Giorno per giorno – 25 Febbraio 2011

Carissimi,

“Alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie” (Mc  10, 2). La risposta, categorica,di Gesù, la conosciamo: “L’uomo non divida quello che Dio ha congiunto” (v.9). E, tuttavia, Gesù non stava creando nessuna norma per il futuro Codice di Diritto Canonico, né tanto meno per il Codice civile degli stati. Gesù invita i suoi – i farisei erano anch’essi la sua gente – a non prendersi in giro. E ricorda loro – e a noi – la bellezza del progetto originario, rappresentato dall’incontro tra due libertà disposte a dirsi di sì per sempre, nell’amore, per costruire una storia totalmente nuova e capace di ridirsi ogni giorno, con immutata fedeltà. Separazione, divorzio, e ciò che li motiva e determina a monte, hanno invece a che fare con la storia del peccato (egoismo, arroganza, disprezzo, menzogne, violenza e quant’altro), la “durezza del cuore” (v.5), di cui parla Gesù,  se non addirittura la “pornèia”, cui accenna Matteo (cf Mt 19, 9) – una vera e propria prostituzione (quante volte, del resto, il matrimonio si riduce ad un mercato di unilaterali o reciproche prestazioni) -, che nulla ha a che fare con il sogno di Dio. E neppure dei suoi figli e figlie. E che Lui, quindi, si è guardato bene dal congiungere. Forse, allora, più che la preoccupazione di legiferare o meno sul fallimento di cosiddetti matrimoni (salvo che non sia per tutelare le parti più deboli),  c’è bisogno che si torni ad educare a “quel” progetto (e a testimoniarlo), perché le generazioni che ci seguono possano meglio apprezzarlo e più adeguatamente viverne e gioirne. 

 

Il  nostro calendario ci porta oggi le memorie di Robert d’Arbrissel, monaco e asceta, e di Peter Benenson, fondatore di Amnesty International.

 

25 ROBERT D'ARBRISSEL.jpgRobert era nato intorno al 1045 ad Arbrissel (oggi Arbressec), nella diocesi di Rennes, in Bretagna. Durante il pontificato di Gregorio VII, si recò a Parigi, per compiervi i suoi studi e fu allora che divenne sensibile ai temi della riforma della Chiesa. Era questa un’epoca difficile, caratterizzata da una pericolosa confusione/competizione tra potere sacro e potere profano. E chi ne faceva le spese era soprattutto la povera gente, oltre che, naturalmente, la testimonianza dell’Evangelo. Numerosi movimenti popolari erano sorti un po’ dovunque a contestare il profilo decisamente squallido della vita del clero, segnata dalla compravendita degli uffici ecclesiastici, dalla corruzione, e dalla pratica concubinataria dei suoi membri. Nel 1089, Sylvestre de La Guerche, vescovo di Rennes,  richiamò Robert in diocesi, perché desse il suo contributo all’azione di riforma. Lui ci si dedicò con grande zelo, facendosi ovviamente molti nemici. Tanto è vero che, alla morte del vescovo, nel 1093, fu costretto a fuggire dalla città e rifugiarsi ad Angers. Due anni più tardi, però, si ritirò nella foresta di Craon,  per menarvi vita ascetica ed eremitica. Negli anni successivi, il diffondersi della sua fama, richiamò al suo seguito un numero crescente di penitenti, uomini e donne, nobili e popolani, matrone dell’aristocrazia e prostitute, lebbrosi e mendicanti,  oltre a numerose concubine dei preti che la riforma aveva privato dei loro ex-consorti. Nel 1101, anche per rispondere alle critiche di alcuni vescovi, orripilati per tale facile promiscuità, decise di dare una dimora fissa ai suoi seguaci, organizzandone la convivenza. Li insediò così nella valle di Fontevraud, sulla riva sinistra della Loira, nei pressi di Saumur e li strutturò in ordine religioso misto, maschile e femminile,  dando loro da osservare  la Regola benedettina. Volle che essi fossero conosciuti solo come “poveri di Cristo” e l’ideale che propose loro  fu “in nudità seguire Cristo nudo sulla croce”. A capo di tutti, decise di porre una donna come abbadessa, e scelse Pétronille de Chemillé. Il 18 febbraio 1116, Robert cadde gravemente malato, morendo pochi giorni dopo, il  25 febbraio. 

