Giorno per giorno – 07 Febbraio 2011

Carissimi,

“Là dove giungeva, in villaggi o città o campagne, deponevano i malati nelle piazze e lo supplicavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello; e quanti lo toccavano venivano salvati” (Mc 6, 56). Vent’anni fa il card. Martini, sul “lembo del mantello”, aveva costruito una sua giustamente famosa lettera pastorale. In essa – il riferimento era al racconto della guarigione dell’emoroissa, ma vale evidentemente anche per il testo di oggi – il vescono di Milano annotava: “Questo emergere della persona [dalla massa circostante] è avvenuto attraverso una comunicazione di forza risanatrice da parte di Gesù alla donna. Ma, a differenza di altre volte in cui la comunicazione è diretta (Gesù parla, comanda, tocca), qui è sufficiente un lembo del mantello, sfrangiato e impolverato, per stabilire la possibilità di un incontro”.  Da questa immagine, Martini traeva poi l’intuizione che anche attraverso gli “strumenti della massificazione dei mesaggi” fosse “possibile una vera comunicazione umanizzante e addirittura salvifica”. E finiva per domandarsi: “Com’è possibile che, mediante il mio televisore (inteso qui come simbolo di tutti gli altri mass media), io entri in contatto addirittura con la forza salvifica di Gesù?  E si metteva poi dal punto di vista degli operatori e dei fruitori di comunicazione, offrendo suggerimenti e orientamenti. Beh, stamattina ci dicevamo che, forse è ancora più importante di ieri, farci attenti a questo aspetto della comunicazione, sempre più pervasivo nella nostra vita, e quindi così bisognoso di un’adeguata educazione, di istruzioni per l’uso. Perché non abbia effetti devastatori nella nostra crescita personale e ci sia, al contrario di aiuto nel nostro processo di maturazione umana e cristiana. E, comunque, al di là di questo aspetto specifico, ci chiedevamo anche se, nelle relazioni che instauriamo, si sia capaci di questo incontro personale, di questa attenzione rivolta al singolo, alle sue attese, e di questa disponibilità ad accogliere sempre il dono che l’altro(a) è. Perché l’energia di cura e di salvezza passa anche attraverso questi piccoli gesti e questi atteggiamenti.

 

Oggi il nostro calendario ci ricorda il martirio di Sepé Tiaraju e del suo popolo guaraní; il metropolita Vladimir di Kiev con tutti i nuovi martiri del XX secolo in Russia e Ucraina; e Andraus El Samu’ili, monaco copto.

 

07 SEPÉ.jpgNei secoli XVII e XVIII, i missionari gesuiti, al fine di sottrarre le popolazioni indigene alla schiavitù e allo sfruttamento da parte dei bianchi, crearono nelle colonie spagnole e portoghesi dell’America Latina numerose comunità agricole (reducciones), basate sulla proprietà collettiva della terra e delle macchine, dotate di ampi margini di auto-gestione amministrativa e, soprattutto, tenute separate dal mondo dei colonizzatori. Questo, per proteggerne in primo luogo l’incolumità, ma anche per fornir loro quell’istruzione intellettuale, religiosa, tecnica e associativa che, nella visione dei missionari, doveva più facilmente garantirgli la sopravvivenza. Si trattò, dunque, di un’esperienza improntata all’ideale di un comunitarismo egualitario che risaliva al cristianesimo primitivo. Nel 1732 si contavano una trentina di “reducciones” per un totale di circa 150.000 abitanti. Alla metà del secolo  le autorità coloniali, preoccupate per il significato sociale  trasgressivo dell’ ordine esistente che le “reducciones” andavano assumendo e per il potere alternativo che i gesuiti vi avevano costruito, posero fine con la forza all’esperimento. È in questo contesto che, nel 1753, Sepé Tiaraju prese l’iniziativa dell’insurrezione indigena della “riduccion” guaranì di São Nicolau, la prima a resistere all’ordine di evacuazione e trasferimento sull’altro lato del fiume Uruguay. A São Miguel (Rio Grande do Sul), Sepé guidò l’attacco ai carri che trasportavano le suppellettili della Chiesa, obbligando la comitiva a far ritorno alla missione. Per tre anni fu la figura centrale della resistenza agli imperi portoghese e spagnolo. Il 7 febbraio 1756 morì combattendo sull’ Arroio Caiboaté. In una scaramuccia, il suo cavallo cadde ed egli fu ferito da un soldato con una lancia. Prima di riuscire ad alzarsi fu ucciso con un colpo di pistola dal governatore di Montevideo che comandava la truppa.

