Giorno per giorno – 10 Ottobre 2014

Carissimi,
“Quando lo spirito immondo esce dall’uomo, si aggira per luoghi deserti cercando sollievo e, non trovandone, dice: Ritornerò nella mia casa, da cui sono uscito. Venuto, la trova spazzata e adorna. Allora va, prende altri sette spiriti peggiori di lui, vi entrano e vi prendono dimora. E l’ultima condizione di quell’uomo diventa peggiore della prima” (Lc 11, 24-26). E, per una volta, il vangelo finì male. Dov’è, infatti, la “buona notizia” nel testo che abbiamo letto stasera durante la celebrazione della Parola, nella chiesetta dell’Aparecida? Noi ce l’immaginiamo quel pover’uomo, felice della ritrovata libertà, che ha cominciato da poco a godersi le benedizioni del buon Dio, che non sono necessariamente cose strepitose, no, è quanto gli basta per vivere, un tetto, un lavoro, la salute, delle persone che gli vogliono bene e a cui voler bene, e, soprattutto, uno sguardo diverso sul mondo, come fosse una carezza. Dopo quel tempo, qualche volta, addirittura, una vita, in cui tutto poteva sembrare perduto, preso com’era stato a coltivare l’orticello dei suoi egoismi e cattiverie. Dove gli altri, persino dentro casa, non esistevano proprio. Poi c’era stato quell’incontro che gli aveva aperto gli occhi e gli aveva dischiuso una visione della vita altra, dove non vige più la lotta di tutti contro tutti, ma l’approssimazione piena di attenzione, la disposizione a collaborare e a servire, la generosità e il dono. E ci si dice: è fatta. No, non è mai fatta una volta per tutte. Neppure dopo una vita di santità. Perché bisogna fare i conti con l’invidia dell’Avversario. Il quale va e “prende con sé altri sette spiriti peggiori di lui”. Sette, come dire la quintessenza della malvagità, che prende possesso di noi. Come i sette peccati capitali, che significano tutti l’affermazione dell’io nella prevaricazione sull’altro. Siamo dunque irrimediabilmente perduti, vittime della logica e dei disvalori che dominano il sistema? Dov’è mai la buona notizia? È contenuta in un altro versetto del vangelo che noi si è letto qualche settimana fa: “C’erano con Gesù i Dodici e alcune donne: Maria di Màgdala, dalla quale erano usciti sette demoni… e molte altre, che li servivano con i loro beni” (Lc 8, 2). Sì, il male, anche nella sua quintessenza, può essere ogni volta vinto. È Dio che ci può strappare a lui. Anche se, possiamo giurarci, sarà una battaglia infernale.

Tre sono le memorie che il nostro calendario ci propone oggi: Jules Monchanin (Swami Parama Arubi Anandam), precursore del dialogo tra cristianesimo e induismo; Michele Pellegrino, pastore e profeta di una Chiesa rinnovata, Daniele Comboni, missionario del Regno in Africa.

La vita di Jules Monchanin, nato a Fleurie, in Francia, il 10 aprile 1895, fu quella di un pioniere dell’incontro tra le religioni, vissuta fino al limite delle sue possibilità fisiche, psicologiche, intellettuali e culturali. Ordinato presbitero, nel 1938 si trasferì nell’India del Sud, dove si mise a disposizione della Chiesa di Tiruchirapalli. Dopo qualche anno, assieme a Henri Le Saux, fondò l’ashram della Trinità, assumendo il nome di Swami Parama Arubi Anandam (= Felicità dello Spirito Santo). Monchanin credette profondamente che la spiritualità hindu potesse arricchire e vivificare il cristianesimo. Fermamente convinto, fin dall’inizio del suo ministero sacerdotale che la missione del cristiano fosse quella di stabilire una relazione dialettica con il pensiero scientifico moderno e con le altre religioni, dedicò tutto se stesso a questo fine. Alla fine dell’agosto 1957 gli fu diagnosticato un tumore e gli fu suggerito di tornare in Francia per essere operato. Fu ricoverato all’ospedale Saint-Antoine di Parigi, stremato e ridotto a 42 kg di peso. Lo stato di avanzamento della malattia, rese impossibile operarlo, e Monchanin, il 10 ottobre 1957, dopo aver ricevuto il viatico, stese le braccia in forma di croce come estremo gesto di offerta e dopo alcune ore spirò dolcemente.

