Giorno per giorno – 26 Gennaio 2011

Carissimi,

“Dopo questi fatti, il Signore designò altri settantadue discepoli e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi” (Lc 10, 1). Anche oggi, per via della memoria di Timoteo e Tito, la liturgia interrompe la lettura in sequenza del Vangelo di Marco, per offrirci il racconto della missione affidata ai discepoli, così come è riportato da Luca. Noi lo si è ascoltato stasera, durante la liturgia della Parola, animata dai più giovani della comunità, su all’Aeroporto, nella chiesetta dell’Aparecida. E la prima riflessione che ne è venuta fuori è stata proprio riguardo ai giovani: che in tempi oggettivamente difficili, sotto molti punti di vista, abbiano il coraggio di continuare ad essere discepoli. Chi sta già lavorando, pur senza la garanzia di un contratto, come Rafael e Valdirei, chi nella scuola, come Wanderson, Francielle, Adriana, Adriano, Jessica, chi all’Università, come Dayane e ora anche William e Gustavo (ma pensavamo anche a Elenice, che concluderà i suoi studi quest’anno), e chi, già con la laurea in tasca, come Eliane e Bruno (e Andréia che, negli ultimi tempi, abbiamo però perso un po’ di vista), attende di trovare un’occupazione adeguata, ma intanto si dà da fare come può. Già, ma cosa significa essere discepoli? Prima di tutto essere consapevoli della missione che si ha e della propria responsabilità come chiesa e nella chiesa. In una diocesi che da decenni ha sancito l’importanza della presenza, dell’azione e della capacità decisionale dei laici. Circa i contenuti della missione, il Vangelo ce li suggerisce: la preghiera al Padre (v.2); lo stile non aggressivo e il carattere nonviolento, anche in contesti di aggressività e violenza (v.3); la semplicità dei mezzi e la sobrietà dei comportamenti (v. 4); la proposta dello shalom, che è pace, benessere, accoglienza e cura reciproca, relazioni fraterne fra tutti (v.5); il “fare comunità”, nella gratuità e nella condivisione dei beni (v.7); la cura dei mali del corpo e dello spirito (v.9); l’annuncio-testimonianza della prossimità-presenza del Regno, cioè di quelle relazioni nuove che noi chiamiamo Gesù. E forse noi di una certa età ci si potrà demoralizzare, considerati i risultati, ma i giovani, stasera, sembravano avere una sufficiente carica di entusiasmo per durare di più e fare meglio di noi.     

 

Il giorno dopo la festa della Conversione di san Paolo, la Chiesa fa memoria di due suoi grandi amici e collaboratori: Timoteo e Tito, apostoli. Noi ricordiamo anche José Gabriel de Rosario Brochero, sacerdote e profeta tra i contadini dell’Argentina. I calendari monastici ricordano la figura di tre grandi riformatori del monachesimo occidentale: Roberto di Molesmes (1028-1111), Alberico (? – 1109) e Stefano Harding (1059-1134), fondatori dei Cistercensi.

 

26 TITO e TIMOTEO.JPGTimoteo, figlio di padre pagano e di madre ebrea, di nome Eunice (se dobbiamo prestar credito alle informazioni biografiche delle Lettere Pastorali), era nativo di Listra. Paolo lo prese come aiutante nel corso del suo secondo viaggio missionario e, da allora, egli rimase quasi sempre con lui, salvo quando Paolo lo inviò in missione nelle comunità che aveva fondato e che attraversavano momenti di difficoltà o di contrasto. Secondo la tradizione, divenne guida della comunità di Efeso, dove rimase fino alla fine dei suoi giorni.  Tito non è menzionato negli Atti degli Apostoli, ma vi fa cenno, in alcune delle sue lettere, lo stesso Paolo. Originario di Antiochia, Paolo lo inviò in missione, con successo,  alla comunità di Corinto, dove era sconosciuto. Più tardi fu messo alla guida della comunità di Creta, dove sarebbe rimasto fino alla morte. Per quel che riguarda le Lettere a Timoteo e a Tito, la maggior parte degli studiosi ritiene non si possano attribuire direttamente all’autoria dell’Apostolo.     

