Giorno per giorno – 03 Ottobre 2015

Carissimi,
“Io vedevo satana cadere dal cielo come la folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra i serpenti e gli scorpioni e sopra ogni potenza del nemico; nulla vi potrà danneggiare. Non rallegratevi però perché i demoni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli” (Lc 10, 18-20). È ciò che Gesù dice ai discepoli al loro ritorno dalla missione, quando pieni di entusiasmo gli raccontano dei loro successi. Che non sarà sempre così, pare potersi dedurre dalla parola di Gesù: “Non rallegratevi di questo. Rallegratevi di altro”. Qualche volta, infatti, i demoni sembreranno avere la meglio, e serpenti e scorpioni faranno sentire il loro morso e la storia conoscerà sviluppi tortuosi e imprevedibili. E tuttavia, l’invito continua ad essere: rallegratevi! Ma, solo perché i vostri nomi, con la vicenda umana che essi designano, fanno già parte della storia di Dio (di cui i “cieli” menzionati nel passo sono sinonimo). E questa storia, noi lo abbiamo anche più chiaro dei discepoli di allora, che non avevevano ancora visto cosa sarebbe successo al loro Maestro, è una storia ogni volta di passione, morte e risurrezione. In cui noi possiamo scegliere la nostra parte: se essere cioè sostenitori di Dio, a servizio delle forze del bene, cioè della vita, dell’amore, dell’accoglienza, della condivisione, del perdono, o spenderci come suoi avversari, complici del “divisore”, il principe di questo mondo, il sistema che disumanizza le relazioni, crea catene di sfruttamento, fomenta tutte le possibili forme di egoismo. Nel primo caso, quale che sia la situazione in cui possiamo trovarci, conosceremmo la gioia, vera profonda, determinata dal fatto di partecipare della vita di chi ne è la unica, più vera sorgente; nel secondo, anche se ci lasciassimo vincere dall’ebbrezza del successo, ne scopriremmo, prima o poi, l’assoluta inconsistenza e la tristezza che finirebbe per invadere e inquinare la nostra vita. Condizione, forse, per il nostro pentimento e ritorno a Lui. Ora, noi, guardando con onestà al nostro vissuto, dove possiamo situarci in questo panorama?

Oggi facciamo memoria di George Allen Kennedy Bell, pastore e testimone di ecumenismo, di Maria Magdalena Enriquez, difensora dei diritti dei poveri e martire in El Salvador, e di Antonio Bargiggia, fratello dei poveri, martire in Burundi.

George Allen Kennedy Bell era nato il 4 febbraio 1883 a Hayling Island, nello Hampshire (Inghilterra), maggiore dei figli di Sarah Georgina Megaw e di suo marito James Allen Bell. Dopo gli studi teologici a Oxford, Bell fu ordinato diacono, nel 1907, e presbitero, nel 1908. Nei tre anni che seguirono si dedicò alla cura pastorale di una parrocchia alla periferia di Leed, dove un terzo della popolazione era costituito da immigrati indiani e africani, provenienti dalle diverse regioni dell’Impero britannico. In questa attività ebbe modo di collaborare e di apprendere molto dai metodisti, di cui ammirava la capacità di coniugare fede e impegno sociale. Nel 1914 fu nominato, dapprima, cappellano dell’arcivescovo Randall Davidson, primate d’Inghilterra, poi, nel 1925, decano di Canterbury e, nel 1929, vescovo di Chichester. Dal 1932-34 fu primo presidente di “Vita e Azione”, quando questo movimento confluì nel Consiglio Ecumenico delle Chiese. All’avvento del nazismo, divenne il più importante sostenitore della “Chiesa Confessante” che, in Germania, si opponeva risolutamente all’ideologia hitleriana, denunciando come eretiche le posizioni assunte da settori consistenti della Chiesa Evangelica Tedesca in appoggio alla politica del Fuhrer. In questi anni, Bell strinse amicizia con Dietrich Bonhoeffer, Nathan Söderblom e Wilhelm Visser’t Hooft, ponendo le basi per il cammino di riavvicinamento tra le chiese che ebbe luogo alla fine della seconda guerra mondiale. Negli anni ’50, fu avversario della corsa al riarmo atomico, e appoggiò numerose iniziative contro la Guerra Fredda. I suoi contatti ecumenici lo portarono a stringere amicizia con l’arcivescovo di Milano, Montini, che in seguito sarebbe divenuto papa Paolo VI. Bell morì il 3 Ottobre 1958. Aveva dedicato la sua ultima omelia a commentare la parola di Gesù che dice: “Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Lc 17, 10).

Di Maria Magdalena Enriquez, sappiamo solo che apparteneva alla Chiesa Battista e lavorava a tempo pieno alla “Commissione per i diritti umani”, creata a San Salvador, nell’aprile del 1978, con il compito di coordinare le difese dei prigionieri politici e raccogliere prove e testimonianze sulle sempre più gravi e diffuse violazioni dei diritti umani. Magdalena riceveva le persone per le denunce, raccoglieva la documentazione in merito, teneva i contatti con le autorità e con la Chiesa. Il 3 ottobre 1980 venne rapita e uccisa. Il suo cadavere fu ritrovato alcuni giorni dopo sepolto vicino al mare, a oriente della città e del porto.

