Giorno per giorno – 14 Aprile 2011

Carissimi,

“In verità, in verità io vi dico: Se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno” (Gv 8, 51). Non la vede ora, dunque, né la vedrà mai. Ma è vero anche il contrario. Chi non osserva la Sua parola, è già morto e sepolto. Che non ha nulla a che vedere con il fatto di essere o no cristiani, tutt’altro. Ce n’è di noi – noi stessi, forse, qualche volta – ad essere solo zombie. Succede quando presumiamo di ritagliarci uno spazio in cui esistiamo solo noi e gli altri sono semplici suppellettili, che si possono spostare o di cui ci si può disfare a piacimento. A quel punto siamo già morti. Se invece gli altri sono la nostra ragion d’essere non si muore mai, non si muore più. Noi ricordiamo di una persona morente, una signora neppure anziana, che accompagnavamo nelle ultime ore. Ed era sfinita dal male. E sapeva che se ne stava andando. Aveva allora chiamato accanto a sé il marito e poi i figli, uno dopo l’altro, per congedarsi e sussurrare ad ognuno qualcosa, che loro avrebbero capito. E tutto era in pace. E lei aveva allora chiuso gli occhi, pronta al distacco. Poi, però, un singhiozzo, l’aveva come svegliata e aveva aperto gli occhi e si guardava intorno preoccupata per scoprire chi stesse piangendo e scuoteva la testa, come a dire no, non si può, non si deve. Perché si può andare solo se nessuno soffre o ha ancora bisogno di te. Così era stato due o tre volte. Finché tutti si sono rassegnati e lei li ha potuti lasciare, serena. A volte, troppe volte, si muore, da vivi. Muoiono le persone, muoiono le istituzioni, e i loro governi. Anche se si affannano a dimostrare che sono ancora vivi, c’è un fetore di morte che ne denuncia la decomposizione in atto. Per chi osserva la Sua parola, invece, per chi la vive, vale quella promessa. “Anche se morto, vivrà” (Gv 11, 25), come dirà Gesù in un’altra occasione. Stamattina la pagina che ha accompagnato la nostra meditazione è stata una riflessione di William Stringfellow, per la quale dobbiamo ringraziare una nostra amica di Milano: “Essere cristiano… è sapere che non vi è dolore, o privazione, né umiliazione o disastro, né angoscia o miseria o fame, né lotta o tentazione, né inganno o malattia o sofferenza o povertà che Dio non abbia conosciuto e sopportato per l’umanità in Gesù Cristo. Dio ha sofferto persino la morte a favore dell’umanità, e in quell’evento Dio ha spezzato il potere della morte una volta per tutte”. Vi è, allora, un modo di passare in mezzo a tutte le esperienze, anche le più tragiche, che è comunione con il Dio che tutto si dona e perciò tutto vivifica, e ce n’è un altro che, al contrario,  dominato dall’egoismo, pur nell’apparente successo e nell’illusoria convinzione di tenere il mondo tra le mani e di poter tutti dominare e tutto controllare, è velenoso, disumano, ateo, blasfemo. Seminatore di morte.

 

Il nostro calendario ecumenico ci porta la memoria di Maria Egiziaca, eremita e penitente, e di Râmana Mahârshi, mistico indiano. 

 

14 maria egiziaca.jpgSu Maria Egiziaca, eremita e penitente del VI secolo, che trascorse gran parte della vita e fu sepolta nel deserto di Giuda, sorsero ben presto numerose leggende, di cui non riusceremo mai a sapere gli eventuali elementi di storicità. La più famosa di queste, attribuita a Sofronio, narra che Zosimo, ieromonaco di una laura palestinese, essendosi recato durante una Quaresima nel deserto, vi incontrò un’anziana donna, consunta dagli stenti e bruciata dal sole, a cui chiese di raccontargli la vita. Lei disse di essere egiziana. A dodici anni era fuggita di casa e si era recata ad Alessandria, dove per diciassette anni aveva vissuto in modo dissoluto. Incontrando un giorno un gruppo di pellegrini che si imbarcavano per Gerusalemme, decise di unirsi a loro, mossa dal desiderio di nuove avventure. Giunta nella città santa, avrebbe voluto entrare a visitare la basilica del Sepolcro, ma una forza misteriosa l’aveva trattenuta. Fu allora che maturò la sua conversione. E scelse il deserto. Giunta sulle rive del Giordano, fece visita al santuario di S. Giovanni Battista e scese nel fiume per purificarsi. Ricevuta la Comunione, si inoltrò nel deserto, dove, quando incontrò Zosimo, abitava da quarantasette anni. Terminato il racconto, chiese al monaco di tornare l’anno successivo, il Giovedì santo, per portarle l’eucaristia. Cosa che egli fece. Maria si comunicò e rinnovò l’appuntamento per l’anno successivo. Ma quando il monaco tornò, trovò solo il corpo della donna morta e una scritta: “Padre Zosimo, sotterra il corpo dell’umile Maria; restituisci alla terra ciò che è della terra, aggiungi polvere a polvere ed in nome di Dio prega per me; sono morta nel mese di pharmouti, secondo gli egiziani, che corrisponde all’aprile dei Romani, la notte della Passione del Salvatore, dopo aver partecipato al pasto mistico”. Era dunque morta un anno prima, la notte successiva al loro ultimo incontro.  Zosimo, aiutato da un leone, scavò la fossa e la seppellì, tornando poi al suo monastero, dove raccontò la storia all’ egumeno Giovanni e agli altri monaci, per loro edificazione. I copti ne celebrano la memoria il 6 barmudah/miyazya, che coincide con il 14 aprile).