 

José Gabriel de Rosario Brochero  nacque il 16 (o il 17) marzo 1840, quarto dei dieci figli di Ignacio Brochero 26 CURA BROCHERO bis.jpge di Petrona Dávila, una povera coppia di contadini di Santa Rosa de Rio Primero, nella provincia argentina di Cordoba. Entrato in seminario nel 1856, fu ordinato sacerdote nel 1856. Durante il colera che colpì Cordoba nel 1867, si distinse per la sua infaticabile dedizione nell’opera di soccorso a malati e moribondi. Il 24 dicembre 1869 fu nominato curato della parrocchia di San Alberto, nella regione oggi conosciuta come Valle de Traslasierra, e fu ad abitare a Villa del Tránsito. In quell’inospitale regione, in mezzo a una popolazione condannata da secoli alla miseria, cominciò a seminare la semente del Vangelo che germina nella promozione integrale dei suoi parrocchiani. Con allegria e ottimismo, confidando nel Signore, e parlando il linguaggio del cuore, risvegliò in essi la solidarietà fino a trasformarli in una gigantesca famiglia. Arrivarono così a costruire tre scuole, un mulino per la produzione di farina, 66 strade che collegano i diversi municipi, una grande strada di 200 chilometri, numerose chiese e cinque cappelle. Aprirono una rete di canali di irrigazione, tracciarono sentieri che portano alle alte vette, costruirono dighe. Ma, prima di fare tutto questo, edificarono un’enorme casa per esercizi spirituali, capace di ospitare fino 900 persone per volta. I suoi campesinos calati dentro gli esercizi ignaziani: un’apparente pazzia! Lui, il Cura Brochero, fedele alla lezione evangelica, continuò, in assoluta povertà, per quarantacinque anni, a visitare a dorso di mula  i suoi parrocchiani dispersi su un territorio di 144 mila chilometri quadrati. Poi si ammalò di lebbra, e divenne cieco. Un giorno disse: Ora ho le valige pronte, posso partire. E morì, il 26 gennaio 1914,  a Villa del Tránsito, circondato dai poveri, suoi amici. Centovent’anni prima delle chiese del Continente, aveva scoperto da solo l’opzione dei poveri. Soleva dire: “Dio è come i pidoccchi; sta sulla testa di tutti, ma soprattutto dei poveri”. Morì il 26 Gennaio 1914 a Villa del Tránsito (oggi Villa Cura Brochero). Quando hanno riesumato il suo corpo vecchio e malato, l’hanno trovato intatto. Il che non vuole dire niente, solo uno scherzo di Dio. 

 

26 FONDATORI DI CITEAUX.jpgL’abbazia di Cluny,  nata all’inizio del sec.X dall’esigenza di ripristinare l’osservanza dell’austera Regola benedettina, in meno di due secoli,  si era venuta trasformando in un vero e proprio potentato feudale, un centro finanziario come pochi, i cui monaci, sfruttando il lavoro servile,  disponevano di ogni tipo di comfort e, sempre più coinvolti nei loro negozi mondani, oltre che nel fomentare crociate, vivevano dimentichi  della loro chiamata a testimoniare la radicalità evangelica. Nel 1075 Roberto, Alberico e altri monaci, che dipendevano da Cluny,  si ritirarono a Molesmes, nella diocesi di Langres, fondando una nuova comunità. Presto però il denaro e le donazioni che cominciarono ad affluire anche lì riproposero gli antichi guasti: dissolutezza e indisciplina. Dopo molti tentativi di porvi rimedio, uno, dopo l’altro, Roberto, Alberico e Stefano (che era giunto nella comunità dall’Inghilterra solo nel 1085), preferirono andarsene piuttosto che essere complici della situazione. Più tardi i monaci, ravvedutisi, richiamarono i tre e il monastero tornò ad essere ciò che doveva. Tuttavia, il bisogno di vivere più poveramente e austeramente la vocazione monastica,  portò i nostri, nel 1098, a ritirarsi, con altri ventuno monaci, a Citeaux, per fondarvi un nuovo ordine. Nascevano così i Cistercensi.  A Roberto, che ne fu il primo abate, il papa Urbano II impose presto di tornare a Molesmes, dove la situazione si era nel frattempo mostrata ingovernabile. Gli succedette Alberico, eletto unanimemente dai suoi compagni. Il lavoro durissimo dei primi tempi (i monaci dovettero disboscare buona parte della foresta, per disporre di terra da coltivare) e le  persecuzioni scatenate dai monasteri lassisti non riuscirono a scalfire l’entusiasmo della nuova famiglia monastica. I tre morirono santamente come erano vissuti: Alberico il 26 gennaio 1109, Roberto  il 29 aprile 1111 e Stefano il 28 marzo 1134.

