, i monaci avevano creato il Ribat-es-Salam, il Vincolo-di-Pace, che si riuniva periodicamente per approfondire la conoscenza delle rispettive fedi: il primo passo in direzione – o già sua espressione – dell’amore. Profezia, forse, del nostro domani.

Irene McCormack era nata il 21 agosto 1938, a Kununoppin, nell’Australia occidentale, e aveva trascorso l’infanzia e l’adolescenza in una fattoria, studiando in un collegio di suore. Poi, nel 1957, aveva scelto di essere lei stessa religiosa tra le suore di san Giuseppe. Dopo molti anni di insegnamento in Australia, nel 1987 era stata mandata in Perù, in un piccolo villaggio sulle Ande, Huasahuasi. Non era uno scherzo vivere lì, in quegli anni, sotto la minaccia di un gruppo terrorista come Sendero Luminoso, che giudicava più pericolosi coloro che aiutavano i poveri di coloro che li opprimevano. E, coerentemente, li facevano fuori. Anche Irene avrebbe potuto scegliere di andarsene, ma preferì restare. La sera del 21 maggio 1991, giunse nel villaggio una banda di terroristi, secondo i testimoni, tutti giovanissimi ed evidentemente drogati. Presero la suora e quattro uomini, tre cattolici e un evangelico, e nella piazza centrale improvvisarono un processo farsa, accusandoli di essere al soldo degli yankee imperialisti e di gestire i fondi della Caritas, una forma di aiuto ai poveri che loro non tolleravano. I quattro furono condannati a morte come nemici del popolo. Gettati a terra, furono liquidati, uno dopo l’altro, con un colpo a bruciapelo sparato alla testa. Irene fu sepolta a Huasahuasi, secondo il suo espresso desiderio. Ogni mattina, al risveglio soleva dire questa preghiera: O Dio, mio Padre, tu mi ami e mi perdoni, così OGGI io accetto tutto come un dono e chiedo di trovare te, il Signore Donatore, nel dono. Scelgo di affrontare la vita senza paura e di vivere con cuore indiviso ogni momento presente. Possa il mio cuore cantare oggi un canto di ringraziamento riconoscente e di lode. Io sono un’opera d’arte di Dio. Sono preziosa al suo sguardo!”.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Lettera di Giacomo, cap. 5, 13-20; Salmo 141; Vangelo di Marco, cap.10, 13-16.

La preghiera del sabato è in comunione con le comunità ebraiche della diaspora e di Eretz Israel.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura il brano di un’omelia di Christian de Chergé, tenuta a Tamié il 27 aprile 1995, giovedì della seconda settimana di Pasqua, pubblicata nel libro “Più forti dell’odio” (Edizioni Qiqajon Comunità di Bose). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
L’ambiente trinitario è “scuola” di contemplazione, alla sequela del Figlio eternamente rivolto verso il Padre; è proprio questa la sua forma di obbedienza (cf Is prima lettura): Dio che obbedisce a Dio. E il Padre stesso non è che sguardo: “Vede – vide – che tutto era buono”. Cuore puro del Padre che vede Dio in tutto! In tutti…. L’ambiente trinitario è anche “scuola” di carità, certo, scuola di comunione, di comunicazione, di relazioni. “Il Padre ama il Figlio, e gli dona lo Spirito, senza calcoli…”. Quella carità non è l’unione fusionale di cui certuni sognano: ciascuno in essa resta se stesso, nella meraviglia di una comunità di persone liberamente e totalmente accordate. Meravigliosa ricchezza di ogni nostra comunità!… Quella carità non è nemmeno una semplice unità superficiale. C’è forse della “marmellata” in Dio – è l’opera dello Spirito! – ma mai da sola. San Giovanni ci dice soprattutto che in Dio c’è pane: e più sostanzioso! Quello che cerchiamo tra noi, nelle nostre comunità, non è a fior di pelle, e nemmeno a fior di cuore. Finiamo per sapere che questa realtà ci coglie nel profondo! Così è possibile la contemplazione solo là dove c’è apertura alla comunità di vita, alla comunione, all’intera famiglia umana… E c’è comunità possibile solo là dove c’è disponibilità alla contemplazione delle meraviglie di Dio nascoste in ciascuno, dei segni dell’Unico che vengono scritti nei nostri volti come altrettante differenze promesse alla comunione dei santi. Anche se è ancora necessario, per un po’ di tempo, che questo sia per noi difficile da vedere”. (Frère Christian de Chergé, Più forti dell’odio).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 21 Maggio 2016ultima modifica: 2016-05-21T22:30:08+02:00da fraternidade
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