 

07 VLADIMIRO DI KIEV.jpgBasil Nikiforovich Bogoyavlensky (che assunse in seguito il nome di Vladimir) era nato il 1° Gennaio 1848 nella famiglia del  prete Niceforo, nel villaggio di Malaya Morshka, distretto di Morshansky, provincia di Tambov, in Russia. Frequentata la scuola teologica di Tambov e proseguiti brillantemente gli studi  nella Facoltà teologica di Kiev, fu per sette anni professore in seminario, si sposò e fu ordinato prete il 13 gennaio 1882. L’8 febbraio 1886, dopo la morte della moglie e dell’unico figlio, entrò nel monastero della Santa Trinità di Kozlov, di cui fu nominato archimandrita. Il 21 maggio 1889 fu consacrato vescovo di Starorussk e, successivamente, esarca di Georgia, metropolita di Mosca, poi di Petrogrado e infine di Kiev. Ovunque, durante il suo ministero pastorale, si preoccupò di proteggere la sua gente, di combattere l’antica piaga dell’alcolismo, di offrire ai fedeli la luce di un genuino insegnamento cristiano. Nelle vicende drammatiche che accompagnarono la rivoluzione bolscevica, seppe mantenersi pastore di pace e di amore, fedele, onesto, tutto dedito a Cristo e alla Chiesa. La notte del 25 gennaio 1918 (7 febbraio nei calendario gregoriano), un gruppo di bolscevichi entrò nelle grotte della Laura di Kiev  e arrestarono il metropolita. Lungo la strada fu sommariamente processato e condannato a morte. Prima di morire volle benedire i suoi uccisori. Fu il primo di un numero incalcolabile di vittime, soprattutto monaci, preti e vescovi, che nei decenni successivi furono perseguitati, incarcerati, deportati e uccisi.

 

07 andraus_samuili_1.jpgYusef Khalil Ibrahim era nato verso il 1887 nel governatorato di Bani Suef, in Egitto.  A tre anni era divenuto cieco. Tredicenne, il padre l’aveva mandato al monastero di San Samuele, sull’altopiano del Qalamun, nel sud dell’Egitto, perché, alla scuola dei monaci, imparasse qualcose di utile per la vita. Yusef vi restò fino a ventidue anni, quando scoperta la vocazione monastica, chiese ed ottenne di farsi monaco. Fece dunque la sua professione religiosa e prese il nome di Andraus El Samu’ili. Da allora e fino alla morte la sua vita si svolse all’insegna dell’infanzia spirituale e della perfetta letizia, immersa nella preghiera, nell’abbandono alla volontà di Dio e nell’obbedienza ai fratelli, senza lamentarsi mai di nulla, in ogni circostanza. Lo chiamavano l’ “ospite celeste”, per dire che era già come un angelo. Morì il 7 febbraio 1989.

 

 

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Libro di Genesi, cap.1, 1-19; Salmo 104; Vangelo di Marco, cap.6, 53-56.

 

La preghiera di questo lunedì è in comunione con le religioni del subcontinente indiano: Vishnuismo, Shivaismo, Shaktismo.

 

Non abbiamo scritti di Andraus El Samu’ili né delle altre memorie di oggi. Vi offriamo comunque, perché la possiate pregare, una preghiera di Matta el-Meskin, certo la figura più conosciuta del monachesimo copto del nostro tempo. L’abbiamo trovata in rete, nel sito di Nati nello Spirito. Ed è, per oggi, il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

O Signore Gesù, Tu ci hai rivelato Dio in Te stesso. Tu sei Dio, a noi visibile e udibile. Tutti gli attributi di Dio di cui avevamo sentito parlare, li abbiamo visti in te. Tutto ciò che l’umanità desiderava sapere sulla natura di Dio, Tu ce lo hai rivelato in Te stesso. Bramavamo con tutto noi stessi  sapere cosa pensasse di noi Dio, ognuno nella sua propria condizione: il malato, il sofferente, l’oppresso, il peccatore. Ed ecco allora che lo abbiamo capito e toccato nelle parole che Tu pronunciasti alla samaritana, alla cananea, ai bambini. Parlo per averlo provato. Quanto ho vissuto insieme alla samaritana! Quanto ho vissuto insieme alla cananea! Quante volte ho pensato di essere al posto dei bambini! Ho provato quello che hanno dovuto provare loro tra le braccia di Cristo che li stringe a sé, poggia loro la mano sulla testa. Il tocco della tua mano, la strabordante tenerezza che mostrasti per il lebbroso, il paralitico, il sordo e il cieco, li abbiamo sentiti anche noi e abbiamo gioito di Dio, se Dio sei Tu. Ci interrogavamo: i pesi e le misure di Dio sono come quelli dell’uomo? Il peccatore respinto dagli uomini lo è anche necessariamente da Dio? Ma quando dicesti alla adultera “vai in pace, io non ti condanno”, fummo certi che Tu sei Dio e non uomo come noi. Scruti ciò che noi non vediamo e giudichi secondo criteri più elevati dei nostri. E allora gioimmo, gioimmo di aver trovato presso Dio misericordia, assente tra gli umani. Una sola cosa vediamo chiaramente davanti a noi ed è che se Dio, che nessuno ha mai visto, è come Te, allora Egli è un Dio buono che merita di essere da noi amato e venerato in Te con tutta la nostra mente, il nostro cuore, la nostra anima, le nostre forze. Signore Gesù Cristo, soltanto Tu, dando Te stesso, ci hai offerto l’espressione più meravigliosa di Dio, mostrandoci gli attributi di Dio più veri e più mirabili, compiendo le opere di Dio più maestose, praticando il Suo amore nei nostri confronti e completando il Suo potere. Signore Gesù Cristo, un’ultima cosa vorrei dirTi: noi abbiamo trovato Dio in Te. Tu solo meriti di possedere, non soltanto i nostri cuori, ma quelli del mondo intero. (Matta el Meskin, Chi dite che io sia?).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 07 Febbraio 2011ultima modifica: 2011-02-07T21:57:00+01:00da fraternidade
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