Giorno per giorno – 13 Aprile 2011

Carissimi,

“Gesù allora disse a quei Giudei che avevano creduto in lui: Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi. So che siete discendenti di Abramo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova accoglienza in voi” (Gv 8, 31. 37). Gli esegeti qui si arrampicano sui vetri per tentare di convincerci che Gesù non poteva dirigere queste parole a chi aveva creduto in lui. Ma noi siamo convinti che l’evangelista l’abbia invece scritto proprio di proposito. I destinatari siamo noi. Anche noi, come i contemporanei di Gesù, discendenti, se non altro, spiritualmente, di Abramo. Noi che abbiamo creduto in Lui. O che crediamo di credere. Noi, quelli della civiltà cristiana. E, spesso, verrebbe da ridere, se non ci fosse da disperarsi. Noi, dunque, che cerchiamo di ucciderlo, perché la sua parola non trova accoglienza in noi. Oggi ci ha scritto Maltone, un ragazzo che è uscito qualche mese fa dalla chácara di recupero. E ci ha detto: “Stavo con nostalgia di voi, scusate se non vi ho scritto prima, spero che tutto vada bene e che Dio continui ad illuminarvi ogni giorno di più e a darvi quella sapienza che ho avuto modo di condividere nel periodo trascorso nella chácara. Ricordo che un giorno, durante un incontro, commentando non so più quale Vangelo, qualcuno ha detto: ‘Chi ama, perde sempre’, proprio come Gesù Cristo e ‘Se qualcuno deve soffrire tra me e il mio prossimo, ebbene, che sia io!’. Sono state, forse, queste due frasi la chiave che mi ha permesso di capire meglio il proposito di Dio su di noi. Sperimento una certa difficoltà a relazionarmi con le chiese o con le persone che affermano di servire Dio, perché spesso sembrano piuttosto superficiali e interessate solo a perseguire i loro interessi personali. Cerco di avvicinarmi a Dio nelle mie azioni e nelle mie attitudini. Vorrei trovare il modo di continuare ad approfondire la Bibbia, sia pure a distanza. Qui fuori, con tutto il corri-corri della nostra vita quotidiana, finisce che ci allontaniamo dalla Parola di Dio. Sono perle come le due frasi di cui dicevo prima che mi danno forza, per superare la routine e cercare di essere una persona migliore. Un abbraccio a tutti. Dio vi benedica”. Gli abbiamo risposto subito, ovviamente, dicendogli tra l’altro: “Sì, crediamo anche noi che le frasi che hai riportato esprimano bene il mistero di Dio che ci è rivelato in Gesù. Questo è l’agire di Dio nei nostri confronti ed è anche l’unico modo con cui noi possiamo, per così dire, riportarlo nel mondo, o, se preferiamo, scrivere la storia di Dio nella nostra storia. Per quanto riguarda le difficoltà che trovi con la gente di chiesa, purtroppo bisogna metterle in conto, dobbiamo però sforzarci di accettare le persone così come sono, anche con i loro difetti, facendo leva su quanto di buono ancora li anima e li motiva. La prima compagnia di Gesù non era molto migliore di noi e delle nostre chiese: superficialità, incostanzia, viltà, ambizioni, litigi, invidia e molto altro ancora, è tutto meticolosamente annotato nei Vangeli, negli Atti e nelle Lettere degli apostoli. L’importante è, ogni volta, correggere e correggerci, cercando di non cedere più a tali comportamenti”.  “Se qualcuno deve soffrire tra me e il mio prossimo, ebbene, che sia io!”: questo è dunque, secondo il nostro amico (ma anche secondo noi), credere nel Dio di Gesù. Sui vostri giornali, abbiamo letto oggi affermazioni come queste: “Bisogna respingere gli immigrati, ma non possiamo sparargli, almeno per ora”. È di un vostro vice-ministro. Subito corretto da un suo collega di partito: “No, si deve sparargli”. Ora, a noi potrebbero anche non preoccupare più di tanto gli esponenti di un partito che è, dalle sue origini, pagano fino al midollo. Preoccupano, invece, un po’ di più quei chiesaioli (con tanto di cappellani) che marciano al suo seguito. Quelli, appunto, dei quali Gesù dice:  “Voi cercate di uccidermi perché la mia parola non trova accoglienza in voi”. E lo si uccide anche solo con il silenzio.  

 

Oggi ricordiamo Rabbi Giacobbe Isacco, detto “il Santo ebreo”.

