Giorno per giorno – 16 Ottobre 2014

Carissimi,
“Per questo la sapienza di Dio ha detto: Manderò loro profeti e apostoli ed essi li uccideranno e perseguiteranno, perché a questa generazione sia chiesto conto del sangue di tutti i profeti, versato fin dall’inizio del mondo: dal sangue di Abele fino al sangue di Zaccarìa, che fu ucciso tra l’altare e il santuario. Sì, io vi dico, ne sarà chiesto conto a questa generazione”(Lc 11, 49-50). Il contesto è sempre quello della discussione innescata da Gesù a tavola, che, per quanto poco verosimile (non a caso Matteo ne offre uno diverso), ci aiuta a interrogarci sulla nostra partecipazione alla mensa eucaristica e sulle conseguenze che essa ha, oppure no, nella nostra vita. Nel brano evangelico, Gesù si rivolge, come abbiamo già visto, a farisei e a studiosi della Legge, presi come espressioni di una scelta religiosa che privilegia, come a prima vista appare ovvio, l’osservanza dei precetti e lo studio che le è di aiuto. Così, anche senza averne proprio i titoli, ci siamo dentro ugualmente un po’ tutti, e Gesù si rivolge allora anche a noi. Dio, dall’evento originario (che magari il catechismo ci ha fatto dimenticare), da quando cioè ha scelto di rivelarsi – e di rivelarsi in “quel” modo: il Dio che ha compassione del popolo che soffre e decide di liberarlo – non ha mai smesso di mandare i suoi profeti a rinfrescare la memoria ai suoi. Scontando il fatto che sempre c’è stato e, presumibilmente, ci sarà, chi non gradisce questo annuncio. Sicché, facilmente, i sistemi di potere che il mondo si dà decidono spesso di fare dei profeti dei martiri. E, in seguito, dei martiri, dei santi o comunque degli eroi. A cui si erigono monumenti, templi, o gli si rende omaggio con le risorse di volta in volta offerte dal genio, l’arte, la retorica umana. Succede nelle chiese, ma, spesso, anche sul piano della storia civile. Solo che il rischio è di farne dei contenitori vuoti, che ci portano a dimenticare l’essenziale, il fondamento, ciò che loro erano stati inviati a richiamare. Cosa significa per noi l’eucaristia? Ha davvero un senso condividere il pane di Gesù, il Pane che è Gesù? Riusciamo a fare di ciò che Lui è stato il significato della nostra vita, tendenzialmente il nostro stesso modo di agire? Ce lo chiedevamo, stasera, a casa di Maria Augusta, dove, in molti delle tre comunità vicine del bairro, ci siamo ritrovati proprio per celebrare l’eucaristia. Che non può ridursi, mai, a pena di svuotarsi, ad un gesto semplicemente religioso, incapace di condizionare le nostre scelte, nel quotidiano e negli appuntamenti che ci chiamano a decidere sulle sorti del nostro Paese (e non solo) – come in questi ultimi giorni della campagna elettorale che stiamo vivendo. Non per farne una battaglia astrattamente ideologica, né, meno che meno, per conquistare spazi di privilegio o di potere, per una qualche parte politica, ma per fare nostro il significato di ciò che celebriamo, e ciò per cui hanno dato la vita, anche in tempi recenti, i nostri martiri: vita e vita piena per tutti. E decidere conseguentemente.

Il calendario ci porta oggi la memoria di Rabbi Nachman di Bretzlav, mistico ebreo, e di Agostino Thevarparampil, piccolo prete al servizio dei dalit, gli intoccabili.