Michele Pellegrino era nato a Centallo (Cuneo) il 25 aprile 1903. Sacerdote a soli 22 anni nella diocesi di Fossano, fu professore di Letteratura cristiana antica e di Storia del cristianesimo all’Università di Torino, fino a quando, nel 1965, papa Paolo VI lo chiamò alla guida della Chiesa torinese. L’amore per la Parola di Dio e la profonda conoscenza dell’insegnamento dei Padri, ne fecero un pastore sensibilissimo, sollecito e coraggioso di fronte alle necessità e alle sfide inedite che via via si manifestavano nella comunità dei fedeli e nella società civile del tempo. Rassegnate le dimissioni, nel luglio del 1977, continuò negli anni successivi ad impegnarsi in Italia e all’estero sui temi dell’attuazione del Concilio, della povertà, della comunione, del dialogo interreligioso e della libertà nella comunità dei credenti in Cristo. Colpito da ictus cerebrale, l’8 gennaio 1982, paralizzato e reso afono, chiese di passare quanto gli restava da vivere tra gli ultimi degli ultimi, al Cottolengo. Lì si spese leggendo i Padri della Chiesa, sgranando senza sosta il rosario, visitando, sorridendo e benedicendo gli altri malati. Fino a che la morte lo colse la mattina del 10 ottobre del 1986.

Daniele Comboni era nato in una povera famiglia contadina, quarto degli otto figli di Domenica e Luigi Comboni, a Limone sul Garda (Brescia) il 15 marzo 1831. Durante gli studi a Verona aveva maturato la sua vocazione, che lo portò, completati gli studi di filosofia e teologia ad essere ordinato sacerdote nel 1854 e a partire, tre anni dopo, per la sua prima missione in Africa, con destinazione Khartoum, la capitale del Sudan. Da lì scrisse ai genitori: “Dovremo faticare, sudare, morire, ma il pensiero che si suda e si muore per amore di Gesù Cristo e della salute delle anime più abbandonate del mondo è troppo dolce per farci desistere dalla grande impresa”. Tornato in Italia, elaborò nel 1864 un Piano per la rigenerazione dell’Africa, sintetizzabile nello slogan “Salvare l’Africa con l’Africa”, espressione della sua fiducia incrollabile nelle risorse umane e religiose delle popolazioni africane. Sull’onda di questa sfida, fondò, nel 1867 e nel 1872, l’Istituto maschile e l’Istituto femminile dei suoi missionari, che saranno conosciuti in seguito come Missionari Comboniani e Suore Missionarie Comboniane. Nominato Vicario apostolico dell’Africa Centrale e consacrato vescovo nel 1877, dedicò i suoi ultimi anni con instancabile energia a battersi contro la piaga dello schiavismo e a consolidare l’attività missionaria con gli stessi africani. Il 10 ottobre 1881, a soli cinquant’anni, stroncato dalle fatiche e dalla malattia, moriva a Khartoum, tra la sua gente.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Lettera ai Galati, cap.3, 7-14; Salmo 111; Vangelo di Luca, cap.11, 15-26.

La preghiera del Venerdì è in comunione con i fedeli della Umma islamica, che confessano l’unicità del Dio clemente e misericordioso.

È tutto per stasera. Noi ci si congeda qui, lasciandovi ad una citazione di Jules Monchanin, tratta dal suo “Mistica dell’India, mistero cristiano” (Marietti), che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
L’assunzione nell’Uomo-Dio di ogni realtà trasfigurata nel suo sacrificio è stata preceduta, come condizione indispensabile, dalla limitazione volontaria, per amore, dello stesso Cristo, a un’unica vita mortale, a una zona esigua di esperienza umana che non si è quasi mai spinta al di là dei confini d’Israele. La vita di Gesù, sempre nascosta anche quando la si definisce “pubblica”, fu una scelta carica di esclusioni, una kenosi dell’universale… Passando dal Risorto, attraverso la sua Croce, al Gesù mortale, l’India contemplativa troverà in Lui il senso dell’incarnazione di tutti i valori spirituali. L’universale metamorfosi pneumatica e l’estensione illimitata del Pleroma si sono originate da questo sacrificio che ha inizio con l’Incarnazione, da questo rinchiudersi del Verbo illimitato entro i limiti dello spazio, del tempo, di un popolo e di un’individualità. Alla sua luce, una spiritualità deve essere tanto più incarnata, nel hic et nunc quanto più è assetata di universale unità. La Chiesa invisibile non è se stessa – cioè il Corpo del Risorto – se non è nel contempo la Chiesa visibile, segnata dai limiti della condizione umana gravata dal peccato – corpus peccati. Nella sua comprensione del mistero cristiano, l’India percorrerà il seguente itinerario: dal Corpo mistico al Corpo sacrale, dal Corpo sacrale al Corpo ecclesiale e al suo aspetto indiano incluso nella sua ecumenicità. Con analogo movimento, il pensiero indiano, muovendo dal centro nascosto dell’ātman raggiungerà la periferia della personalità dell’uomo che esige la corporeità, e di cui l’universo costituisce il sostrato e l’involucro. Omnia in eo constant: Cristo ricapitola nella sua unità la totalità della creazione, reale perché da lui assunta, per introdurla all’interno dell’eterna Unità inclusiva dei Tre. (Jules Monchanin, Mistica dell’India, mistero cristiano).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 10 Ottobre 2014ultima modifica: 2014-10-10T22:06:54+02:00da fraternidade
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