 

25 Peter Benenson.jpgPeter Benenson era nato a Londra, il 31 luglio 1921, figlio unico di Harold Solomon e di Flore Benenson, una famiglia ebraica di origine russa. Sedicenne, per non far torto a quel che sarebbe diventato da grande, cominciò a organizzare campagne di solidarietà, la prima in favore degli orfani della guerra civile spagnola, poi, durante la Seconda Guerra mondiale, per aiutare due giovani ebrei a sottrarsi alla persecuzione nazista. E così via. Nel 1957, quando ormai da anni esercitava la professione di avvocato, fondò “Justice”, un’organizzazione in difesa dei diritti dell’uomo. Data all’anno seguente la sua conversione al cristianesimo, con l’ingresso nella chiesa cattolica. Nel 1961, dopo aver letto dell’arresto e della condanna, a Lisbona, di due giovani che avevano brindato in pubblico alla libertà delle colonie portoghesi, pubblicò su un settimanale londinese un appello per un campagna di 12 mesi finalizzata alla liberazione di tutti i prigionieri per motivi di opinione. La risposta entusiasta che la proposta ricevette ovunque convinse Benenson e due suoi amici, Sean MacBridge e Eric Baker, a creare  Amnesty International, un movimento globale di attivisti per i diritti umani, impegnati a denunciare le ingiustizie dei governi ed esprimere solidarietà fattiva verso le vittime. Lungo tutta la sua vita questi interessi non sarebbero mai venuti meno, anche quando scelse per un periodo di lasciare ogni incarico nell’organizzazione. Negli anni ’80, divenne il presidente di una neonata “Associazione di Cristiani contro la Tortura” e, all’inizio del decennio successivo, dedicò tutte le sue energie ad organizzare soccorsi per gli orfani del regime di Ceaucescu, in Romania. Nel 1986, per il venticinquennale di fondazione di Amnesty International, durante una cerimonia a Londra, Benenson accese una candela e disse queste semplici parole: “Questa candela non brucia per noi, ma per tutte quelle persone che non siamo riuscite a salvare dalla prigione, che sono state uccise, torturate, rapite, scomparse. Per loro brucia la candela di Amnesty International”.  Morì il 25 febbraio 2005 al’ospedale John Radcliff di Oxford.

 

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Libro del Siracide, cap.6, 5-17; Salmo 119; Vangelo di Marco, cap.10, 1-12.

 

La preghiera del Venerdì è in comunione con i fedeli dell’Umma islamica, che confessano l’unicità del Dio clemente e misericordioso.

 

Stasera si è tenuta qui in cittá, nella  Praça dos Eventos, quella che si chiama la “colação de grau” – che è poi la consegna dei diplomi che si riferiscono al primo grado accademico (cui seguono la pos-graduação, il mestrado e i doutorado)  dell’Università Statale di Goiás. La Comunità del Rio Vermelho ha festeggiato Andréia, che ha conquistato la licenciatura in Storia; quella dell’Aeroporto, Bruno, in Geografia. Nella vicina Itaberai, Darlan ha ottenuto la sua, in Scienze Amministrative. Beh, auguri a tutti!!

 

