Giorno per giorno – 12 Ottobre 2014

Carissimi,
“Tre giorni dopo, vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: Non hanno vino” (Gv 2, 1-3). Questa domenica, noi abbiamo letture diverse dalle vostre, per via della festa di N. S. Aparecida, patrona del Brasile. E tuttavia, abbiamo ugualmente qualcosa in comune nei vangeli che sono stati proclamati: in entrambi si parla di un banchetto nuziale. Come espressione dell’umanità felice che Dio sogna per noi. E, sempre in entrambi, c’è però qualcosa che viene a mancare: gli invitati, nella parabola di cui avete udito voi (Mt 22, 1-14), e il vino, nel nostro racconto. Riflesso, ambedue, di situazioni che spesso ci capita di vivere: da una parte, l’invito di Dio disatteso, i fedeli della prima ora che se ne allontanano, e, dall’altro, una chiesa – ma anche una vita – tutto sommato triste, senza slanci, entusiasmi, ideali, allegria. Nel primo caso, abbiamo degli invitati che, sapendo o credendo di sapere che cosa li aspetta, nei laboratori del regno del buon Dio, qui sulla terra, preferiscono optare per qualcosa d’altro: il lavoro, gli affari, che procurano almeno qualcosa di molto concreto, fanno aumentare beni e ricchezze. Anche se non spengono l’insoddisfazione di fondo. E, al diavolo, chi insiste a chiamarli! Lo soffocheremo con le nostre ironie. A Cana, cioè, nelle nostre chiese, e nella nostra vita, dove neppure ci ricordiamo più che, delle une e dell’altra, dovremmo fare la festa della presenza di Dio, dove le nostre giare sono secche di vino, ma anche di acqua, ci sarebbe bisogno di qualcuno che alzasse la voce, per dire timidamente, come Maria, quel giorno: Forse ci vorrebbe un po’ di vino in più. Qui, per renderci allegri, in questi tempi di siccità prolungata, basterebbe, a dire il vero, anche solo dell’acqua. E forse, la gente che durante tutta notte, incolonnata, silenziosa o in preghiera, i ragazzi ridendo e scherzando, cammina per dodici chilometri – chi viene da Itaberaì, anche di più – per raggiungere il santuarietto dell’Aparecida, ce l’abbia o meno chiaro in testa, è un po’ più di animo, di allegria, di motivazioni, per affrontare la vita, che viene a chiedere. Certo, poi, il prete, durante l’omelia provvede a spiegare tutta la simbologia che c’è sotto il racconto. Lo hanno già fatto generazioni di esegeti. L’antico testamento e il nuovo, le attese e il compimento, i riti di purificazioni, il battesimo, l’eucaristia, lo Spirito santo, e così vita. E naturalmente, Maria, la madre, che è poi anche la Chiesa. Colei che ci fornisce (e lo fornisce al suo Figliolo) l’orientamento sicuro per far ritrovare alle nostre comunità e alle nostre vite stanche la passione del vivere per un ideale, per una causa. Proprio come in un giorno di nozze, quando si arriva a decidere: la vedi la mia vita? È tutta per te. La vita cristiana dovrebbe essere questo dono per tutti.

In Brasile, oggi, è la festa di N.S. Aparecida, che è chiamata anche la Vergine piccolina, Madre dei Poveri, Patrona del Brasile.

Contrariamente a quello che può far pensare il nome (aparecida = apparsa), non si tratta della storia di un’apparizione mariana. La piccola statua in terracotta della Vergine Madre di Gesù, che è venerata in Brasile con questo titolo, fu trovata da alcuni pescatori nelle acque del fiume Paraíba nell’anno 1717, nell’entroterra dello Stato di São Paulo, a 160 chilometri dalla capitale. Per quasi vent’anni restò custodita, con affetto e devozione, nella casa di uno dei pescatori. Nel 1737 fu deciso di collocarla in una cappella. Più tardi, nel 1745, fu costruita una chiesa, poi una basilica (1888), fino a giungere alla basilica attuale, consacrata nel 1980, meta di pellegrinaggi e luogo di preghiera.

I testi che la liturgia propone alla nostra riflessione sono propri della festività odierna e sono tratti da:
Libro di Ester, cap.5, 1b-2; 7, 2b-3; Salmo 45; Libro dell’Apocalisse, cap.12, 1.5.13a.15-16a; Vangelo di Giovanni, cap.2, 1-11.

La preghiera della Domenica è in comunione con tutte le comunità e le Chiese
cristiane
.

Il nostro calendario ci porta anche la memoria di Elisabeth Fry, quacchera, amica dei carcerati e riformatrice delle prigioni, e di don Luigi di Liegro, prete dalle mani sporche.

