Giorno per giorno – 08 Aprile 2011

Carissimi,

“Certo, voi mi conoscete e sapete di dove sono. Eppure non sono venuto da me stesso, ma chi mi ha mandato è veritiero, e voi non lo conoscete. Io lo conosco, perché vengo da lui ed egli mi ha mandato” (Gv 7, 28-29). Per aver detto questo, cercavano di arrestarlo  (v. 30). Stamattina ci dicevamo che noi, a rigore, di Gesù, sappiamo anche più di quanto sapessero gli abitanti di Gerusalemme, suoi contemporanei. Siamo, infatti, più o meno tutti(e), passati per anni di insegnamento della religione a scuola, abbiamo frequentato tutte le tappe del catechismo, siamo da tempo (per alcuni immemorabile) uditori pazienti della Parola di Dio e delle omelie che ce la illustrano,  eppure se ci pensiamo bene, continuiamo a non conoscere Colui che l’ha mandato. Tanto è vero che la nostra vita non ha quasi nulla di diverso da quella degli altri. Pensiamo, diciamo, facciamo tutti le stesse cose. Che non sono proprio quelle che Lui ci ha insegnato. Beh, un momento, noi almeno andiamo in chiesa! Proprio come quelli a cui Gesù si rivolge nel Vangelo di oggi, che stavano nel Tempio. E sono loro (cioè, noi) che vogliono arrestarlo, metterlo a tacere, farlo morire. Che siano altri a voler soffocare ciò che Lui significa,  il Principio della cura, dell’accoglienza, del dono nelle relazioni umane, potrebbe anche essere del tutto normale; hanno un dio diverso, è, cioè, un altro il significato ultimo che ritengono unificante per la loro vita: il guadagno, la ricchezza, il successo, l’affermazione di sé (anche nelle sue proiezioni collettive di partito, nazione, patria, civiltà, cultura, religione…); il problema si pone per noi che affermiamo di conoscerlo e che lo disconosciamo appena abbiamo varcato le porte della chiesa (o anche prima di averle varcate). Al punto di fare della croce, che è il simbolo del “preferisco morire io, purché tu viva”,  l’arrogante affermazione di una [in]civiltà che disprezza, rifiuta, combatte e, quando riesce, sconfigge l’altro. Dimenticando che il Crocifisso, nel frattempo, ha traslocato ed è ora proprio nell’altro che soccombe e muore.

 

Il martirologio latinoamericano ci porta oggi la memoria di Armando Carlos Bustos, cappuccino, piccolo fratello del Vangelo, martire per la giustizia sotto la dittatura argentina.

 

08 CARLOS ARMANDO BUSTOS.jpgArmando Carlos Bustos era nato il 10 gennaio 1942 a Córdoba (Argentina). Entrato nell’ordine dei frati minori cappuccini e ordinato sacerdote, esercitò per un certo tempo il suo ministero nella parrocchia di Santa Maria degli Angeli, situata in un quartiere borghese della capitale argentina, e da cui, per questo motivo, chiese di essere trasferito. Dopo un periodo trascorso a Chepes, nella provincia di La Rioja, dove seguì la strada tracciata da Mons. Enrique Angelelli, si recò nel 1971 a lavorare con padre Pedro Lephaille nella “villa miseria” (baraccopoli)  di Ciudad Oculta, alla periferia di Buenos Aires. Del suo passaggio là, un amico lasciò scritto: “Ciò che maggiormente ricordo di lui è il suo spirito gioviale, che gli permetteva di trasformare qualunque situazione in un avvenimento allegro. La sua casa era un rifugio per ogni fratello, che avesse bisogno di dormire, di condividere qualcosa o anche solo fare quattro chiacchiere….”. Nel 1976 Carlos si recò a trascorrere un periodo nella Comunità dei Piccoli fratelli del Vangelo, di cui facevano parte anche Pablo Gazarri e Maurício Silva, entrambi in seguito sequestrati e uccisi. L’8 Aprile 1977, Venerdì Santo,  mentre si recava per la celebrazione del pomeriggio nella chiesa del barrio Nuova Pompeya, a Buenos Aires, fu sequestrato. Le autorità militari ammisero in un primo momento la detenzione. Poi smentirono e di Carlos non si seppe più nulla.

