Giorno per giorno – 07 Aprile 2011

Carissimi,

“Io vi conosco: non avete in voi l’amore di Dio. Io sono venuto nel nome del Padre mio e voi non mi accogliete. E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?” (Gv 5, 42-44). Dietro alle autorità dei giudei, a cui Gesù si rivolge, non ci sono soltanto né particolarmente loro, c’è, assai più consistentemente,  chi, già nella comunità di Giovanni, ma, più in generale, in ogni altra comunità a venire, si muove nella stessa logica. Resistendo alla rivelazione di Dio che Gesù incarna, quella del Dio-che-si-prende-cura delle sue creature e le libera-dal-male (non dimentichiamo che Gesù ha appena guarito il paralitico). E lo fa senza sosta. Contravvenendo, nel caso, la Sua stessa santa Legge.  Gesù non si preoccupa di dimostrare l’esistenza di Dio. Del resto, Dio non esiste alla maniera nostra, solamente più grande, infinitamente più grande, più potente, più sapiente, onnipresente. Più tutto di quanto noi si riesca a immaginare. Gesù si limita a dire che Dio è quell’agire (Giovanni, nelle sue lettere, dirà “Dio è amore”). Per Lui, l’ateo vero è chi non ama (è questo il significato del “non mi accogliete”, non credete, cioè, che Dio è così, come io vi mostro). È quello l’ateo, anche se, magari, è perfettamente ortodosso nella sua dichiarazione di fede e nella sua pratica di culto. D’altra parte, l’aveva già scoperto il salmista: “Sono i malvagi a dire in cuor loro ‘Non c’è Dio’: coloro che sono corrotti e disprezzano la giustizia. Coloro tra i quali non c’è nessuno che pratichi il bene” (Sal 53, 2). Anche se può capitare che si facciano vedere a messa, qua e là. Del resto, da sempre, “Parigi val bene una messa!”. Ora, chi testimonia che Gesù è da Dio (“quel” Dio, non qualsiasi Dio), è, sì,  Giovanni Battista (v. 33), ma, più ancora, sono le opere che egli compie, e anche il Padre (v. 37), sempre che ne sappiamo ascoltare la parola, e, infine, le Scritture (v.39), il cui significato complessivo orienta alla manifestazione che Lui è. Quelle Scritture che Rabbi Hillel diceva riassumersi tutte nel “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”. Che, poi, in positivo, è il comandamento dell’amore al prossimo.  Eppure, quante volte anche noi che ci diciamo cristiani, perciò suoi discepoli, facciamo e ci facciamo guerra in nome della verità (che affermiamo di detenere), preoccupati della nostra gloria, del nostro successo, della nostra affermazione (come singoli, come movimento, come chiesa, come “civiltà”, o che altro),  e dando e ricevendo elogi (v. 44) tra chi a tutto questo è funzionale. Ma rinnegando, però, così facendo, l’unica e più vera gloria di Dio, che è data dalla vita, la salute, la felicità dei suoi figli, di tutti i suoi figli, a cominciare dagli ultimi!  “La gloria di Dio è il povero che vive”, secondo la libera traduzione che mons. Romero dava della “Gloria Dei homo vivens” di Ireneo di Lione. Noi crediamo davvero alla testimonianza di Gesù? Cioè, in concreto, nel nostro agire, cerchiamo di testimoniare Lui e il Suo (e, perciò, anche nostro) Dio? O ci accodiamo senza troppi scrupoli alle bestemmie (in alcuni determinati ambiti ovviamente contestualizzabili, con il beneplacito di volonterosi e paciosi monsignori), di chi oltraggia Dio, ma, più ancora, i suoi figli?    

 

Il calendario ecumenico ci porta la memoria di Tichon di Mosca, pastore della Chiesa ortodossa russa.

 