Elizabeth Gurney era nata a Norwich, nel Norfolk, in Inghilterra, il 21 maggio 1780, in una famiglia quacchera. Diciottenne, durante un culto della Societa degli Amici, dall’amica Deborah Darby si era sentita rivolgere le parole: “Tu sei nata per essere luce per i ciechi, parola per i muti, piede per gli zoppi”. Ora, lei sapeva che quello non era semplicemente un messaggio della sua amica, ma la voce dello Spirito. Però non sapeva bene come e da dove cominciare. Decise di aprire una scuola domenicale, in casa. Dapprima fu solo per un ragazzino del vicinato, ma presto sarebbe stata una banda di un’ottantina di elementi ad invaderle la casa. La ragazza dava loro da mangiare, vestiti, e gli insegnava a leggere usando la Bibbia. A vent’anni sposò Joseph Fry, banchiere e anche lui quacchero osservante e si trasferì nella sua casa, nei pressi di Londra. Insieme ebbero undici figli, ma lei potè ugualmente diventare predicatrice famosa in seno alla Società. Nel 1812 fu per la prima volta a visitare la prigione femminile di Newgate e ne fu sconvolta. Le detenute vivevano ammucchiate coi loro bambini in piccole celle, dove dormivano sul pavimento, cucinavano da sé quel che potevano e provvedevano al bucato. Cominciò allora a dedicarsi alla missione di alleviare le condizioni di vita di quelle infelici, non solo a Newgate, ma presto in tutto il Paese e più tardi nel resto dell’Europa, sollevando il problema della riforma del sistema penitenziale. Nel frattempo, Elizabeth contribuì a creare un rifugio per i senzatetto, a Londra, fondò un’associazione di volontari con la finalità di visitare i quartieri più poveri, offrendo soluzione ai casi più difficili, aprì una scuola per infermiere, e via di questo passo. Poi, sessantacinquenne, il 12 ottobre 1845, riposò in pace.

Luigi Di Liegro nasce a Gaeta, in provincia di Latina, il 16 ottobre 1928, ultimo di otto figli, di una famiglia che conobbe la sofferenza, le umiliazioni e lo sfruttamento della condizione propria degli emigrati. Entrato in seminario giovanissimo, fu ordinato sacerdote il 4 aprile del 1953, ed esercitò il suo primo incarico pastorale nelle parrocchie di borgata. Nel 1958 si recò in Belgio per approfondire i temi della pastorale del lavoro e per conoscere da vicino le condizioni di vita e di sfruttamento degli emigrati italiani che lavoravano nelle miniere del posto. Nel 1964 fu nominato responsabile dell’Ufficio pastorale della diocesi. Ricoprendo questo ufficio, organizzò nel 1974 il convegno “sui mali di Roma”, che denunciò la pessima amministrazione democristiana della città, nonché l’ostilità e l’indifferenza di gran parte della comunità cristiana nei confronti dei poveri. Nel 1979 diede vita alla Caritas Diocesana di Roma. Scontrandosi con la resistenza e l’aperta avversione di numerosi ambienti, dedicherà gli anni successivi ad organizzare servizi che rispondessero alle necessità delle categorie più deboli ed emarginate della popolazione: anziani, malati, senza tetto, nomadi, immigrati, tossicodipendenti e aidetici. La sua azione si estese oltre i confini della sua diocesi e del suo Paese: in Irpinia, in Armenia, nel Sud Est Asiatico, in Palestina e in Albania. Nell’estate del ’97, fu ricoverato all’Ospedale S. Raffaele di Milano per una crisi cardiaca. Il 12 ottobre 1997, una nuova crisi ne provoca la morte. Aveva detto un giorno: “Non si può amare a distanza, restando fuori dalla mischia, senza sporcarsi le mani, ma soprattutto non si può amare senza condividere”. Lui l’ha fatto.

È tutto, per stasera. E, nel congedarci, scegliamo di proporvi il brano di una preghiera che don Tonino Bello scrisse a “Maria, donna del vino nuovo”. Un altro, ve l’avevamo già offerto, in questa stessa occasione, l’anno scorso. È tratto dal suo libro “Maria, donna dei nostri giorni” (Jesus). Ed è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Santa Maria, donna del vino nuovo, quante volte sperimentiamo pure noi che il banchetto della vita languisce e la felicità si spegne sul volto dei commensali! È il vino della festa che vien meno. Sulla tavola non ci manca nulla: ma, senza il succo della vite, abbiamo perso il gusto del pane che sa di grano. Mastichiamo annoiati i prodotti dell’opulenza: ma con l’ingordigia degli epuloni e con la rabbia di chi non ha fame. Le pietanze della cucina nostrana hanno smarrito gli antichi sapori: ma anche i frutti esotici hanno ormai poco da dirci. Tu lo sai bene da che cosa deriva questa inflazione di tedio. Le scorte di senso si sono esaurite. Non abbiamo più vino. Gli odori asprigni del mosto non ci deliziano l’anima da tempo. Le vecchie cantine non fermentano più. E le botti vuote danno solo spurghi d’aceto. Muoviti, allora, a compassione di noi, e ridonaci il gusto delle cose. Solo così le giare della nostra esistenza si riempiranno fino all’ orlo di significati ultimi. E l’ebbrezza di vivere e di far vivere ci farà finalmente provare le vertigini. (Antonio Bello, Maria, donna del vino nuovo).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 12 Ottobre 2014ultima modifica: 2014-10-12T22:36:41+02:00da fraternidade
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