Rabbi Nachman di Bretzlav, pronipote del famoso Baal Shem Tov, nacque il 4 aprile 1772 a Medzibor, e fu un alunno piuttosto distratto e svogliato. Sposatosi poco più che ragazzo, visse, da giovane, una fase di rigoroso ascetismo, rifuggendo da ogni piacere, praticando il digiuno e concentrando tutta la sua attenzione sul solo Nome di Dio. Riuscendo tuttavia a fare tutto ciò con genuina e profonda allegria dello spirito. Ben presto, la fama della sua santità gli attirò schiere di discepoli. Innamorato della natura, insegnava loro a contemplare Dio nella bellezza del creato e diceva: “Quando pregate nei campi, è tutto il mondo delle piante che viene in vostro aiuto e dá forza alle vostre preghiere” e ancora: “Venite, e vi mostrerò una nuova strada verso il Creatore. Non attraverso la parola, ma attraverso il canto! Cantiamo, e il Cielo ci comprenderà!”. Ma ammoniva anche: “Bada bene che tu sei là dove sono i tuoi pensieri. Fai attenzione che i tuoi pensieri siano dove tu vuoi essere”. Uno degli elementi centrali del suo insegnamento, era l’insistenza sul bisogno di essere sempre contenti, di non lasciarsi mai abbattere, di non avere mai paura. Spiegava che l’unico vero peccato è la tristezza e lo scoraggiamento che gelano il cuore di una persona che ha commesso un’infrazione morale o alla quale è successo qualcosa di brutto. La depressione è la radice di ogni peccato successivo, in quanto convince la persona di non essere capace di allontanarsi dalla falsa strada, di non essere capace di fare altro che errori, di non meritare nulla se non disgrazie e punizioni. Nel 1798, dopo un breve viaggio in terra d’Israele, si stabilì a Bretzlav, dove il suo insegnamento gli procurò la simpatia della gente più semplice, che egli invitava a servire Dio con la fede innocente dei bambini, ma anche l’avversione di numerosi altri rabbini. Amareggiato da tali dispute, si trasferì a Uman, dove, l’anno seguente, durante la festa di Sukkot, il 18 Tishri 5571 (16 ottobre 1810), morì di tubercolosi, all’età di 38 anni, senza nominare un successore. Il suo insegnamento e la sua figura, lungi dall’essere dimenticati, continuarono a ispirare le successive generazioni e, ancora oggi, migliaia di pellegrini si recano ogni anno sulla sua tomba a Uman.

Agostino Thevarparampil era nato a Ramapuram, nello stato indiano del Kerala, il l° aprile 1891. Terminati gli studi, era entrato in seminario e fu ordinato sacerdote il 17 dicembre 1921. Da allora il suo nome sarebbe stato solo Kunjachan, che nella lingua malayam significa “piccolo prete”, a causa della sua bassa statura. Dopo un breve periodo in cura d’anime a Kadanad, nel marzo 1926 fece ritorno a Ramapuram. Qui venne a contatto con il mondo degli ‘intoccabili’, gli appartenenti alle classi sociali più basse, quelli che Gandhi chiamava Harijan, figli di Dio, che oggi vengono detti Dalit. Agostino decise di dedicare la sua vita per migliorare le loro condizioni e per evangelizzarli. Uomo di preghiera, amante della vita semplice e povera della sua gente, visse in mezzo a loro per quasi mezzo secolo, morendo, dopo una grave malattia, il 16 Ottobre 1973.

I testi che la liturgia odierna porpone alla nostra riflessione sono tratti da:
Lettera agli Efesini, cap.1, 1-10; Salmo 98; Vangelo di Luca, cap.11, 47-54.

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali dei popoli indigeni.

Oggi si celebra la Giornata mondiale dell’Alimentazione, con cui la FAO (Food and Agriculture Organisation) ricorda, ogni anno, la data della sua fondazione, avvenuta il 16 ottobre 1945. Vuole richiamare la nostra attenzione sul dramma della fame, della denutrizione, della sottoalimentazione e delle malattie che ne derivano. Le stime più recenti portano il numero di persone che soffrono la fame a circa 935 milioni. Diversi studi indicano che la fame nel mondo non è determinata dall’aumento della popolazione, né da un’insufficienza nella produzione di alimenti, dato che il processo della modernizzazione agricola, conosciuto come la Rivoluzione Verde, ha permesso un aumento dell’offerta mondiale di alimenti pro capite. Il grande problema della fame è conseguenza invece dell’aumento dei prezzi dei prodotti agricoli e del basso reddito di ampie fasce della popolazione.