Antonio Bargiggia era nato a Milano il 21 giugno 1958, e nel 1979 era andato in Africa, a lavorare come volontario in una missione del Burundi. Ritornato in Italia, maturò la decisione di dedicare tutta la sua vita ai poveri. Entrò così tra i “Fratelli dei poveri”, una famiglia religiosa di laici consacrati che opera in Burundi. Per vent’anni, fratel Antonio lavorò nella bidonville di Buterere, nella periferia più povera di Bujumbura, capitale del Burundi. Viveva, povero come i suoi vicini, in una baracca senza luce e senza acqua, con un suo fratello burundese, volendo bene e rendendosi disponibile a tutti, in qualunque ora del giorno o della notte, quale ne fosse l’etnia, hutu o tutsi, o la religione. Pochi mesi prima di morire, aveva scritto: “Abbiamo molti vicini, quasi tutti musulmani; andiamo d’accordo e ci aiutiamo gli uni con gli altri”. La mattina del 3 ottobre 2000, quattro uomini armati, due in divisa militare e due con abiti civili, bloccarono l’automezzo su cui stava viaggiando e lo uccisero, sparandogli a bruciapelo al volto, a Kibimba. Gli rubarono l’orologio e i sandali e abbandonarono il suo corpo per strada, portandosi via l’auto con il materiale che stava trasportando. Rintracciati poco dopo, furono nei giorni seguenti processati e condannati: l’esecutore materiale alla pena capitale, due complici all’ergastolo e l’autista a venti anni di detenzione. Il giorno prima dell’esecuzione, l’assassino fece chiamare il cappellano del carcere, l’abbé Gakona, per esprimere il suo pentimento e chiedere perdono del suo gesto. Restarono a parlare a lungo, il prete gli parlò di Gesù e della buona notizia dell’amore che Dio ha per gli ultimi e della festa che fa per quanti si convertono da una vita sbagliata. Alla fine del colloquio, il giovane chiese e ottenne di essere battezzato e il giorno dopo affrontò con grande serenità d’animo l’esecuzione della condanna.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro di Baruc, cap.4, 5-12. 27-29; Salmo 69; Vangelo di Luca, cap.10, 17-24.

La preghiera del Sabato è in comunione con le Comunità ebraiche della diaspora e di Eretz Israel.

Prendendo spunto dalla memoria di Maria Magdalena Enriquez, vi offriamo, nel congedarci, un brano del teologo Jon Sobrino, tratto dal suo libro “Tracce per una nuova spiritualità” (Borla), che rilegge, applicandola alle tragedia del suo popolo, la riflessione di Gustavo Gutiérrez svolta nel libro “Bere al proprio pozzo” edito in Italia dalla Queriniana. Ed è questo, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Il martirio cristiano esprime una morte molto più generalizzata, strutturale e lenta, ma reale, di interi popoli crocifissi, e morte violenta di chi difende il diritto dei poveri. Non si può quindi scordare “la crudeltà che circonda questo fatto, e, pertanto il rifiuto che devono produrre le condizioni che danno luogo a tali assassinii”. Alcuni temono persino che l’enfasi sull’aspetto martiriale introduca nella fede cristiana un “dolorismo” contrario al suo ultimo fondamento e alla sua ultima meta: la risurrezione. Ma il martirio continua ad essere una realtà il cui fatto non si può negare, come l’originaria esigenza di dare la propria vita per la vita dei poveri; quando esso, di fatto, si presenta, allora appaiono anche gli uomini spirituali, quelli liberi per amare, quelli che “danno la vita per la fede nel Dio della vita, e il loro amore verso i poveri e i vesssati”. Allora si verifica anche un fatto non programmabile, ben superiore al risultato del movimento compensatorio o al far di necessità virtù: sorgono la gioia pasquale e la speranza basata sulla testimonianza di chi ha saputo dare la propria vita”. La gioia non è allegria incosciente, né la speranza ottimismo a buon mercato. Entrambe si producono perché i martiri creano il vero clima di amore, esemplificato da loro stessi e da loro infuso in altri. E in questo clima sorge il profondo convincimento che la morte non ha l’ultima parola, anche se occorre attraversarla perché la vita sorga. Nel modo scandaloso in cui appare nel servo di Yahvé e nelle prime comunità cristiane, il cui destino è la persecuzione, sorgono ripetutamente la pasqua e l’esperienza pasquale: “volontà di vita per tutti, partendo dalla gioia, dopo l’esperienza del dolore e della morte”. (Jon Sobrino, Tracce per una nuova spiritualità).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 03 Ottobre 2015ultima modifica: 2015-10-03T22:06:19+02:00da fraternidade
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