Giorno per giorno – 12 Aprile 2011

Carissimi,

“Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo. Vi ho detto che morirete nei vostri peccati; se infatti non credete che Io Sono, morirete nei vostri peccati” (Gv 8, 23-24). Il contesto è sempre quello della Festa delle Capanne, quando, al calar della notte, venivano accesi in quello che era chiamato il Cortile delle Donne, nel Tempio di Gerusalemme, quattro giganteschi candelabri d’oro, la cui luce si rifletteva su tutta la città. E Gesù che dice: “Io sono la luce del mondo; chi segue me, non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8, 12). Eppure stava andando verso la sua morte. Stamattina ci dicevamo: proprio per questo lo dice. Quella morte è ciò che illumina e, perciò, chiarisce tutto. A chi ha occhi per vedere, naturalmente. Nel brano che la liturgia ci ha fatto ascoltare oggi, Gesù chiarisce ulteriormente il suo pensiero. Che dovrebbe essere anche il nostro. C’è chi è “del mondo”, appartiene al sistema del dominio, resta tutto interno alla sua logica – e Gesù sta parlando a dei farisei, quindi a dei religiosi, scrupolosi difensori della Legge divina – e c’è chi vi si sottrae, non per contestare la parola di Dio, ovviamente – si tratta di suo Padre! -, ma per farne emergere l’intenzionalità più vera. Probabilmente, è per questo che l’episodio dell’adultera (Gv 8, 1-11), che abbiamo letto ieri, dopo essere rimasto a lungo orfano e perduto,  alla fine, è stato inserito qui. L’Io-sono che si manifesta in Gesù ha tutto a che vedere con la misericordia – il prendere a cuore la miseria altrui e nostra di un’etimologia forse non scientifica, ma che rende bene l’equivalente greco ed ebraico. Se non siamo capaci di questo, moriremo nei nostri peccati. Come, infatti, stiamo morendo e facendo morire il mondo con noi. “Tu chi sei?” (v.25), domandano i farisei. Dopo duemila anni, neppure noi, che ci diciamo suoi, l’abbiamo in realtà ancora capito. Se questo, almeno, ci inquietasse un po’.

 

Il calendario ci porta la memoria di don Primo Mazzolari, profeta di pace e di non-violenza, e di Valdes (o Valdo), riformatore della Chiesa.

 

12 Mazzolari.jpgPrimo Mazzolari era nato al Boschetto, frazione di Cremona, il 13 gennaio 1890, da Luigi e Grazia Bolli, una famiglia di piccoli affittuari contadini. Entrato in seminario dodicenne, fu ordinato prete il 24 agosto 1912. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, chiese ed ottenne di essere arruolato e, nel 1918 fu mandato come cappellano militare sul fronte francese, dove restò fino alla fine della guerra. Nel 1920, fu nominato parroco a Bozzolo e, due anni più tardi, a Cicognara, un paese a forte tradizione socialista, dove rimase per dieci anni. Qui iniziò la sua opposizione al fascismo. Ritornato a Bozzolo, nel 1932, prese a pubblicare i suoi scritti, in cui, con coraggio e onestà, segnalava limiti e manchevolezze della Chiesa, nonché l’esigenza per l’Italia di una profonda riforma morale e culturale.  Il che, dati i tempi, si tradusse in grane, a livello ecclesiastico e politico. Durante la drammatica e opprimente esperienza della Repubblica Sociale Italiana, don Primo approfondì i suoi contatti con la Resistenza, al punto di essere arrestato. Rilasciato, passò l’ultimo periodo in clandestinità. A partire dal 1945, sue preoccupazioni maggiori furono l’impegno per l’evangelizzazione, la pacificazione,  la costruzione di una società più giusta, il dialogo con i lontani.  Nel gennaio 1949 fondò e diresse il periodico “Adesso” la cui pubblicazione fu sospesa, per l’intervento del Vaticano, nel febbraio 1951, riprendendo solo nel novembre, con la direzione di  un laico. Nel 1955 apparve anonimo Tu non uccidere, con cui il parroco di Bozzolo si faceva sostenitore dell’obiezione di coscienza, pronunciando un durissimo atto di accusa contro tutte le guerre. Nel novembre del 1957, chiamato da mons. Montini, predicò alla Missione di Milano. Nel febbraio 1959, infine, il nuovo papa, Giovanni XXIII, lo ricevette in udienza in Vaticano. L’accoglienza ricevuta, come ebbe a dire ritornando a Bozzolo, lo ripagava di ogni amarezza sofferta. Morì poco tempo dopo, il 12 aprile 1959.