“C’era il coprifuoco per tutta Roma, e una bella notte, eravamo a casa, saranno state le tre o le quattro del mattino, quando si cominciò a sentire un rumore, un vociare. Nel ghetto dove abitavamo, i palazzi si affacciavano su una via lunga e stretta, così sporgendosi dalla finestra mio padre vide molte famiglie ebree scendere in strada coi tedeschi. Venivano portati via. La gente usciva anche dal nostro portone, presto ci rendemmo conto di quello che stava succedendo: i tedeschi stavano portando via tutti. La nostra casa era grandissima, c’erano quattro stanze, i soffitti alti, erano belle, bellissime case, e grandi, c’erano poi due stanze, delle quali una entrava dentro l’altra, per cui pensammo di metterci tutti in quest’ultima stanza, lasciando tutto aperto, così se i tedeschi entravano avrebbero visto una casa vuota, disabitata. E così abbiamo fatto. Ma a quel punto mia sorella, la più piccola, mentre noi stavamo dietro le persiane a guardare quello che succedeva, presa dal panico è scappata, è scesa giù (abitavamo al terzo piano), e all’ultima rampa di scale, prima di uscire, trovandosi due tedeschi davanti, ha avuto paura ed è tornata indietro verso di noi. Questi l’hanno seguita, e così ci hanno trovato”. È il ricordo che Settimia Spizzichino ci ha lasciato di “quella mattina” del 16 ottobre 1943, quando, alle cinque e trenta, ebbe inizio il Rastrellamento degli ebrei di Roma ad opera delle truppe naziste. Dei 1024 ebrei, uomini, donne, vecchi, ragazzi, bambini, inviati ad Auschwitz, solo 16 sopravvissero, di cui un’unica donna, Settimia Spizzichino, appunto. Nessuno degli oltre 200 bambini. Sarà bene ricordarsene, se è vero com’è vero che “Non c’è futuro senza memoria. Coloro che non hanno memoria del passato sono destinati a ripeterlo”.

“L’ottavo giorno terrete la santa convocazione e offrirete al Signore sacrifici consumati con il fuoco. È giorno di riunione; non farete alcun lavoro servile” (Lv 23, 36). Per i nostri fratelli ebrei oggi, 22 di Tishri, è Sheminì ‘Atzeret (l’ottavo [giorno] dell’adunanza). In Israele coincide con la Festa di Simchat Torah (la Gioia della Legge), che, nelle comunità della diaspora è invece celebrata domani. In questo giorno durante il Mussaf, l’ufficio supplementare previsto dalla Bibbia per i sabati e le feste, viene introdotta la preghiera per la pioggia, che sarà ripetuta tutti i giorni, fino a Pasqua, nell’Amidà (“in piedi”), la preghiera per eccellenza della liturgia sinagogale. Quanto a Simchat Torah, ci proponiamo di riparlarne domani.

Bene, noi ci si congeda qui, lasciandovi alla lettura di un testo di Rabbi Nachman di Bretzlav, tratto dal suo “Likutei Moharan”, che è, perciò, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Per attirare pienamente la provvidenza di Dio su di noi, è necessario spezzare l’appetito per le ricchezze. Questo risultato si ottiene attraverso la carità. Quando qualcuno distribuisce il suo denaro in beneficenza, si raffredda in lui la brama di accumulare. Egli sbriga i suoi affari in modo veritiero e onesto ed è soddisfatto con quanto la vita gli riserva, ricevendo con piacere e soddisfazione ciò con cui Dio lo ha benedetto. Dal momento che non si affanna a diventare ricco, egli è libero dalla lotta costante di chi mira a sempre nuovi profitti. Il peso di questa lotta è il compimento della maledizione: “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane” (Genesi 3, 19). Quando una persona dona del suo in carità, viene liberato da ciò, ed il suo dono gli viene calcolato come se avesse portato un’offerta di incenso a Dio. (Rabbi Nachman di Bretzlav, Likutey Moharan I, 13).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 16 Ottobre 2014ultima modifica: 2014-10-16T22:47:26+02:00da fraternidade
Reposta per primo quest’articolo