 

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Libro della Sapienza, cap.2, 1a. 12-22; Salmo 34; Vangelo di Giovanni, cap.7, 1-2. 10. 25-30.

 

La preghiera del Venerdì è in comunione con i fedeli dell’Umma islamica che confessano l’unicità del Dio clemente e misericordioso.

 

08 FLAG OF THE ROM.jpg08 ROMANO DIVES.jpgDal 2002, l’8 aprile, si celebra in tutto il mondo il Romano Dives, la Giornata Internazionale delle popolazioni rom, sinti, kalé, manouche e romanichals. La scelta è caduta su tale data, perché fu l’8 aprile 1971 che si riunì a Londra il primo Congresso dell’International Romani Union, riconosciuta dall’ONU nel 1979 come associazione mondiale non governativa. Fu in quel giorno che i Rom si riconobbero come nazione, si scelsero una bandiera e si diedero un inno: “Djelém, djelém”. Che dice: “Ho viaggiato lungo molte strade, /Ed ho incontrato dei Rom felici. / Ditemi: da dove arrivate / Con le vostre tende / Su queste strade del destino? / Oh, Rom, / Oh, giovani Rom. / Anch’io avevo una grande famiglia, / Ma la Legione Nera l’ha sterminata; / Venite con me, Rom del mondo intero. / Percorreremo nuove strade. / È ora , alziamoci, / E’ venuto il momento di agire. / Oh, Rom, / Oh, giovani Rom”.

 

E, per ricordare questa giornata, vi offriamo in lettura, nel congedarci, un testo della scrittrice serba di etnia rom, ma che abita e opera in Italia come mediatrice culturale, Dijana Pavlovic. Il brano è apparso su L’Unità del 19 giugno 2008. È una voce che interpella tutti. Ed è, per oggi, il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

A sette anni scoprii che per i miei compagni di classe ero una “zingara”. Ero disperata. Mia madre mi ha detto: «Peggio che zingari è essere ignoranti. Studia per essere uguale agli altri». Allora avevo tanta paura di quello che ero. Poi sono arrivati gli anni 90 e le paure sono aumentate: il crollo della Jugoslavia, la guerra, la fame, la paura del futuro, dei musulmani albanesi e bosniaci, dei croati, dei serbi nazionalisti, della dittatura. Mi ha salvato avere amici bosniaci musulmani, croati, leggere libri che uscivano a Tirana, a Zagabria, a Sarajevo, condividere esperienze teatrali ai rari festival teatrali. Da dieci anni vivo in Italia e ho sentito crescere intorno a me paure analoghe: la paura degli zingari che rubano i bambini, dei musulmani tutti terroristi, dei neri, dei cinesi, di tutti quelli che sono diversi da noi per etnia, per religione. E insieme con la paura ho visto crescere l’indifferenza per il destino degli altri. Paura e indifferenza seminate a piene mani dalla politica e dai mezzi di comunicazione i cui frutti sono una società piena di cattiveria, disgregazione, solitudine. Un bambino rom muore bruciato in un campo della disperazione? Normale. I bambini “stranieri” segregati in classi diverse avranno un futuro separato? Normale. I musulmani, costretti a pregare in moderne catacombe, non ci vogliono bene? Normale. Ora la mia paura è che non si possa far nulla contro l’odio e l’indifferenza per l’altro. Mi aiuta, ora come allora, quello che mi ha detto mia madre: studia per superare il pregiudizio. La libertà di spirito nessuno ce la può togliere, né la televisione né la cattiva amministrazione. È ciò che ci mette in condizione di dire una semplice parola davanti ai grandi imprenditori della paura e dell’odio: no! È l’unico potere che possiamo avere ed esercitandolo avremo la speranza di un futuro migliore per tutti. (Dijana Pavlovic, Alfabetizzazione, solo la cultura potrà fermare il pregiudizio).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.  

Giorno per giorno – 08 Aprile 2011ultima modifica: 2011-04-08T23:59:00+02:00da fraternidade
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