 

13 Rabbi.jpgRabbi Yaacov Yitzchak nacque a Przedborz (Polonia), nel 1766, nella famiglia di Rabbi Asher, discendente di una famosa genealogia di rabbini e lui stesso predicatore. Da ragazzo, non voleva partecipava alla preghiera comunitaria; ed inutili erano stati rimproveri e percosse, finché il padre scoprì che, tutti i giorni, dopo la chiusura della sinagoga, il ragazzo si arrampicava sul muro e vi entrava per il tetto e se ne stava lì a recitare la sua preghiera. Durante il giorno, poi, aveva l’abitudine di pregare in un granaio, dove nessuno lo vedeva. Anche al bagno rituale, se ne andava tutto solo a mezzanotte, tuffandosi nell’acqua gelida, senza accendere il fuoco, come facevano invece gli altri durante il giorno. Poi, tornato a casa, si metteva a studiare la Kabbalà. A volte la giovane moglie lo trovava svenuto davanti al libro.  Abitava ad Apta (Opatow), presso i suoceri. Lo conobbe Rabbi Moshe Löb di Sasow, e poi Rabbi Abramo Jehoshua Heschel, che ne vinsero per primi la ritrosia e lo convinsero ad unirsi ai chassidim. Manteneva sé e la famiglia, facendo il maestro elementare nei villaggi vicini, ma finiva per distribuire gran parte del suo salario ai poveri. Rabbi Davide di Lelow, che esercitò pure una grande influenza su di lui, gli fece incontrare Rabbi Giacobbe Isacco, detto il Chozeh, il “Veggente” di Lublino, di cui divenne il più stretto discepolo. Per evitare di confondere i due, per via dell’omonimia, il nostro fu presto chiamato Ha-Yehudi, “l’Ebreo” e, più tardi, Ha-Yehudi ha-Kadosh, “il Santo Ebreo”. Il Chozeh , intuendone le doti spirituali, fece di lui il consigliere spirituale dei discepoli più giovani, a cui diede sempre esempio di grande umiltà, e ne insegnò il cammino. Alcune divergenze e incomprensioni che si manifestarono tra il discepolo e il maestro, indussero il nostro ad aprire una sua comunità, con l’aiuto del suo compagno e scolaro Rabbi Bunam. Nacque così la scuola di Pžysha (l’attuale Przysucha, in Polonia), che poneva una particolare enfasi sullo studio della Torah accompagnato dalla preghiera. Evitando però di trasformare questa nell’esecuzione di un arido precetto, con orari e modi predeterminati. Questa impostazione alimentò però la diffidenza dei seguaci del Veggente di Lublino nei confronti della Scuola di Pžysha. Inutilmente il Santo Ebreo tentò un riavvicinamento all’antico maestro. Morì  a quarantotto anni, nel 1813, quando le sue forze erano ancora nel pieno vigore. L’insegnamento a cui informò la sua vita lo riassunse egli stesso in questa parole: “Il perseguimento della giustizia deve avvenire con giustizia e non con menzogna”.

 

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Profezia di Daniele, cap.3, 14-20. 91-92. 95; Salmo (Dn 3, 52-56); Vangelo di Giovanni, cap.8, 31-42.

 

La preghiera del mercoledì è in comunione con quanti ricercano l’Assoluto della loro vita nella testimonianza  per la pace, la fraternità e la giustizia. 

 

È tutto per stasera. Noi ci si congeda qui, lasciandovi alla lettura di un fioretto di Rabbi Giacobbe Isacco di Pžysha, tratto da “I racconti dei Chassidim” (Garzanti) di Martin Buber. Che è, per oggi, il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

La moglie dello Jehudi lo tormentava spesso con lunghi diverbi. Egli ascoltava quel che lei diceva, taceva e l’accettava serenamente. Una volta però che i rimbrotti superarono la misura consueta replicò con alcune parole. Più tardi il suo scolaro Rabbi Bunam gli chiese: “Che cosa ha questo giorno di diverso dagli altri?”. “Ho visto, disse lo Jehudi, che la sua anima stava per partirsene per troppa angoscia e furore perché non mi lasciavo scuotere dalle sue grida. Perciò le ho detto alcune parole, perché sentisse che le sue mi preoccupavano e questo sentimento le desse forza”. (Martin Buber, I racconti dei Chassidim).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.  

Giorno per giorno – 13 Aprile 2011ultima modifica: 2011-04-13T23:49:00+02:00da fraternidade
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