Giorno per giorno – 09 Marzo 2011

Carissimi,

“Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 6, 1). Il testo greco, a dire il vero, non parla di “buone opere”, parla di giustizia (dikaiosyne), con cui si rende il termine ebraico tzedaqah, il quale, nel tempo, era, sì, venuto ad indicare anche le opere di misericordia, ma aveva un sostrato di senso assai più ricco e pregnante (come è successo, del resto, alla nostra parola “carità”). Tale termine designa, infatti, in primo luogo, la maniera d’essere di Dio, che potremmo cercare di caratterizzare come fedeltà, benevolenza, dono di salute-salvezza.  Atteggiamento nel quale anche noi possiamo venire coinvolti. Gesù sembra allora richiamare qui l’ammonimento pronunciato poco prima, sempre nel Discorso della Montagna: “Se la vostra giustizia (pure qui dikaiosyne) non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt  5, 20). Cioè, il progetto di Dio restarà per voi lettera morta. Punto e basta.  Ma cos’è che fa la differenza tra il fariseo (o il religioso) che cova in noi e ciò che ci chiede Gesù. Forse è proprio il “chi” davanti a cui noi agiamo o per cui recitiamo. Chi è il nostro spettatore? O chi sono? Noi, gli altri, o Dio?  E quale Dio? Il Dio che ci vuole giusti della sua giustizia, cioè fedeli, benevoli, solidali, salvifici (!) nei confronti della comunità umana (“Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” Mt 5,48), o un dio part-time, che si accontenta di qualche pubblica preghiera, di qualche elemosina o di qualche digiuno (sono gli esempi che porta Gesù, ma noi potremmo allungarne la lista a dismisura). Le quali buone azioni, sono, appunto, pure buone, ma servono a nulla, se non arrivano a dire che noi si è preso sul serio, da esserne interamente posseduti come da una passione trasformante,  il “Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze” (Dt 6, 5). Che poi è assumere per la nostra vita, trasformandolo in azioni, ciò che questo Dio significa. Diversamente, avremo magari gratificato a sufficienza il nostro io, o ci saremo conquistati gli elogi e la stima di qualcuno dal quale ci saremo fatti debitamente vedere, ma non avremo aggiunto un accidenti di niente alla verità del nostro essere. Dunque, niente esibizionismi, niente maschere. La Quaresima che è cominciata oggi con le ceneri che ci hanno segnato la fronte è un’occasione in più che ci è offerta (quante ne abbiamo già disinvoltamente perse) per calarci nella nostra intimità più profonda (“entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto” Mt 6, 6)  e fare i conti con la nostra verità. Oltre ogni bruttura, incubo, peso, ferita, delusione, rimozione, frustrazione, che (assieme alle cose belle) vi potessimo incontrare, vedremo risplendere il volto del Figlio dell’uomo (Gesù, sì, ma anche il povero, i poveri, in cui Lui s’identifica), che ci riconcilia con il Padre, e perciò con la vita. E ci apre al mondo e alla sua, nonostante tutto, così bella umanità.

 

I testi che la liturgia di questo Mercoledì delle Ceneri propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Profezia di Gioele, cap.2, 12-18; Salmo 51; 2ª Lettera ai Corinzi, cap.5, 20 – 6, 2; Vangelo di Matteo, cap.6, 1-6. 16-18.

 

La preghiera del mercoledì è in comunione con tutti gli operatori di pace, quale che ne sia il cammino spirituale o la filosofia di vita.

 

Oggi il nostro calendario ci porta le memorie di Francesca Romana, sposa, madre di famiglia e religiosa, e di Swami Sri Yukteswar Giri, mistico indiano.

 

09 FRANCESCA ROMANA.jpgFrancesca Bussa de’ Buxis de’ Leoni, nacque a Roma nel 1384 in una famiglia che (come lascia arguire la sfilza di cognomi) era nobile e ricca. Il che deve suonare di qualche consolazione per i cammelli che disperano di poter attraversare la cruna dell’ago. Desiderosa di abbracciare la vita religiosa, fu però obbligata dal padre a sposare, appena dodicenne, Lorenzo de’ Ponziani, la cui famiglia, lungo gli anni, si era fatta ricca e aveva comprato la nobiltà, con i proventi del mestiere di macellai. A 16 anni ebbe il primo dei tre figli, due dei quali avrebbe perduto a causa di un’epidemia di peste. Da subito, la giovane sposa, prese a dedicare il suo tempo libero dagli impegni familiari, a soccorrere poveri ed ammalati, in una situazione generalizzata di degrado economico e sociale. Nel 1425 lei e altre amiche, che aveva coinvolto nelle sue attività caritative, si costituirono in associazione, le “Oblate Olivetane di Maria”, che, nel 1433, papa Eugenio IV eresse in congregazione, con il titolo di “Oblate della Santissima Vergine”. Rimasta vedova, poco più che cinquantenne, si unì alle sue compagne, lasciando l’amministrazione della casa al figlio Battista e alla consorte di questi. Trascorse gli ultimi quattro anni della sua vita in convento, istruendo ed edificando le consorelle nell’amore e nella dedizione ai poveri. Morì il 9 marzo 1440.