 

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono propri della memoria di Timoteo e Tito e sono tratti da:

Lettera a Tito, cap.1, 1-5; Salmo 96; Vangelo di Luca, cap. 10, 1-9.

 

La preghiera del mercoledì è in comunione con quanti, anche fuori da strutture religiose tradizionali, lavorano per costruire un mondo di fraternità, di giustizia e di pace.

 

Christian de Chergé, il priore del monastero trappista di Tibhirine, aveva preso il costume di suddividere i suoi “capitoli” (sono chiamati così gli insegnamenti che l’abate propone periodicamente ai suoi monaci) secondo una scansione tematica. Per oltre un anno, dal maggio 1986 al giugno 1987, il tema prescelto fu quello della conversione, a cui dedicò 95 incontri. Nel capitolo che seguì immediatamente la solennità dei Santi Fondatori di Citeaux, nel gennaio 1987, de Chergé svolse il tema della conversione come tensione all’unità. Il testo è raccolto nel libro “Dieu pour tout jour” (Éditions de Bellefontaine) e noi ve lo proponiamo integralmente, nel congedarci, come nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

Ogni esigenza d’unità implica una CONVERSIONE, e ogni processo di conversione è marcia verso l’unità. La prima ragione di ciò è che una conversione autentica è un’attrazione potente, conquistatrice, decisiva, da parte dell’UNICO che è Dio. Lo Spirito Santo che lavora i cuori fa convergere le loro aspirazioni verso il cuore del Creatore, di cui egli è il battito. Da lì la scorciatoia  che è la preghiera quando si tratta di ricercare i cammini dell’unità tra gli uomini, tra i credenti; la preghiera è propriamente ricerca dell’Unico a cui si rivolge, ed è, insieme, risposta all’Unico che prende l’iniziativa di suscitarla; questa iniziativa si manifesta in mille maniere diverse, in modo da raggiungere ognuno là dove egli si trova, per dargli il gusto della Presena e della relazione. L’Unico di ogni vita non può raccordarsi che alla comunione. Ignora la divisione o l’esclusiva. Concepisce l’unità unicamente come la riunione di TUTTI i figli di Dio dispersi, e se ne manca solo uno all’appello, non è per aver omesso di chiamarlo come gli altri. Il messaggio di Giovanni Battista, raccolto da Gesù, si rivolge a tutti, poichè tutti hanno bisogno di conversione. Gesù non vuole fare eccezione. Lui risponde alla chiamata per ben mostrare l’ORIENTAMENTO del suo cuore verso l’Unico,  ed è là, al Giordano, che il Padre sceglie di rivelare il suo mistero d’unità: il Padre stesso ha un solo sguardo, quello per l’Unico e Ben Amato, è la sua “conversione” eterna, ed è in Lui che ci vede uno, in un solo Spirito, sicché voltarsi verso il Padre come l’Unico, sarà incontrarsi con la predilezione del Padre per ciò che ogni uomo ha di unico, per quello che ognuno incarna  ai suoi occhi in termini di somiglianza  con il suo Unico. Questo mi porta a comprendere meglio il bisogno che ho di ciascuno  per restaurare, progressivamente, l’unità che il Padre vede nel Figlio, per vedere il Figlio come il Padre lo vede. La conversione  al Padre e la conversione al fratello sono le due chiavi inseparabili di un identico mistero d’UNITÀ nel CRISTO, da cui la Scrittura ci dice che nessuno è escluso: “alcuni credono che Dio ritardi nel mantenere la sua promessa, mentre è solo una prova della sua pazienza  verso di noi; non volendo che nessuno perisca, ma che tutti abbiano modo di convertirsi. È ciò che fa che la preghiera di GESÙ, la preghiera in GESÙ, sia formulata in NOI: Padre NOSTRO…. perdonaCI! La conversione e la filiazione sono di tutti” (2 Pt 3, 9). (Christian de Chergé, Dieu pour tout jour).

 

Ricevete l’abraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 26 Gennaio 2011ultima modifica: 2011-01-26T23:49:00+01:00da fraternidade
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