Oggi era anche il quindicesimo anniversario della consacrazione episcopale di Dom Eugenio Rixen, che, dal 1999 è vescovo della nostra diocesi. Noi gli si è scritto così: “Caro dom Eugenio, forse non saranno stati sempre facili questi quindici anni di servizio episcopale, tra fratelli vescovi, ciascuno dei quali, probabilmente, ha in testa un’immagine differente di chiesa e del ministero che dovrebbe prestarle – alcuni, chissà, semplicemente preti in carriera (“domani forse sarò arcivescovo, cardinale e Dio [non] voglia papa!”); o portavoci (e, nella peggiore delle ipotesi gendarmi o inquisitori) del Vaticano; o venditori di droga a buon mercato (se dessimo ascolto al buon Carlo Marx); o, ancora, come metteva in guardia Gesù, parlando di alcuni farisei, attori mediocri, sufficientemente ipocriti – mascherati – per ingannare gli altri e se stessi, ma forse non Dio, quand’anche non credano in Lui (il che sospettiamo possa succedere più facilmente di quanto non si pensi). Altri, infine, sperabilmente, un buon numero, semplicemente pastori. Di Lei, dom Eugenio, noi sappiamo di poterci fidare. Noi ricordiamo ancora quando, proprio all’inizio del suo ministero pastorale qui a Goiás, alcuni dei notabili della città la soprannominarono Dom Ingenuo (non ci ricordiamo bene in rapporto a che cosa). Credevano così di ridere di Lei. Noi, pensiamo invece, che la sua ingenuità (se accettiamo di chiamarla così) si confonde con l’innocenza dei piccoli (nel significato etimologico del termine, e cioè l’atteggiamento di colui che non fa del male – non nocet – agli altri), quella che Gesù sognava per i suoi discepoli, la stessa di Francesco d’Assisi o, dato che Le piace così tanto, di un Carlo de Foucauld. L’ingenuità di chi pensa (si illude, nel pensiero di qualcuno) che la Chiesa possa essere differente, sacramento di una differerente umanità, capace di accogliere tutti, rispettandoli nella loro diversità, e di prendersi cura di tutti, ma in primo luogo dei poveri, i preferiti di Dio, che sono  il “luogo” in cui accade il Regno; una chiesa che insegue le pecorelle smarrite – con la convinzione – ingenua, ma che importa? – che possano non smarrirsi più, e, infine, e più di tutto, una chiesa ben cosciente che SEGUIRE CRISTO È SERVIRE CON LUI. Beh, noi abbiamo la fortuna di averLa come nostro pastore. E ciò che possiamo assicurare è che [non soltanto] oggi pregheremo perché resti ancora per molto tempo con noi, in questa piccola chiesa di Goiás. “Ad multos anos”, allora”.

 

Bene. Noi ci si congeda qui, offrendovi un testo di don Primo Mazzolari, che troviamo in rete, senza nessuna ulteriore precisazione bibliografica e che speriamo perciò non sia apocrifo. Ma, in ogni caso, ci è parso in qualche modo adeguato a ricordare una figura come Peter Benenson e altre del suo genere. Ed è, per oggi, il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

Ci siamo impegnati. Senza pretendere che altri si impegni con noi o per suo conto, come noi o in altro modo. Ci siamo impegnati senza giudicare chi non si impegna, senza accusare chi non si impegna, senza condannare chi non si impegna, senza cercare perché non si impegna.  Sappiamo di non poter nulla su alcuno, né vogliamo forzare la mano ad alcuno, devoti come siamo e come intendiamo essere al libero movimento di ogni spirito più che al successo di noi stessi o dei nostri convincimenti. Noi non possiamo nulla sul nostro mondo, su questa realtà che è il nostro mondo di fuori, poveri come siamo e come intendiamo rimanere. Se qualcosa sentiamo di potere; e lo vogliamo fortemente; è su di noi, soltanto su di noi. Il mondo si muove se noi ci muoviamo, si muta se noi ci mutiamo, si fa nuovo se alcuno si fa nuova creatura, imbarbarisce se scateniamo la belva che è in ognuno di noi. L’ordine nuovo incomincia se alcuno si sforza di divenire uomo nuovo. Ci siamo impegnati per trovare un senso alla vita, a questa vita, alla nostra vita; una ragione che non sia una delle tante ragioni che ben conosciamo e che non prendono il cuore; un utile che non sia una delle solite trappole generosamente offerte da chi la sa lunga. Si vive una sola volta e non vogliamo essere giocati, in nome di qualche piccolo interesse. Non ci interessa la carriera, non ci interessa il denaro, non ci interessa il successo né di noi stessi, né delle nostre idee. Non ci interessa di passare alla storia, ci interessa di perderci per qualcosa e per qualcuno che rimarrà anche dopo che noi saremo passati e che costituisce la ragione del nostro ritrovarci. Ci siamo impegnati non per riordinare il mondo, non per rifarlo su misura; ma per amarlo. Perché noi crediamo all’amore, la sola certezza che non teme confronti, la sola che basta per impegnarci perdutamente. (Don Primo Mazzolari, Impegnarsi).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 25 Febbraio 2011ultima modifica: 2011-02-25T23:18:00+01:00da fraternidade
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