 

09 SRI YUKTESWAR.jpgPriya Nath Karar (questo il suo nome alla nascita) era nato il 10 maggio 1855 a Serampore (India), nella famiglia di un benestante uomo d’affari.  Divenuto adulto, il giovane si sposò e passò ad amministrare la sua eredità, vivendo responsabilmente i suoi doveri e obblighi sociali. In età matura incontrò il suo guru, Sri Lahiri Mahasaya, e si dedicò alla pratica del Kriya Yoga. Rimasto vedovo, fu iniziato nell’ordine degli Swami, a Bodh Gaya, e assunse il nome di Sri Yukteswar Giri. Ebbe, assieme a molti altri doni, quello della guarigione spirituale, anche se lo esercitò sempre in maniera estremamente discreta. Sri Yukteswar fu il maestro spirituale di Paramahansa Yogananda, a cui affidò la missione di diffondere il Kriya YogaYukteswar era convinto che il matrimonio tra l’eredità spirituale dell’Oriente e la scienza e teconologia dell’Occidente avrebbe comportato un progressivo superamento  delle sofferenze materiali, psicologiche e spirituali del nostro tempo. Il 9 marzo 1935, Swami Sri Yukteswar abbandonò il suo corpo, che fu seppellito nel giardino del suo ashram di Puri, dove successivamente è stato edificato un tempio in sua memoria.

 

È tutto per stasera. Noi ci si congeda qui, lasciandovi alla lettura di una pagina tratta dai Capitoli tenuti da P. Christian de Chergé ai monaci di Tibhirine. In essa egli cita ampiamente P. Philippe Ferlay sul tema della conversione. La prendiamo come parola rivolta a noi in questo inizio di quaresima e ve la proponiamo come nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

“Gesù non comincia col dire: Abbiate fede. Oppure: Abbiate fede in me. Egli proclama: Convertitevi e credete alla Buona Notizia”. Padre Ferlay commenta: “Bisogna riconoscere che quando Gesù predica, tutti coloro che l’ascoltano sono, in un modo o nell’altro, dei credenti”. Ma Gesù, non più di Pietro o Paolo, non separa il cammino di fede dalla conversione del cuore. Padre Ferlay continua: “Convertirsi, voltarsi. Coloro che praticano lo sci sanno bene cosa voglia dire. Ricordano la loro prima caduta. Nell’ambito spirituale è ancora più difficile. Si tratta di accettare un cambiamento radicale nel senso e nell’orientamento della vita. Non si tratta di distruggersi, di farsi del male, di soffrire per soffrire. Si tratta invece di trovare la via della felicità (legame tra conversione e buona notizia, beatitudine), di percorrerla, di fiorire fin da questa vita sotto lo sguardo di Dio  e nella comunione con i fratelli (ho detto che la conversione a Dio è conversione con gli altri, con dei fratelli, o non è). Ma Dio che è Lui stesso tutto donato ci insegna fin dal principio (del Vangelo) che non si trova la felicità ripiegandosi su se stessi e che il fiore non può sbocciare se non si apre il mattino al sole di primavera. Il fiore non saprebbe essere veramente bello rinchiudendosi continuamente su se stesso, come fa la sera per proteggersi dal freddo e dalla notte… L’uomo non si realizza rimirando se stesso: fiorisce quando si dona, quando si converte, si volge verso l’altro, verso l’altro che è suo fratello, verso quest’altro assoluto che è il suo Dio. Lasciate dunque che il vostro cuore si converta, lasciate che Dio rivolti il vostro cuore, come il contadino rivolta il suo campo. Cammino stretto, fatica logorante. Potrà succedere che in certi momenti abbiate paura. Paura di perdere tutto e di lasciarci le penne. Ma scoprirete poco a poco  che le penne che cadono in questa avventura sono solo penne usate e sgualcite che non valgono granché. Accettate l’avventura, mettete vi in cammino e scoprirete che è un cammino di gioia”. Per il cristiano, come per l’innamorato, non c’è vera conoscenza (conoscenza di fede) se non sul cammino dell’amore (quello della conversione nel senso pieno della parola). (Christian de Chergé, Dieu pour tout jour).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 09 Marzo 2011ultima modifica: 2011-03-09T23:06:00+01:00da fraternidade
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