07 PATRIARCA TICHON di Mosca.jpgVasilij Ivanovic’ Bielavin era nato il 31 gennaio (19 gennaio secondo il calendario giuliano) 1865, nella famiglia di un parroco di provincia, a Toropec, nella provincia di Pskov. Al termine degli studi entrò in monastero, assumendo il nome di Tichon. A 32 anni ricevette la consacrazione episcopale e nel 1898 fu nominato vescovo delle Isole  Aleutsk e dell’Alaska, com’era chiamata allora la diocesi della Chiesa ortodossa russa nell’America settentrionale. Tornato in patria nel 1907, fu nominato vescovo di Iaroslav, più tardi di Vilnius, e, nel 1917, metropolita di Mosca. Presiedette nello stesso anno il Concilio della Chiesa russa che, dopo oltre due secoli,  ripristinò il titolo di Patriarca, conferendolo allo stesso Tichon. La sua elezione coincise con il periodo drammatico della rivoluzione, che per la Chiesa russa significò essere posta davanti all’alternativa secca: o persecuzione o collaborazionismo. Tichon cercò di tenersi fuori dalla politica, ponendosi come unico obiettivo quello  del servizio reso a Dio per la salvezza delle anime. Ma ciò non gli evitò, nel 1923, di essere deposto, arrestato e confinato. Subì addirittura un attentato, che costò la vita a Iacov Polozov, un novizio addetto alla sua cura. Nel gennaio 1925 Tichon si ammalò gravemente. Dopo un apparente miglioramento, con l’approssimarsi della primavera, una ricaduta lo costrinse a farsi ricoverare in ospedale. Il 7 aprile (25 marzo del calendario giuliano, festa dell’Annunciazione), ebbe un’improvviso peggioramento. Poco prima di mezzanotte chiese l’ora e disse sospirando: “Presto verrà la notte, scura e lunga”. Fece due volte il segno della croce, alzò la mano per segnarsi la terza volta, ma morì prima di riuscire a farlo. Ci fu chi sospettò che l’avessero avvelenato. Fu canonizzato nel 1989.

 

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Libro dell’Esodo, cap.32, 7-14; Salmo 106; Vangelo di Giovanni, cap.5, 31-47.

 

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

 

Laura e Rafael, da stasera, si sono trasferiti nella loro casetta (si tratta, in realtà, di una stanza con bagno) costruita sul retro della casa di Valdecí. A significare la conquista di uno spazio di intimità, e una maggiore autonomia e responsabilità nel progettarsi come famiglia, sotto la benedizione di Dio e l’amicizia nostra. La riunione della comunità che è avvenuta da loro, è stata però inevitabilmente segnata dalla tristezza per le notizie sulla strage alla scuola di Rio. Nella preghiera abbiamo messo anche le vittime  del naufragio, avvenuto lì da voi, nel Canale di Sicilia, e quelle della guerra in Libia e in Costa d’Avorio e in ogni dove.

 

Noi prendiamo spunto dalla memoria di Tichon di Mosca, per proporvi la pagina di un teologo ortodosso, che già conoscete, Pavel Evdokimov. È tratta dal suo libro “Le età della vita spirituale” (EDB) e dice della sfida che rappresenta per noi un certo ateismo, un ateismo buono, una “grazia”, che ci mette con le spalle al muro e snida l’ateismo pratico di noi che ci diciamo credenti, la nostra negazione del Dio di Gesù. È, per oggi, il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

Simone Weil osserva che vi sono due tipi di ateismo, uno dei quali è una purificazione dell’idea di Dio. In un certo senso è addirittura una grazia. La Chiesa è invitata a presentare agli uomini la “dimostrazione” del vero Dio; può inaugurare un dialogo “ecumenico” con l’uomo ateo, perché l’ateismo è chiaramente un’eresia cristiana; questa non ha ancora mai affrontato la fede nella sua essenza. La fede non è contestata in tutta la sua misteriosa realtà, in quanto dono di Dio, ma sono i credenti e le espressioni storiche ad esser messi in questione. Il fatto che i condizionamenti empirici favoriscano l’incredulità dipende dalla proclamazione del nostro tempo che l’uomo è diventato adulto e non sopporta più né demissioni né tutele al di sopra di lui. Vi è in questo un elemento molto positivo che bisogna prendere sul serio: è il rifiuto di un riconoscimento di Dio che non sia al tempo stesso un riconoscimento dell’uomo. È l’ateismo che costringe il cristiano a correggere le colpe flagranti del passato e a riconoscere l’uomo e Dio ad un tempo, a indicare in Dio l’epifania umana. La fede di Abramo confessa: a Dio ogni cosa è possibile; la fede cristiana implica che ogni cosa è possibile anche all’uomo. Per gli apostoli e i santi il rapporto con Dio era sempre concomitante a quello con l’uomo. Nel dialogo moderno tra atei e cristiani, all’ateismo marxista della solidarietà deve corrispondere l’uomo della comunità ecclesiale, all’ateismo esistenzialista della solitudine, il monaco. È urgente sganciare il messaggio dell’evangelo da ogni contesto storico e sociale superato; la nostra epoca, come dice Simone Weil, ha bisogno di una “santità che abbia del genio”. Sarebbe un errore grave porre un segno negativo sull’epoca moderna. L’uomo cresce con le sue esigenze; l’idea religiosa si approfondisce nella stessa misura. La storia si dirige verso l’interrogativo ultimo su Dio e sull’uomo e le due cose costituiscono il mistero unico dell’amore divino. (Paul Evdokimov, Le età della vita spirituale).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 07 Aprile 2011ultima modifica: 2011-04-07T23:34:00+02:00da fraternidade
Reposta per primo quest’articolo