 

12_PEDRO_VALDO.JPGValdes era nato a Lione nel 1140. Divenuto mercante,  praticando l’usura senza troppi scrupoli, si era ben presto arricchito. Una domenica, udì raccontare da un trovatore le vicende e la morte di sant´Alessio, che era vissuto come mendicante nella casa del proprio padre. Commosso, l’indomani mattina si recò ad una scuola di teologia per chiedere quale fosse la via più sicura che portasse a Dio. Gli risposero con la frase del Vangelo: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutto ciò che hai e, il ricavato, dallo ai poveri”.  Fu ciò che egli fece. Attorno a lui si radunarano presto molti seguaci, i “poveri di Lione”, con un programma di vita basato sulla povertà e sulla predicazione dell’evangelo, in uno stile di vita che intendeva seguire da vicino quello degli apostoli di Gesù. Le critiche mosse alle ricchezze del clero e la pratica della predicazione da parte dei laici, gli attirarono però la sconfessione delle autorità ecclesiastiche. Nel Concilio Lateranense (1179), papa Alessandro III, pur approvando le norme di vita dei suoi seguaci, aveva proibito loro la predicazione e la diffusione dei testi biblici. Nel 1184, tuttavia, Lucio III ritenne più sicuro scomunicarli, dando inizio ad un’aperta repressione, che costrinse i poveri di Lione a rifugiarsi nelle ospitali e sicure valli del Piemonte e del Delfinato. La condanna ufficiale e definitiva della Chiesa venne divulgata nel 1215. Due anni dopo, il 12 aprile 1217,  Valdes moriva. Dall’esempio e dalla predicazione sua e dei poveri di Lione nacque la Chiesa Valdese, di cui furono caratteristiche lungo i secoli la rinuncia al potere politico, all’uso della forza e all’alleanza con le potenze del mondo.

 

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Libro dei Numeri, cap.21, 4-9; Salmo 102; Vangelo di Giovanni, cap.8, 21-30.

 

La preghiera del martedì è in comunione con le religioni tradizionali del Continente africano.

 

Più sopra, avevamo chiuso con la nostra possibile inquietudine. E su questo tema vogliamo congedarci. In tempi e giorni in cui, se essa non ci prendesse almeno un po’, ci verrebbe da pensare che, davvero, non potremmo più dirci non solo cristiani, ma neppure esseri umani. Sull’inquietudine lasciamo la parola a don Primo Mazzolari, in questo brano di omelia che troviamo  in rete e che è, per oggi, il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

Il cristianesimo è l’inquietudine più grande, la più intensa. Esso inquieta l’esistenza comune nel suo fondamento. Dove deve nascere un cristiano, vi deve essere un’inquietudine: ove un cristiano è nato, c’è dell’inquietudine. San Paolo parla del gemito di ogni creatura. Dunque, io sono uno che sta male, non perché credo, ma nella mia stessa qualità di credente, poiché, credendo, non aderisco all’evidenza, ma al mistero. Anche se San Tommaso afferma che l’atto di fede si differenzia da tutti gli altri atti del pensiero per questa specie di “cogitazione”, che fa che lo spirito non sia in riposo nella fede. L’avventura cristiana continua in chi crede. Non c’è bisogno di rinunciare ad entrare in porto perché la ricerca continui. La Fede non è un approdo, ma un sicuro orientamento di Grazia verso l’approdo. La traversata continua e travagliosamente. Chi non ha la grazia di credere è tentato dall’incertezza e dal timore del niente, di nessuno. Chi ha la grazia di credere è travagliato dalla luce stessa che gli fu comunicata. Il mio ideale, che non è fatto su misura, ma che mi supera infinitamente, è il mio tormento. La Parola di Dio l’ho dentro di me, non la posso più rifiutare e adattare ai miei gusti, imborghesirla. Nel lontano la ricerca è un istinto naturale; nel credente è istinto e grazia. C’è poi il confronto continuo fra ciò che mi splende nella visione e nel desiderio e ciò che riesco a fissare. Penso in eternità e avanzo lentamente nel tempo. Ho ricevuto tanto e di tanto devo rispondere: anche davanti agli uomini. Sono creato testimonio davanti agli uomini. Dipende da me se Cristo sarà accolto o giudicato nella mia luce o nella mia tenebra. Sono di fazione fazione per Lui fino all’ultimo respiro. Non sarò smobilitato che morendo. Chi non ha una fede non è impegnato: è sempre più “onesto” di chi ha un ideale evangelico. Io che credo e predico il Vangelo, sono giudicato secondo il Vangelo. Molti uomini non mi condannano neanche: ma io non posso non condannarmi. La mia fede mi crea giudice implacabile di me stesso. (Primo Mazzolari, Le tentazioni del cristiano).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.  

Giorno per giorno – 12 Aprile 2011ultima modifica: 2011-04-12T23:16:00+02:00da fraternidade
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