 

14_RAMANA.jpgRâmana era nato il 30 dicembre 1879 a Tiruchuli, a circa trenta miglia di distanza da Madurai, nell’India meridionale, nella famiglia di Sundaram Aiyar e  Alagammâl.  Ricevette il nome di Venkateswaram. Successivamente, quando si iscrisse a scuola, il nome gli fu cambiato in Venkataraman e presero a chiamarlo Râmana. Alla morte del padre, fu affidato ad uno zio e andò a vivere a Madurai, dove frequentò la Scuola superiore della Missione americana. Negli studi non si rivelò particolarmente brillante, era però un giovane forte e sano. A diciassette anni, dopo aver “vissuto” a livello di coscienza l’esperienza della morte e il superamento di questa nel processo di assorbimento/identificazione con il Sé divino, lasciò ogni cosa e si recò sulla montagna sacra di Arunachala, a Tiruvannamalai, dove sarebbe rimasto per il resto della sua vita. Passò molti anni in silenzio e solitudine. Poi cominciò a diffondersi la sua fama, che richiamò presso di lui folle di visitatori e di curiosi. Nel 1907, uno dei suoi primi devoti lo chiamò Baghavan Râmana Mahârshi (il beato Râmana Grande Saggio) e il nome gli restò. Attorno a lui sorse un ashram, che via via si ingrandì. Râmana sedeva la maggior parte del tempo nella sala dell’ashram, come testimone di tutto quello che accadeva intorno a lui. Non permetteva mai che gli venisse mostrata qualsiasi preferenza e anch’egli trattava tutti con lo stesso rispetto e amore. Il suo insegnamento era quasi muto: bastava uno sguardo e il suo significato veniva compreso da tutti. Se gli veniva posta una domanda, rispondeva brevemente e con dolcezza. Il 5 Febbraio 1949, si manifestò la malattia che l’avrebbe portato alla morte: un sarcoma maligno. Râmana rimase distaccato e del tutto indifferente alla sua sofferenza, ma si preoccupava di confortare quanti, vicino a lui, se ne addoloravano. La fine arrivò la sera del 14 Aprile 1950.  Dopo che i presenti nell’ashram ebbero eseguito il suo inno ad Arunachala, Râmana chiese ai suoi aiutanti di metterlo a sedere: sorrise e entrò nel suo Mahanirvana, o, semplicemente, morì.

 

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Libro di Genesi, cap.17, 3-9; Salmo 105; Vangelo di Giovanni, cap.8, 51-59.

 

La preghiera del Giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

 

Jules Monchanin, il prete francese che fondò con il monaco benedettino Henri Le Saux , sulle rive del fiume Kaveri, in India, l’Eremo della Trinità (Saccidananda Ashram), dopo aver visitato più volte Ramana Maharshi, ebbe a scrivere: “Ho meditato ai suoi piedi, sul Paraclito ‘che sonda le profondità di Dio’ e santifica chi vuole e come vuole, attraverso le vie sconcertanti, nell’invisibile e fino alle radici dell’essere…”. Di Ramana Maharshi vi proponiamo, nel congedarci, una citazione tratta dal libro “Sii ciò che sei” (Il punto d’incontro), che è, per oggi, il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

Il Sé è conosciuto da tutti, ma non chiaramente. Tu esisti sempre. L’esistere è il Sé. “Io sono” è il nome di Dio. Di tutte le definizioni di Dio, nessuna è così appropriata come l’affermazione biblica: “Io sono quello che sono” (Es 3). Ci sono altre affermazioni, come Brahmaivaham (Brahman sono io), aham Brahmasmi (io sono Brahman) e soham (io sono lui). Ma nessuna è così diretta come il nome Jhwh che significa “Io sono”. L’essere assoluto è ciò che è. È il Sé. È Dio. Conoscendo il Sé, Dio è conosciuto. Infatti Dio non è altro che il Sé. Tra le molte migliaia dei nomi di Dio, nessuno si adatta a Dio che dimora nel Cuore privo di pensiero, in modo così vero, appropriato e bello come il nome “io” e “io sono”. Di tutti i nomi di Dio conosciuti, soltanto il nome di Dio “io” risuonerà trionfalmente quando l’ego sarà distrutto, sorgendo come la suprema parola silente (mouna-para-vak) nello spazio del Cuore di coloro la cui attenzione è rivolta al Sé. Persino se si medita incessantemente su quel nome “io-io” con l’attenzione sul sentimento “io”, si verrà portati a tuffarsi nella sorgente da cui sorge il pensiero, distruggendo l’ego, l’embrione, che è unito al corpo. (Ramana Maharshi, Sii ciò che sei).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro

Giorno per giorno – 14 Aprile 2011ultima modifica: 2011-04-14T23:01:00+02:00da fraternidade
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